𝕼𝖚𝖆𝖑𝖈𝖔𝖘𝖆 𝖉𝖎 𝖔𝖗𝖗𝖎𝖇𝖎𝖑𝖊

Percepivo il coccio azzurro della tazza colma di bollente caffè, che tenevo in mano, ustionarmi le delicate estremità delle dita. Non feci una piega, il dolore non deviava minimamente le mie capacità di ragionamento.

Neanche il grosso livido, che faceva sfoggio di sé, violaceo, attorno alla mia gola pulsante, mi provocava una qualche istintiva smorfia o reazione.
La mia mente era frenetica, nella disperata corsa che era il rincorrere qualcosa di irraggiungibile.

Tra quei tanti tormenti, si affacciavano anche, talvolta, pensieri casuali e superficiali.
Mi chiesi, ad esempio, come una bevanda eccitante, come il caffè, potesse aiutare a ristabilire la calma in una psiche traumatizzata.

La coperta rossa a quadri sembrava pesarmi sulle spalle, come un faticoso fardello. Mi pareva di essere seduta su quella sedia traballante, posta davanti alla scrivania in mogano nella stanza, da interminabili ed estenuanti ore.

L'immagine avrebbe potuto riportare alla mente quella di una ragazza intimorita, richiamata nell'ufficio del preside per rispondere alle conseguenze di una sua marachella.

Avrei tanto voluto fosse così. In quel caso ad agitare il mio frenetico cuore sarebbero stati sentimenti ben differenti. Una tale sofferenza non sarebbe stata presente a bloccarmi ed intorpidirmi i doloranti muscoli.

La piccola ed elegante porta della stanza si chiuse sul proprio battente, con un tonfo, segnalando l'entrata sicura di una donna dall'aria elegante.
«Mi dispiace per averla fatta aspettare» si scusò, sedendosi dietro la scrivania. Incrociò le gambe, fasciate da un paio di calze color carne «Mi chiamo Evelyn Carson».

Mi rivolse un vermiglio sorriso zuccheroso. Potevo dedurre avesse all'incirca quarant'anni dalle lievi rughe d'espressione che erano andate a posarsi agli angoli delle sue labbra, portate dallo scorrere del tempo.

Aveva tentato di coprire quelle piccole imperfezioni con spropositate quantità di trucco. Probabilmente era attanagliata dalla disperazione che arrivava con la consapevolezza di non aver ancora raggiunto i traguardi importanti della vita.

«So che la sua esperienza deve essere stata terrificante...» mi riscosse. Artificiosa comprensione si affacciava nei suoi, altrimenti vuoti, occhi marroni «Ma sicuramente comprenderà che abbiamo bisogno di una sua deposizione, signorina...».

La superficialità di quella donna mi infastidì. Ero certa che, prima di venire a dirmi che conosceva ogni mio pensiero, avrebbe dovuto almeno informarsi su quale fosse il mio nome.
«Wilson» la mia risposta fu gelida e istantanea. Lei non se ne accorse, o lo reputò come dovuto allo shock.

«Non le piace il caffè, signorina Wilson?» Proseguì, lanciando un'occhiata alla pesante tazza, ancora piena e pesante fra le mie mani.

«Non proprio» borbottai, scuotendo lievemente la testa. I ciuffi ramati mi solleticarono il volto nel movimento. Avevo un freddo cane, una patina di sudore ghiacciato mi inumidiva il collo e la fronte. Non sarei riuscita a fare un respiro profondo neppure a pagarlo. Posai il piccolo contenitore sulla scrivania.

«Dovrebbe berlo» insistette la donna. «Il calore aiuta in queste situazioni, ma...» schioccò le labbra sottili, dalla forma stretta e severa «faccia come meglio crede».

Posai lo sguardo sulla sua figura, senza ribattere, in attesa. Si mosse a disagio sulla sedia. La grigia gonna stretta emise un debole fruscio «Allora, perché non inizia a raccontarmi ciò che è successo?».

Cominciai a parlare.

Durante l'estenuante viaggio sull'auto della polizia, sedute dietro come due criminali, io ed Erika, imbarazzate e stanche, ci eravamo messe d'accordo su una versione comune, che non includesse il paranormale.
Il corpo del vampiro, pochi secondi dopo la fuga di Sebastian, si era completamente polverizzato, tramutato in cenere scura, neanche una goccia di sangue nero a testimoniare l'accaduto.
Conveniente.

«Perciò» Riassunse lentamente Evelyn Carson, bevendo il caffè, ormai freddo, che un tempo mi era appartenuto «la sua amica, quella che adesso sta venendo interrogata in separata sede, è venuta a chiamarla, avendo sentito un rumore».

Annuii, in assenso. La donna, che pareva avere un tic, schiuse le labbra tenute appiccicate dal lucidalabbra.
«Siete andate insieme nel luogo dove ciò era avvenuto» fece una breve pausa. Bevve un altro sorso della bevanda amara «e lì qualcuno l'ha aggredita, per poi darsi alla fuga all'arrivo dei docenti? Tutto corretto?».

Annuii nuovamente.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, il mio unico desiderio era quello di tornare a casa alla svelta. Ero certa che avrei ritrovato Sebastian lì.

«D'accordo, scriva tutto e qui abbiamo finito, sua madre è già arrivata, l'attende fuori» affermò, finalmente, la signora Carson.
Mi porse un liscio foglio a righe e una piccola penna nera a sfera. Mi affrettai a scrivere, veloce quanto potevo esserlo mantenendo una calligrafia leggibile.

Una volta terminato, un'agente in uniforme mi scortò fuori, attraverso il portone centrale.
L'aria fresca, all'esterno, tornò a riempirmi i polmoni, come un alito di vita. Fui certa che le mie guance fossero tornate a tingersi di quella lieve spruzzata di rosa che le contraddistingueva.

Non faceva molto freddo, bastava a donarmi un po' di refrigerio. La mia pelle pallida non era più scossa da alcun brivido. Nonostante indossassi solo un leggero maglioncino marrone.
Mi guardai intorno fra le ombre del parcheggio. Scorsi mia madre corrermi incontro, mi si gettò fra le braccia. Strinse poi con forza.

Rassicurata dal suo delicato profumo di pulito e lavanda, sorrisi. «Tranquilla» annaspai felice «sto bene».

Il viaggio in auto fu silenzioso. L'aria tra noi fu popolata dalle domande che, sapevo, mia madre desiderava pormi, ma che aveva rimandato al ritorno a casa. Appena varcata la porta in legno della nostra abitazione, a cui tanto avevo bramato tornare, infatti, mi fece accomodare sul divano azzurro e comodo, con un'occhiata seria, incrociò le braccia sotto il seno.

Così, sotto il suo sguardo avido, ripercorsi passo passo la storia che mi sembrava, ormai, di aver raccontato centinaia di volte. Una canzone le cui parole erano impresse a fuoco nella mia mente.
«Non mi convince» sentenziò, infine, inarcando elegantemente un sopracciglio castano dalla forma fine.

Il cuore prese a martellarmi nel petto, mi chiesi se sarei mai riuscita a mantenere i miei battiti a una frequenza cardiaca normale. Raggiunsi la conclusione che la sola presenza di Sebastian mi avrebbe impedito la realizzazione di quell'impresa.

«C-cosa non ti convince?» riuscii a tirarmi fuori dalle labbra rosee quella domanda, sfruttando una forza di volontà non indifferente.

«Una sola cosa» rispose immediatamente mia madre, sventolando un dito, pallido e ben curato, in aria «In tutto questo, dov'era Sebastian?».

La paura che agitava il mio animo si tramutò in vero e proprio panico.
«Io... Io non lo so» borbottai alla fine. Spostai lo sguardo sulle piastrelle del parquet, che avevano assunto, improvvisamente, un'aria interessante.

Percepivo lo scetticismo provenire dal corpo minuto di mia madre, a ondate.
«Ma per chi mi prendi?» Sbottò, infatti, battendo uno stivale scuro sul terreno, con stizza. Schioccò le labbra, spingendo la treccia dietro la schiena.

«Voi siete sempre insieme» Mi ricordò «almeno sarebbe venuto in centrale, e poi...». Alzai nuovamente lo sguardo su di lei, si stava mordendo il labbro inferiore, indecisa: «Quando si tratta di te lui ha... Una specie di... sesto senso».

Riprese fiato calmandosi. Gli occhi verdi, colore che popolava la metà delle mie iridi, tracciarono il mio viso. «Per questo...» sospirò «Ho una teoria».
Trattenni il respiro. Visto il sorrisetto vittorioso che prese possesso dei lineamenti di mia madre, immaginai di essere sbiancata visibilmente.

«Secondo me» Riprese, più sicura
«Sebastian, in realtà, ha rincorso l'aggressore. Non lo invidio affatto, il tuo ragazzo lo ridurrà a brandelli» l'orgoglio si intrecciò alla sua voce.

Lasciai andare il respiro che mi si era bloccato nel petto, sollevata. Mi concessi un sorriso, mia madre era una donna particolare. Poi arrossii.

«Seb non è il mio ragazzo» scandii, lei scrollò le spalle con aria innocente. Sedendosi al mio fianco, accese la televisione.
Poco dopo, mi dileguai verso la mia stanza, adducendo come scusa la stanchezza.

Entrando, compresi subito che lui era lì, la sua presenza, o assenza, per me era semplice da individuare. Tutto il mio mondo girava attorno ad essa, ne ero assuefatta.
Mi richiusi la porta alle spalle, con un lieve tonfo.

Seduto sul mio letto, una mano a scompigliarsi i ricci corvini, Sebastian rivolse a me il suo sguardo. Le iridi grige erano screziate da incubi e tormenti, risvegliati da un atto fulmineo, volto alla mia protezione.

«Perdonami» Quella era una supplica. La stessa supplica che lui mi rivolgeva ogni giorno, tutte le volte che i suoi occhi si posavano sui miei. Una supplica silenziosa, che prima di quel momento non avevo mai potuto contestare, rimasta inespressa.

«Non ho nulla da perdonarti» Pregai che comprendesse il valore perpetuo di quelle parole. Che rimanessero intrappolate nella roccia che era la nera corazza posta attorno al suo cuore. «Mi hai salvata».

Scosse la testa, negando, come sempre, la purezza delle sue azioni «Ti ho mostrato qualcosa di orribile» affermò. La sentenza giudice che si imponeva da solo era un paletto nell'anima «Qualcosa che non avresti mai dovuto vedere».

La sua voce era certa, eppure delicata nel rivolgersi a me, nel timore di una mia fuga, forse. Avrei voluto urlargli contro. Fargli comprendere che non sarei mai scappata da quella vita, che lui non era la trappola, ma colui che mi tirava fuori da essa. Lui mi salvava.

«Di cosa stai parlando?» Una domanda di cui già conoscevo la risposta. La espressi ugualmente nella speranza di cessare il perpetrarsi di quegli sguardi ermetici, parole taciute, soffocate, nell'impossibilità di ribattere.

«Il mio vero io» rispose.

Ciò che bruciava i miei occhi, forse, non erano lacrime, e ciò che muoveva le mie azioni, forse, non era amore. Se lui era un essere orribile, allora, io non ero più io, ciò che credevo fosse non era.
Ciò che lui credeva di avermi mostrato quella sera, era in realtà ciò che sempre avevo visto.

«Io amo il vero te» lo dissi, come avevo desiderato fare ogni giorno. Non mentivo.

Si alzò dal letto, rapido. La rabbia era impressa nei suoi passi, che attraversavano la stanza, in un loop continuo «Rose tu non-».

«No!» lo interruppi, non disposta ad ascoltare altre accuse, attirando la sua attenzione «Non dire che non capisco, io capisco benissimo, il vero te l'ho sempre conosciuto e non mi ha mai spaventata, al contrario, mi ha sempre fatto sentire protetta».

Si avvicinò lentamente a me, non indietreggiai. Parte del suo sguardo mi era celata dai suoi ciuffi corvini. Posai la mano sul suo viso, in modo che fosse diretto verso di me.
I nostri sguardi si incatenarono, nel ferro grigio dei suoi occhi. L'unica cosa che desideravo era cancellarne la tristezza.

I nostri volti erano a un soffio l'uno dall'altro.
Le nostre labbra così vicine che sarebbe stato sufficiente il tremito di un soffio a farle sfiorare.
Mi sembrò di star respirando l'aria di Sebastian, mai nulla mi era parso più giusto.

Sapevo che avremmo continuato a vivere così, nell'attesa di un attimo che non sarebbe mai arrivato.
L'inerzia di un secondo che non sarebbe mai volato via nel tempo.

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𝕰 𝖆𝖉𝖊𝖘𝖘𝖔 𝖘𝖔𝖑𝖔 𝖒𝖊!

𝖡𝗎𝗈𝗇𝗀𝗂𝗈𝗋𝗇𝗈!
𝖬𝗂 𝖽𝗂𝗌𝗉𝗂𝖺𝖼𝖾 𝖽𝗂 𝗇𝗈𝗇 𝗌𝗍𝖺𝗋 𝗉𝗋𝗈𝗌𝖾𝗀𝗎𝖾𝗇𝖽𝗈 𝗀𝗅𝗂 𝖺𝗀𝗀𝗂𝗈𝗋𝗇𝖺𝗆𝖾𝗇𝗍𝗂, 𝗆𝖺 𝗉𝗋𝖾𝖿𝖾𝗋𝗂𝗌𝖼𝗈 𝖼𝗈𝗇𝖼𝖾𝗇𝗍𝗋𝖺𝗋𝗆𝗂, 𝗉𝖾𝗋 𝗂𝗅 𝗆𝗈𝗆𝖾𝗇𝗍𝗈, 𝗌𝗎𝗅𝗅𝖺 𝗋𝖾𝗏𝗂𝗌𝗂𝗈𝗇𝖾 𝖽𝗂 𝗊𝗎𝖾𝗌𝗍𝗂 𝖼𝖺𝗉𝗂𝗍𝗈𝗅𝗂, 𝗉𝗋𝗂𝗆𝖺 𝖽𝗂 𝗉𝗋𝗈𝗌𝖾𝗀𝗎𝗂𝗋𝖾.
𝖢𝗁𝖾 𝗇𝖾 𝗉𝖾𝗇𝗌𝖺𝗍𝖾 𝖽𝖾𝗅𝗅𝖺 𝖼𝗈𝗉𝖾𝗋𝗍𝗂𝗇𝖺?

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