2: My life.
Un giorno, uno dei tanti, restammo più tempo nel piccolo parco di fronte alla mia scuola e mia madre mi disse, mentre mi accarezzava i capelli:-E ricordati, tesoro mio, che non è colpa tua... Stanno succedendo tante cose a casa, e anche se ho provato a crescerti come meglio potevo, siamo costretti a finirla qui- si fermava e piangeva, ma io non soppesavo le parole, non soppesavo le lacrime. La ascoltavo rapita dalla sua voce, dal suo tocco materno, dal fruscio delle foglie, dalla luce che filtrava attraverso queste ultime, bucate dai morsi di qualche bruco. -Ma sappi che sei sempre stata la cosa più bella nella mia vita, e ricordati che ti amo tanto, non come le madri normali, perché io ho solo te...- e a quel tempo non capivo, non ho mai capito.
Poi, si successero molti avvenimenti, ed ero profondamente confusa. Mi ricordo la sagoma sull'asfalto, tutti quei numeri sulla strada, i nastri sparsi per quell'area, le lacrime dei miei nonni, il trasferimento da mio padre, e infine non ebbi più notizie né su mia madre né sui miei nonni. E da lì inizio il periodo che ho vissuto fino a due anni fa, reclusa nella reggia di mio padre, dove sono cresciuta davvero. Di mia madre non ho mai chiesto nulla, anche se tutt'ora mi ricordo quello che è successo, ovviamente con i pensieri di una bambina di sette anni. A casa di mio padre non c'è mai stato nessuno tranne Lilian, la domestica che mi preparava i pasti e metteva in ordine la mia camera, e io avevo la libertà di potermi aggirare per l'enorme villa fuori città, completamente fatta di vetrate infinite e pareti asettiche. Mi nascondevo dagli altri, sfidandoli sempre a trovarmi anche se non mi cercavano, iniziai ad ascoltare la radio e a disegnare; il rapporto con mio padre era un gelido abbraccio e un bacio sulla fronte. A cena non cenavamo mai insieme perché lui era sommerso dal lavoro, e quando iniziai le superiori non ero la stessa bambina felice e spensierata che ero con mia madre. Dato che Lilian era la mia unica amica e fu licenziata da mio padre, mi rifiutai di mangiare e mi rinchiusi in camera, quattro pareti bianche, a scrivere di un'ipotetica vita con mia madre nell'angusta casa della mia infanzia, divertendoci a modo nostro, esplorando tutti i parchi esistenti.
A scuola mi evitavano tutti e mi additavano per 'puttanella', 'asociale', 'bulimica', 'autolesionista', e quelle parole mi entrarono talmente in testa da convincermi di essere diventata ciò che dicevano gli altri, che di me conoscevano solo il nome e il cognome. Nessuno mi cercava, nessuno era attratto da me, e i pochi ragazzi che si avvicinavano incuriositi tentavano una relazione sentimentale con scarsi risultati, mollandomi solo perché capivano che avevo dei problemi seri. La bulimia mi aveva resa fragile, e anche se è solo colpa di ciò che è successo nella mia vita, le do la colpa perfino del mio carattere gelido e indipendente. Una sera, quando scoprii da quello stronzo di mio padre che era morta mia nonna, iniziò un'altra crisi nella mia vita. Oltre alle altre, s'insinuò in me un sintomo ancora non riconosciuto dal mio vocabolario, una crisi composta da un pianto irrefrenabile che riflette la mia solitudine: inizia sempre con un pensiero costante, descrivibile con due parole, "sono sola", poi mi rannicchio nel primo posto angusto che trovo, fasciandomi le gambe con le braccia e appoggiando il mento sulle ginocchia, dondolandomi come faceva mia madre per farmi addormentare, desiderando di dormire per sempre e poi le lacrime, che prepotenti trafiggono le palpebre e scendono a fiotti sulle guance, macchiano tutto ciò che incontrano e mi prosciugano i polmoni, lasciandomi il respiro mozzato, facendomi bruciare la gola. A quel punto, passata una mezz'ora, un'ora, un minuto o anche mezza giornata, smetto sempre di tremare e mi ricompongo, facendo una doccia e rilassandomi come meglio posso, anche se sono sempre stata tesa come la corda di un violino.
Appena finii le superiori, mio padre tentò di mandarmi in qualche college prestigioso per continuare i miei studi, ma non volevo più vedere le facce piene di compassione dei miei compagni di classe, che dicevano "poveretta, è bulimica" senza sapere la verità, che odiavo con tutto il mio cuore rattrappito. Così feci l'unica cosa che mi metteva ancora terrore: presi le poche cose che mi servivano e decisi di viaggiare, alla ricerca di una vita migliore rispetto a quella che avevo, senza progetti, senza amici, senza pensieri né miei, né di chi mi aspettava a casa. Ero e sarei rimasta niente per tutta la mia vita, e valeva la pena sfruttare questa debolezza per fare il fantasma in America.
Scusate il capitolo corto, ma è necessario per iniziare la storia vera e propria. Perdonate eventuali errori, e spero davvero che vi piaccia.
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