𝕾𝖙𝖗𝖆𝖓𝖊𝖟𝖟𝖊
Fu in un pacato silenzio contemplativo che, al ritorno, scendemmo dalla macchina scura di Sebastian.
Attorno a noi si proiettavano i tenui colori rosati del crepuscolo.
Erano l'unica traccia di una giornata che volava via nel vento, perduta nell'immensità del tempo.
Vicine pettegole ci salutavano al passaggio in goffi gesti delle mani.
Il frusciare delle siepi nei giardini rigogliosi, foglie mosse dal vento, ci accompagnò lungo il breve tratto di strada che percorremmo a piedi.
Sebastian mi ricondusse alla pesante porta in legno. Fummo ricevuti dal sorriso gentile di mia madre.
La luce calda della stanza pareva provare a fuggire verso l'esterno.
Ci salutammo gentilmente, sorrisi timidi e una patina di finzione tra le dita sottili.
Gli rivolsi un ultimo gesto della mano e mi rifugiai all'interno.
Scorsi la figura di Tom, distrattamente curvo sul tavolo, apparentemente seguendone le venature con un intenso sguardo castano.
Gli avambracci erano compressi, le caviglie intrecciate. Avvertendo il mio arrivo alzò gli occhi, screziati d'ambra liquido, sul mio volto.
«Ciao».
Desideravo offrirgli di me un'immagine migliore rispetto all'ultima volta che l'avevo visto, il giorno prima.
Quella era stata un'interazione durata il tempo del battito frenetico di un cuore, perciò fui la prima a parlare.
«Sono-» tentennai, trascinando lo stivale scuro sul terreno. Le parole che avrei voluto dire affondarono nell'aria.
«La stessa ragazza che ieri è fuggita a gambe levate» scherzò lui, togliendomi d'impaccio «Non credevo di essere così spaventoso».
La delicatezza intrinseca delle sue parole mi indusse facilmente a rilassarmi. Il modo in cui le sue labbra piene e screpolate si increspavano, gli occhi socchiusi nel divertimento.
Era tutto così rilassato, indulgente.
«Sì» confermai mestamente.
Strinsi un soffice lembo del cappotto scuro fra le dita fini.
«A proposito, mi spiace» borbottai imbarazzata, non sapendo bene dove metter mano. «Sul serio» aggiunsi, cercando di non sembrare troppo infantile, le guance brucianti.
«Fa nulla».
Mosse la mano callosa in un gesto vago, poi mi strizzò un rapido occhiolino.
«Non ci ho neanche fatto caso».
Chiaramente era ironico, ma la sua affermazione mi tirò comunque su di morale. Il peso che avevo sul cuore si scioglieva pian piano, come candida neve al sole.
«Piuttosto» proseguì lui, scostando una pesante sedia indietro dal fianco del tavolo. «Siediti, anche se la casa è tua, non dovrei essere io a dirtelo».
Sbuffò una profonda risata, un gorgoglio così caldo nel suo petto che mi sentii pervadere da una placida sensazione di tranquillità.
Annuii, lasciandomi scivolare via il cappotto dalle spalle. Il caldo del caminetto ora scoppiettante cominciava a raggiungermi.
Soffocava la mia pallida pelle.
Agganciai la giacca all'appendi-abiti nell'entrata, una scrollata di spalle imbarazzata.
La cena fluì tranquilla.
Tom non solo era un bravo ascoltatore, ma anche un buon oratore.
Aveva questa maniera di metterti a tuo agio, come se ogni luce nella stanza scintillasse per lui.
Come se i tuoi occhi fossero costretti a studiare i movimenti sinuosi.
Il tremolante guizzo dei muscoli delle scapole, la bocca piena.
La maniera in cui i suoi occhi si increspavano pigramente.
Il divertimento sembrava essere preponderante nel suo cuore, come se tutto andasse come andava a causa di un divertente gioco del destino.
Le dita callose si contraevano attorno al bicchiere, si strofinavano sulla rada barba appena brizzolata, arruffavano riccioli nei capelli castano-ramati.
In poco tempo appresi che il suo cognome era Phillies.
Aveva vissuto gran parte della sua vita in una piccola contea della Virginia, dove, a sua detta, l'aria era molto più respirabile.
Grande star del football, bravo a scuola e a suonare qualche accordo di chitarra, mai veramente interessato a nulla. Da giovane rientrava nella fascia scolastica di quelli che parevano aver la "P" di popolare marchiata sulla fronte. Anche se quest ultimo dettaglio avrei potuto facilmente dedurlo da sola.
«Ho avuto molto tempo per fare tante di quelle idiozie» borbottò, un tono quasi nostalgico.
«E' stata dura convincere tua madre che ero cambiato, quando ci siamo rivisti allo studio».
Il suo sorriso divenne impertinente, mostrando una lieve traccia della vecchia arguzia. «Sei stato piuttosto perseverante» ammise la donna con una scrollata di spalle.
Sarei stata intenerita da quella conversazione, se non avessi avuto la sensazione di star perdendo qualcosa di estremamente importante.
«Aspettate, aspettate».
Misi le mani avanti, lasciando cadere la forchetta nel piatto, ormai svuotato, in un debole tintinnio.
Attirati i loro sguardi curiosi, mi volsi alla ricerca delle iridi verdeggianti di mia madre. «Mamma, mi hai detto che vi siete conosciuti quando lui è venuto a lavorare nella tua stessa azienda di Marketing» mi lamentai, ritrovandomi un po' spaesata.
«Ed è vero» si difese lei, arricciando le labbra rosee, picchiettò un'unghia curata sulla guancia.
«Andavamo nella stessa scuola ma Tom non era certo un esempio da seguire, o qualcuno da ammirare».
Non si premurò di utilizzare un qualche genere di delicatezza, tuttavia l'uomo non parve notarlo.
«Abbiamo solo-» ronzò, strofinando il bicchiere contro le labbra schiuse, pensieroso «Un passato».
«Ok» borbottai, poco convinta.
Mi chiesi se potesse davvero un essere umano cambiare tanto, seppur in svariati anni. «Quindi adesso so che hai passato la tua adolescenza in Virginia» schernii debolmente.
«L'avresti saputo se avessi usato quel tuo cervelletto, invece che pensare solo a qualcuno che entrambe conosciamo bene». Le lanciai un poderoso calcio negli stinchi, muovendo silenziosamente i piedi sotto il tavolo.
Emise un sussulto, arricciando il naso. «Dove viveva tua nonna, Rose?» canticchiò «la mia cara madre, che mi ha aiutato. Il posto in cui tu sei addirittura nata».
Raramente parlavamo di mia nonna.
Anni prima la vecchiaia l'aveva travolta e, in base a quel poco che mia madre aveva detto, era morta di cancro, o qualcosa del genere.
Ricordavo il suo volto pallido e dormiente, mentre ci veniva concesso l'ultimo saluto.
Ero piccola, ma ricordo di aver pensato che sembrasse così triste, sola.
«Vicino a dove viveva da giovane la nonna di Sebastian,» rimuginai per qualche secondo.
Mia madre inarcò le sopracciglia, suggestiva.
Faceva riferimento al collegamento che mi era venuto spontaneo, ma la ignorai.
«ad Ashland» conclusi, sentendomi sciocca a non averci pensato prima.
«Perciò se io ho vissuto con lei mi pare chiaro che anche io abbia vissuto-».
Si sporse sul tavolo scuro, scostando il piatto bianco di fronte a sé.
I suoi occhi vagarono candidamente nei miei, danzanti.
«Ad Ashland» me lo sussurrò piano, con fare cospiratorio, come se mi stesse confidando un segreto importante.
«Dai, Kate» la richiamò Tom. La sua bocca era contratta.
Due polpastrelli callosi premevano su un sorriso sornione, il gomito posato sul bordo del tavolo.
Probabilmente provò pena per quella povera disgraziata che ero.
«Non prenderla in giro» mormorò cospiratore, dondolando il bicchiere di birra spumosa nell'aria.
«Non scordare che alla sua età eri una ragazza dai sorrisi perfetti con vestiti pastello» le colpì la punta del naso, affondando un polpastrello in una delle sue fossette.
Un gesto così intimo che trattenni un sussulto. Ebbi l'impressione che macchie rosate si estendessero sotto le ciglia di mia madre, quando gli schiaffeggiò via il braccio.
Nascose la faccia dietro la brocca, versandosi e ingurgitando litri di birra, che neppure le piaceva.
Tom ridacchiò rocamente, le braccia incrociate. Mi fissò ardentemente, strofinando le mani.
«Era capace solo di dire Smamma, Phillies, e torna quando avrai imparato cosa sia la gentilezza».
Mosse la mano in un gesto strano, fingendo di studiarsi le unghie.
Modulò la voce in una tonalità acuta.
Dovetti stringermi lo stomaco per trattenere le risate e assicurarmi che ogni costola fosse al suo posto.
Contorcendomi quasi al punto di battere la testa contro il tavolo.
«Spoiler» proseguì.
Spostò gli occhi brucianti su mia madre, che aveva il broncio e le guance infantilmente gonfie «Aveva tutte le ragioni del mondo».
Sembrò sorpresa e scrutandolo, picchiettò le unghie sulla tovaglia azzurra. «Le avevo, sì».
Passò sul tavolo uno sguardo vacuo, appiattendo il fazzoletto con dita bianche. «Ma tu continuavi a provarci, finché un anno dopo rimasi incinta, a diciassette anni. Per colpa di un altro stronzo. Evidente non fossi brava come credevo di essere».
Tom non si lasciò scoraggiare, non aveva finito. «Ed eccomi qui!» aggiunse. Le sue labbra piene erano strette in una linea compatta.
Mi accasciai sulla sedia, curvando la schiena. Nascosi la faccia sotto il tavolo, imitata da mia madre.
Quello fu l'evento più tortuoso della serata, per il resto corse tutto tranquillo. Fra scherzi, risate e un imbarazzo non indifferente da parte mia, infine, la cena si concluse.
Raggiunsi la consapevolezza che fosse impossibile battere Tom con le parole.
Non riuscivo a credere che qualcuno, persino mia madre, avesse potuto smussare quella sua mente affilata.
Dopo averlo salutato sulla porta, salii le scale di legno della mia camera.
Avvertivo la sonnolenza della stanchezza, piccoli tonfi emessi dai bassi tacchi mi accompagnarono.
«Aspetta, Rose»
Fu la voce di mia madre a riportarmi alla realtà. Già arrivata al gradino più alto, mi voltai in un frusciare di morbide ciocche ramate, i riccioli ricaddero lungo le spalle.
«Già» mi resi conto, tendendo le labbra in un flebile sorriso.
Attesi che mi raggiungesse al piano superiore. Lo fece, strofinando le dita contro il bordo della ringhiera.
«Stamattina mi hai detto che volevi informarmi di qualcosa» affermai, stringendo le dita le une nelle altre dietro la schiena.
«Esatto» convenne mia madre.
Si rassettò la maglia sbiadita con mani impacciate. Mossi la testa.
Avvertii i capelli solleticarmi una spalla spruzzata di lentiggini, scoperta dalla morbida maglia viola di cotone.
«Hai presente il discorso sulla Virginia?» Destò rapidamente la mia curiosità. Mossi il peso da un piede all'altro, a disagio.
«Sì, certo» convenni immediatamente, desiderosa di conoscere il fine di quel discorso, ma anche intimorita dalle possibilità.
«Penso che dovresti portarcelo» concluse lei, criptica. Incrociò le braccia al petto, il volto lievemente corrucciato nella preoccupazione.
«Chi?» Domandai confusa, osservando attentamente la sua espressione che mutava in una esasperata.
Come se si stesse domandando da chi avessi ripreso la stupidità.
«Proprio ora decidi di desintonizzarti dalla tua linea di pensiero» si passò le dita pallide fra le ciocche castane, arruffandole disperata.
«Sebastian, chi altri?» affermò poi, con veemenza. Mi ritrovai spaesata, schiusi le labbra più volte, boccheggiando, molto perplessa.
«Non puoi cominciare il discorso dall'inizio?» Domandai esitante. «Non credo di aver capito bene».
Increspò le labbra rosee, deglutendo, lievemente ansiosa.
«Bene, è un po' che ci penso. Dal nostro discorso su Tom» indugiò qualche secondo, come riconsiderando la prospettiva.
Apparentemente giunse, però, sempre alla stessa conclusione «Non so bene cosa stia succedendo, perché tu sia tanto stressata, ma non ti fa-».
Si corresse. «Vi fa-» si dondolò sui talloni delle scarpe da tennis, le mani nelle tasche «bene. Eleonor è d'accordo con me, potreste stare nella sua vecchia casa, riposarvi un po' non vi farebbe male». Detto questo, tutto d'un fiato, rimase in attesa di una mia risposta.
Tentennai sorpresa.
«Ma non si può, voglio dire» strinsi il labbro inferiore fra i denti. «Dovremmo spostarci da qui, da Sylva, in Nord Carolina» saggiai le ultime parole sulla lingua, calcandole particolarmente.
«Fino ad Ashland, che è in Virginia» scossi la testa, schiarendo gli affollati pensieri «Ci vorrebbero due ore di viaggio come minimo».
Più ci pensavo, più le mille cose che avevo da fare mi si affollavano nel cervello «Anche se fosse, devo ancora aiutare Erika con l'esposizione».
«C'è la festa di Halloween fra due giorni a cui mi ha invitato» contai sulla punta delle dita ogni punto «devo annaffiare le Gardenie della signora Prunes, Ash rischia di essere rimandata in più di una classe, Bai-».
Mia madre bloccò il mio sgorgare senza senso. Strinse le mani attorno ai miei avambracci, scrutando lo stelo sottile del mio busto. «Rose».
Solo il mio nome e sentii il respiro esplodere nel petto.
Inspirai ed espirai lentamente.
«Non devi fare qualcosa per ogni essere sulla terra», mi redarguì, scrutandomi seria fra ciglia castane.
I suoi occhi erano duri smeraldi.
«In ogni caso non voglio costringerti ad abbandonare gli impegni che hai preso» esaminò le mie micro espressioni. Mi mordicchiai il labbro.
«Voglio che tu ami queste vacanze di Natale» strabuzzai gli occhi, le iridi marine colme di sorpresa. «Stareste con Eleonor, io vi raggiungerei in tempo per la Vigilia» sbuffò.
Le dispiaceva probabilmente non poterci essere prima, in fondo quella era la terra della sua infanzia.
«Oh» borbottai, riconsiderando la proposta «non sarebbe male cambiare aria» mia madre arricciò le labbra in un sorriso. Tutta contenta mi voltò le spalle, probabilmente pronta ad avvertire Eleonor per via telefonica.
La scelta era la migliore che potessi fare, me lo ripetei più volte mentre riprendevo il mio percorso.
Volevo rassicurarla.
E riposare. Molto.
Eppure, tuffandomi fra le candide lenzuola dal profumo di lavanda, avvertivo nel mio respiro la pesante consapevolezza di quella decisione.
Temevo che la mia assenza sarebbe stata più importante di quanto credessi, che all'ammontare delle colpe si sarebbe aggiunto ben altro.
La coscienza sporca di una criminale.
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𝔈 𝔞𝔡𝔢𝔰𝔰𝔬 𝔰𝔬𝔩𝔬 𝔪𝔢!
𝙱𝚞𝚘𝚗𝚐𝚒𝚘𝚛𝚗𝚘! 𝚂𝚝𝚘 𝚐𝚒𝚘𝚎𝚗𝚍𝚘 𝚙𝚎𝚛𝚌𝚑𝚎́ 𝚑𝚘 𝚝𝚛𝚘𝚟𝚊𝚝𝚘 𝚒𝚕 𝚖𝚘𝚍𝚘 𝚍𝚒 𝚒𝚗𝚜𝚎𝚛𝚒𝚛𝚎 𝚕𝚊 𝚌𝚒𝚝𝚝𝚊̀ 𝚒𝚗 𝚌𝚞𝚒 𝚜𝚒 𝚝𝚛𝚘𝚟𝚊𝚗𝚘, 𝚘𝚛𝚊 𝚜𝚒 𝚌𝚘𝚖𝚒𝚗𝚌𝚒𝚊 𝚍𝚊𝚟𝚟𝚎𝚛𝚘, 𝚜𝚘𝚗𝚘 𝚒𝚙𝚎𝚛 𝚎𝚌𝚌𝚒𝚝𝚊𝚝𝚊, 𝚖𝚊 𝚒𝚕 𝚟𝚒𝚊𝚐𝚐𝚒𝚘 𝚎̀ 𝚜𝚘𝚕𝚘 𝚊𝚗𝚗𝚞𝚗𝚌𝚒𝚊𝚝𝚘, 𝚗𝚘𝚗 𝚙𝚎𝚗𝚜𝚊𝚝𝚎 𝚌𝚑𝚎 𝚜𝚒 𝚙𝚊𝚛𝚝𝚊 𝚍𝚘𝚖𝚊𝚗𝚒, 𝚑𝚘 𝚙𝚎𝚗𝚜𝚊𝚝𝚘 𝚍𝚒 𝚏𝚊𝚛𝚎 𝚞𝚗𝚘 "𝚜𝚙𝚎𝚌𝚒𝚊𝚕𝚎" 𝚙𝚎𝚛 𝚍𝚘𝚖𝚊𝚗𝚒, 𝙷𝚊𝚕𝚕𝚘𝚠𝚎𝚎𝚗, 𝚖𝚊 𝚗𝚘𝚗 𝚎̀ 𝚙𝚛𝚘𝚙𝚛𝚒𝚘 𝚜𝚙𝚎𝚌𝚒𝚊𝚕𝚎, 𝚕'𝚒𝚍𝚎𝚊 𝚐𝚒𝚊̀ 𝚕'𝚊𝚟𝚎𝚟𝚘, 𝚌𝚘𝚖𝚞𝚗𝚚𝚞𝚎 𝚏𝚊𝚝𝚎𝚖𝚒 𝚜𝚊𝚙𝚎𝚛𝚎 𝚌𝚑𝚎 𝚗𝚎 𝚙𝚎𝚗𝚜𝚊𝚝𝚎 𝚍𝚎𝚒 𝚛𝚎𝚝𝚛𝚘𝚜𝚌𝚎𝚗𝚊 𝚌𝚑𝚎 𝚜𝚝𝚊𝚗𝚗𝚘 𝚊𝚗𝚍𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚊 𝚌𝚘𝚜𝚝𝚎𝚕𝚕𝚊𝚛𝚎 𝚕𝚊 𝚜𝚝𝚘𝚛𝚒𝚊.
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