Capitolo 1

Y/N'S POV:

I primi appuntamenti, si sa, sono una palla micidiale. O almeno lo sono i miei, da un bel po’ di tempo a questa parte.

Sono arrivata quasi a convincermi che qualcuno mi abbia lanciato addosso una devastante maledizione che mi impedisce di incontrare uomini dignitosi.

Notare bene: non ho detto straordinari o eccezionali – volutamente – ma solo dignitosi. Il che equivale più o meno ad accontentarsi di non avere a che fare con un serial killer.

Sulla carta dovrebbe essere facile.

Nella vita reale? Per niente.

Tra l’altro, confesso di aver passato buona parte della mia vita a essere difficile, così tanto che a un certo punto ho dovuto decidere di darci un taglio e di accontentarmi. Verbo discretamente insulso, me ne rendo conto. Ma non posso farci niente: quello che sto vivendo non passerà di certo alla storia come l’epoca in cui l’umanità abbia dato il meglio di sé in quanto a potenziali partner. Nemmeno per sbaglio. Il convento passa modelli alquanto miseri.

Tuttavia, pur nella mia attuale posizione di donna “non particolarmente esigente” pare che non ci sia speranza di scovare uomini appena sopra la barra della decenza.

Esemplari maschili noiosi, egocentrici, con zero senso dell’umorismo e totali megalomani? Avanti il prossimo.

Uomini stimolanti, intelligenti, capaci di ridere di sé e di farti ridere? Estinti. Del tutto.

Davvero, cosa diavolo ne è stato degli uomini meritevoli? Si sono sposati tutti al primo giro di boa?

Una persona meno determinata si sarebbe già rassegnata e avrebbe optato per la pace dei sensi, ma a me non è consentito per diversi motivi: primo fra tutti il mio lavoro. È difficile rinunciare all’idea del sesso con un uomo degno di nota se di professione si scrive di erotismo. E poi non sono il tipo. Io e il sacrificio non andiamo granché d’accordo per semplici questioni caratteriali. Motivo per cui, per quanto le statistiche non siano dalla mia parte, vado avanti a suon di primi appuntamenti, in attesa che l’ultimo uomo decente, quello sfuggito all’estinzione di massa, si decida finalmente a incrociare il suo percorso con il mio.

Cosa faccio mentre attendo questo messia? Be’, per iniziare ci bevo su.

«Vuoi un’altra birra, Y/n?», mi chiede lo sfigato numero 37 che, se non altro, si è accorto del mio bicchiere vuoto.

Incredibile ma vero, un numero sorprendentemente alto di uomini non ha nemmeno il buon senso di attutire le mie sofferenze con dell’alcol decente.

Ho detto trentasette. Ebbene sì, sto prendendo nota.

Nell’arduo mondo dei primi appuntamenti coreani, trentasette è un numero basso o alto? Confesso di non saperlo. Tra l’altro, mi è difficile fare paragoni con le mie amiche perché pare che all’improvviso si siano tutte decise a vivere un’idilliaca vita di coppia. Orrore. Trovo che ci sia davvero tanto erotismo sprecato nella monogamia, ma contente loro…

«Sì, grazie». Mi sforzo di sorridergli riconoscente, nonostante abbia sventolato il mio bicchiere vuoto di fronte al suo grosso naso per venti minuti buoni. Non pensavo ci arrivasse. Dico davvero, ormai avevo perso le speranze.

«Faccio in un attimo», si congeda.

Finalmente… Lo osservo allontanarsi: non solo non ha una grande personalità, ma nemmeno un culo interessante. E io trovo che oggigiorno un uomo debba possedere entrambi. Per esempio, il fondoschiena di quello che si sta facendo servire accanto allo sfigato numero trentasette… Sì, quello è un sedere come Dio comanda: indossa dei banalissimi jeans che però enfatizzano due rotondità praticamente perfette. Sospiro sonoramente: perché non mi capitano mai uomini simili?

Chin-hae, Chin-hwa o Chin-mae – in qualsiasi modo si chiami il mio appuntamento di questa sera – torna al tavolo fin troppo in fretta e mi costringe a rivolgere la mia attenzione sul suo volto piuttosto che sul fondoschiena che tanto aveva catturato il mio interesse. È un peccato che io conosca ancora le buone maniere e non riesca a ignorarlo.

«Quindi, dicevamo, tu scrivi…», ripete meravigliato per la terza volta quello che, tempo un minuto scarso, ho subito etichettato come “per nulla scopabile”.

«Sì, scrivo». La mia voce è di un’ottava più alta del solito, segno che la sopportazione sta per raggiungere i livelli di guardia.

«E riesci a viverci? Davvero?». La derisione implicita nel discorso non mi sfugge di certo. Non credo nemmeno che lo scopo fosse che io la ignorassi, a dire il vero.

«Oh, più che bene», gli rispondo senza la minima esitazione. Anzi, è altamente probabile che faccia più soldi di lui, ma è brutto da rinfacciare a un primo appuntamento, come ho scoperto mio malgrado. Anche se l’uomo in questione è un idiota.

«Incredibile. Ho sempre pensato che gli scrittori fossero una categoria ai limiti della sopravvivenza…».

Ha intenzione di andare avanti ancora per molto con questa storia?

«Be’, pensavi male».

«E cosa scrivi?», chiede sporgendosi curioso.

E qui arriva un altro momento non richiesto di sincerità: riguardo a questo particolare tema non sono sempre schietta. Gli uomini tendono infatti a reagire in due modi di fronte alla scoperta della mia professione: o sono dei repressi e quindi si spaventano, oppure mi scambiano per una specie di escort e si sentono autorizzati ad allungare le mani, salvo guardarmi in cagnesco quando li sistemo per le feste. Corso di autodifesa avanzato, unito a una non comune predisposizione naturale a ginocchiate indimenticabili. Ecco perché, quando mi ritrovo di fronte a un semisconosciuto che mi rivolge questa specifica domanda, di solito tendo a mentire, in attesa di capire meglio con chi ho a che fare.

Ma Chin-hae, Chin-hwa o Chin-mae mi sta facendo irritare con il suo atteggiamento vagamente supponente e si merita subito la verità. Per quanto dubiti riesca a reggerla. Non mi pare che abbia le spalle sufficientemente grosse. In tutti i sensi. Altro difetto da aggiungere alla lista.

«Scrivo romanzi erotici», gli rispondo e sorrido angelica.

Come da copione, all’ebete va di traverso un sorso del vino rosso che stava bevendo – chi mai berrebbe vino simile in un pub sportivo, tra l’altro? – e inizia a tossire violentemente. Che sia chiaro, se dovesse iniziare a soffocare, ho tutta l’intenzione di lasciarlo perire. Ognuno è artefice del proprio destino, per quel che mi riguarda.

«Oddio, davvero?», mi chiede rosso in volto. Non so se sia colpa della tosse o se invece sia l’imbarazzo la causa del suo viso da pomodoro.

«Sì», non ho problemi a confermargli in estrema sintesi. Nel frattempo non resisto dal lanciare ancora un’occhiata al bancone: il proprietario del sedere delle meraviglie si è spostato nell’angolo in fondo al locale e ora sta giocando a freccette con dei ragazzi. È alto, moro e, sebbene lo stia affermando solo dopo averlo visto di lato, pare uno schianto.

Esattamente, perché sono qui seduta a perdere tempo?

Mi rendo conto che, essendo una trentenne single, dovrebbe capitarmi di continuo di incontrare sconosciuti che possano solleticare la mia curiosità, eppure non accade quasi mai. Nonostante l’apparenza, sono diffidente per natura, motivo per cui è probabile andasse ancora di moda la lambada e i cellulari servissero solo per telefonare, l’ultima volta che ho sentito l’impulso di abbordare qualcuno in un bar. Peccato che non possa farlo ora perché mi trovo bloccata al tavolo con uno che si è presentato in giacca e cravatta per portarmi in un pub…

La giacca è a quadri, tra parentesi. Davvero, perché il mondo è così crudele con me?

«Be’… be’…», balbetta il numero trentasette, non sapendo cosa dire.

Per sua fortuna, io ho le idee molto più chiare. Direi che per questa sera abbiamo finito.

«Ti dispiace se vado un secondo in bagno?». Va da sé che la mia è una domanda retorica. Non aspetto nemmeno che mi risponda che sono già in piedi. Mi sono appena accorta che l’angolo delle freccette è proprio adiacente al bagno delle signore e non riesco a resistere alla tentazione di dare un’occhiata da vicino al misterioso uomo-fondoschiena. Sì, lo sto squadrando, e no, non mi sento affatto in colpa. Il politicamente corretto ha preso così tanto il sopravvento che temo l’umanità finirà presto per estinguersi dalla noia. Noia supercorretta, sia chiaro, ma sempre noia.

Ho solo intenzione di guardare. In fin dei conti sono una scrittrice; fantasticare su uomini sexy mi aiuta a scrivere libri sexy. E le mie lettrici questo vogliono: lenti degli occhiali che praticamente si appannano dal calore emanato dalle pagine.

Se sia davvero possibile? Be’, sì, se uno possiede un modello piuttosto antiquato di ebook reader che tende ad andare in cortocircuito. Una volta quegli oggetti non erano così pratici come quelli odierni. La combustione spontanea è decisamente meno probabile di questi tempi. Ma io metto comunque tutto l’impegno possibile per far divertire chi mi legge.

Mi prendo il mio tempo per arrivare all’ingresso del bagno e ancora più tempo per appoggiarmi allo stipite, fingendo che sia occupato. Magari lo è, chi può dirlo.

L’uomo-fondoschiena si è appena sollevato da uno sgabello e ha iniziato a tirare. Con le freccette fa schifo, ma lui è davvero una visione. Quando manca del tutto il cerchio, facendo rimbalzare una freccetta sulla parete, mi scappa inavvertitamente una risata.

«Lo so, lo so, sono un caso perso», ride mentre si incammina a raccogliere la sua arma. Vista la mira che ha, rischia sul serio di rivelarsi pericoloso.

«Il segreto è tutto nel polso», mi permetto di intervenire.

Ho detto che non gli avrei parlato? Be’, mentivo, mi pare ovvio!

Lui raccoglie la freccetta e solleva lo sguardo, curioso di scoprire con chi ha a che fare. In genere gli uomini rimangono positivamente colpiti dal mio aspetto e del palese apprezzamento si materializza sempre nei loro occhi, ma questo particolare esemplare maschile o è terribilmente bravo a dissimulare le sue reazioni oppure è gay.

Ti prego, astrusa divinità in cui non credo nemmeno, fa che non sia gay…

«A mia discolpa posso solo dire di aver rotto gli occhiali. In teoria ci vedo, in pratica meno del solito».

«Niente scuse, Hope!», lo riprende un suo amico. «Tu usi gli occhiali solo per leggere!».

Assaporo il nome nella mia testa. Hope… un nome che gli dona.

Se da lontano era uno splendore, da vicino è sfacciatamente attraente, specie se si considera che indossa dei vecchi jeans con un’ampia felpa. Altezza giusta, corporatura giusta, bellissimi capelli castani né troppo corti né troppo lunghi, grandi occhi nocciola. Non dovrebbe essere sexy eppure lo è. Ha uno sguardo intelligente, positivo, curioso. Da dove è uscito, di preciso?

«Be’, Hope, che tu ci veda o meno, devi comunque tenere la mano ferma nel momento del lancio. Così, ti faccio vedere». Senza lasciargli molta scelta, gli sottraggo le freccette e passo alla dimostrazione pratica, riuscendo nell’impresa di colpire il centro più centro che ci sia. Cosa posso dire, lavoro bene sotto stress.

«Però…», mormora colpito, prima di tornare a ridere. «Ora mi sento ancora di più una schiappa!».

«Sfida! Sfida!», grida un altro ragazzo della sua compagnia.

«La signorina avrà sicuramente di meglio da fare che sfidare un caso perso come me», cerca di togliermi d’impaccio con lo stesso irresistibile sorriso di poco prima. Un gesto che trovo incredibilmente galante, tutto a un tratto.

«No, non ho di meglio da fare», sono velocissima a replicare, in barba alla solita legge della giungla metropolitana che impone di fingere per non svelare troppo presto il proprio interesse. Ho voglia di vivere pericolosamente.

Nel frattempo, dall’altra parte del pub, il numero trentasette mi sta guardando con un’espressione interrogativa; una donna molto più adatta a lui gli si è avvicinata e sta evidentemente domandando se può sedersi. Sì, da queste parti gli esemplari maschili decenti scarseggiano a tal punto che persino un uomo con una giacca orrenda riesce comunque a rimorchiare senza muovere un dito. Mi rendo conto di quanto sia ingiusto, ma questa è la triste realtà con cui abbiamo a che fare.

Be’, quello che è giusto è giusto e io, a differenza di quanto si dice, sono stronza solo quando serve. Motivo per cui sollevo il pollice come incoraggiamento. Lui mi sorride tutto contento e poi torna a voltarsi verso la donna. Che mi serva di lezione: mai uscire con dei contabili. Non abbiamo nulla in comune.

«A proposito, io sono Y/n». Torno a concentrarmi sulla persona che mi interessa davvero, porgendogli la mano.

«Hoseok», si presenta mentre afferra il mio palmo. Ha una bellissima mano, con una stretta decisa ma rassicurante al tempo stesso: questo dettaglio da solo basterebbe per elevarlo oltre lo standard maschile che ho frequentato di recente. Se ci aggiungiamo anche quei suoi begli occhi, il jackpot è quasi completo. «Anzi, Hope. Preferisco», specifica con un sorriso.

«Be’, Hope, cosa ci giochiamo?», gli domando senza perdere tempo. Spero davvero che si riveli all’altezza perché ho ben trentasette pessimi appuntamenti da cancellare dalla mente.

Mi osserva divertito. «Ti prego, niente di esagerato. Come hai ben visto, le mie possibilità di vittoria sono pari a zero».

«Mai darsi per vinti. E comunque un drink basta e avanza».

«A basso mantenimento?», mi stuzzica.

Scuoto la testa. «Mi spiace, ad altissimo mantenimento, ma nelle giuste occasioni so accontentarmi».

«Ah, questo sarebbe davvero un miraggio: una donna che si accontenta…», ride.

Bello e spiritoso. Roba da correre in chiesa e accendere un cero. Ah già, se solo fossi il tipo…

◦•●◉✿✿◉●•◦

Per tutta la partita è una continua battaglia tra la mia voglia di perdere e la mia regola numero uno, quella che mi impedisce di fingermi scema o incapace per non nuocere all’ego di un uomo. Non ho mai fatto eccezioni prima d’ora, ma è curioso che sia quasi tentata di farlo questa sera. Per fortuna so resistere a certi impeti illogici, così finisco per stracciare Hoseok che, a onor del vero, non mi pare prendersela troppo. Deve essere un tipo piuttosto rilassato nella vita di tutti i giorni.

Ride e scuote la testa, mentre consegna le freccette ai prossimi giocatori. «Credo di aver sul serio bisogno di qualche lezione… sapevo di essere un caso pietoso, ma non così tanto».

«Mio padre è un patito. Io ho iniziato da bambina».

«Be’, allora si spiega tutto: credo proprio che il mio non abbia mai tenuto una freccetta in vita sua», mi confessa.

«Un’infanzia terribile», provo a punzecchiarlo. Ci sto andando con i piedi di piombo perché mi è stato spesso ripetuto che so essere in qualche modo eccessiva con la mia lingua biforcuta e il sarcasmo spinto a livelli esagerati.

«Terribile», ripete sorridendo e imitando il mio tono. Sì, sa stare allo scherzo, grazie al cielo. «A proposito, ti devo un drink». Mi fa segno di seguirlo al bancone. Non me lo faccio ripetere due volte.

Non sembra però del tutto a suo agio in questo ambiente: la solita gentaglia esagitata riesce a passargli davanti diverse volte. Strano. Pensavo che chi vivesse in una grande città e frequentasse la scena degli appuntamenti fosse in qualche modo vaccinato. Sono costretta a richiamare il barista con gli occhi in modo discreto; i vantaggi del frequentare sempre gli stessi posti, immagino.

«Cosa prendi?», mi chiede Hope.

«Una Corona con limone, grazie». Poi mi siedo sullo sgabello, indicandogli quello accanto. Lo spazio non abbonda e Hope pare esserne cosciente, tanto che si prende un bel po’ di tempo per decidere se azzardare o meno l’occupazione del posto accanto al mio. Alla fine decide di sedersi. L’esito non pareva così scontato. «Guarda che non mordo», lo prendo un po’ in giro.

Lui afferra la birra che ha ordinato e mi osserva da vicino. «No, tu mordi», afferma con sorprendente certezza.

Mi porto la bottiglia alla bocca e mando giù un sorso. «Ok, ipotizziamo per un attimo che tu abbia ragione. Sarebbe un problema?», gli chiedo avvicinandomi.

Sto palesemente flirtando. Non solo, mi sto impegnando ben più del solito perché qualcosa di non meglio identificato mi sta suggerendo che potrebbe valerne la pena.

E cosa fa una donna che è uscita con ben trentasette uomini di cui nemmeno si ricorda i nomi quando finalmente prova del sincero interesse verso una persona? Si avvicina affinché il lui in questione possa notare la scollatura. Più che degna di questo nome, se mi è permesso dirlo.

L’attimo dopo avviene però qualcosa di inaspettato: i suoi occhi si incollano visibilmente interessati al mio seno ma il suo corpo inizia ad allontanarsi. Ah, questo non l’avevo davvero previsto… A quanto pare Hope avrà bisogno di essere trattato con i guanti.

Lo osservo deglutire a disagio. «Sì, detto con la massima sincerità, sarebbe un problema». Il suo tono è stranamente serio mentre lo dice.

Poso la mia birra e sbatto le palpebre. «Gay?», domando diretta. «Sia chiaro, non ci sarebbe nulla di male, ma diciamo che preferisco scoprirlo prima che dopo».

Per fortuna non pare offeso dalla mia estrema schiettezza e, anzi, mi sorride. «No, non sono gay». La sua risposta è un buon inizio, ma di certo non mi chiarisce tutto.

«Allora fidanzato, sposato o qualcosa di simile».

«Nemmeno», confessa quasi imbarazzato.

«Sento che sta per arrivare un ma…», lo anticipo.

«Tu sei molto attraente e io sono molto onorato…», se ne esce poi senza smentirmi in alcun modo.

Lo osservo sbigottita. Cielo, ha sul serio pronunciato la parola “onorato”. Ora, detto con estrema franchezza, io e la scena degli appuntamenti metropolitani ci conosciamo già da un po’. E di solito le opzioni che si presentano sono: tu gli piaci ma a te non piace, a te piace ma non gli piaci, vi piacete o non piacete entrambi e la coincidenza è una grande fortuna. Sono uscita con molti uomini, ho fatto sesso con molti uomini, ho scritto libri sull’erotismo e sul corteggiamento. Insomma, conosco la materia. Lo so come si compiono questi rituali vecchi o nuovi che siano. Conosco gli uomini, punto. E io a Hope sono piaciuta. A pelle. Al primo sguardo. Chiamiamola pure come vogliamo, ma durante quella partita a freccette è nata un’intesa. E io non so che razza di donne sia abituato a frequentare lui, ma per quel che mi riguarda certi affiatamenti sono più rari di un’araba fenice o, visto il mio campo, di un vero orgasmo multiplo.

«Mi stai scaricando», desumo osservandolo arrossire imbarazzato.

Nel suo sguardo c’è parecchio tumulto. Non so bene se sia in difficoltà perché è attratto da me e non vorrebbe o se invece è una persona carina e non sa bene come mandarmi al diavolo. «Vedi… è difficile da spiegare, ma io non sono esattamente il tipo di persona che…».

La sua frase viene tranciata da un mio gesto inaspettato. Non pensavo che l’avrei fatto ma a quanto pare questa è serata da missioni suicide. O magari vittorie insperate. Chi può dirlo. In ogni caso, tra il buio del locale e la nostra vicinanza, ho appoggiato la mano sui suoi pantaloni. Non una zona qualsiasi, sia chiaro. Sulla sua erezione sotto quei jeans ruvidi. O si è fatto di viagra prima o invece io gli piaccio. E pure parecchio…

Rimango in curiosa attesa di una sua reazione ma la verità è che il povero Hoseok è rimasto di sasso. Ha aperto la bocca ma non ne sta uscendo il benché minimo suono. Mi pare un pesce morente tirato fuori dall’acqua. Interessante, credo che sia la prima volta in assoluto che qualcuno stia per morire a causa mia.

Ritraggo la mano proprio mentre il suo volto si tinge di un rossore che non avrei problemi a definire eccessivo. Che sia sotto shock?

«Tutto a posto?», mi sento in dovere di domandargli, mentre mi riprendo la bottiglia di birra, a quanto pare unica compagna di avventure, questa sera. «Devo chiederti scusa?», indago poco dopo.

«Cosa?», chiede confuso.

«In genere si fa così, quando si è discretamente certi di aver incontrato qualcuno che ti attrae e che è attratto da te, ma è evidente che non ci ho capito un bel niente. Perciò, scusami». Scoppio poi a ridere nella speranza di stemperare in qualche modo il momento d’imbarazzo – me ne capitano con una rarità estrema perché, a conti fatti, ormai non mi imbarazza quasi niente – ma lui non mi segue. Continua invece a fissarmi con quelle gote rosse. È un tale peccato che non ne venga fuori niente, è davvero carino. Me lo sarei volentieri spolpato centimetro per centimetro.

«Davvero? Si fa così?», chiede con una buffa espressione, un misto di curiosità e oltraggio che trovo donargli contro il mio stesso interesse.

«Alla nostra età, in una città simile? Be’, sì», non mi faccio problemi a confermargli.

Scuote la testa, mormorando tra sé: «Pazzesco… E non trovi che questo approccio… così…».

«Diretto», mi permetto di suggerirgli, notando la sua difficoltà. A quanto pare non si è ancora ripreso dal momento di poco fa.

«Sì, estremamente diretto, tolga del tutto poesia a un incontro?».

Mi concedo del tempo per capire se mi stia prendendo per i fondelli o se invece, come sto temendo, sia realmente serio. «Poesia? Quale poesia?», domando confusa a mia volta.

«Quella che si manifesta tra due persone che si piacciono, no?»

«Se per poesia intendi potenziale intesa sessuale…».

Ma lui scuote la testa con una determinazione anomala. «Non sto affatto parlando di sesso».

«Davvero?».

Mi osserva come si farebbe con qualcuno che non ci arriva. «Y/n, il sesso senza intesa annoia e stufa ancor prima di iniziare».

Magari stuferà lui, che ha evidenti perversioni antisessuali. Non avevo mai incontrato qualcuno di simile, ma per la legge dei grandi numeri prima o poi doveva accadere. Una cosa è però sicura: il sesso di certo non stufa me. «Mormone? Alieno, o qualche altra cosa poco divertente?».

Il suo volto è incuriosito. «Solo perché ho osato parlare di intesa che va oltre il sesso?»

«Cielo, sì…», non mi faccio problemi a confermargli.

Hope sospira prima di riprendersi la birra che aveva abbandonato quasi senza assaggiarla. «Mi dicono che so essere pedante e che tendo un po’ a fare la morale, e se è così me ne dispiaccio ma è mera deformazione professionale. Però, pesantezza o meno, ti inviterei comunque a riflettere sul tema degli incontri uomo-donna».

«Oh, ma io ci rifletto moltissimo. Anche per me è una sorta di deformazione professionale».

«Ah, che caso curioso», commenta.

«Già, ma ho come l’impressione che affrontiamo il problema da due punti di vista del tutto differenti». Il mio tono è un po’ critico e a lui la cosa non sfugge.

«Sentiamo un po’: come dovrebbe andare avanti una serata come questa, secondo il tuo punto di vista?».

Non mi è chiaro cosa ci stia a fare, ancora seduto a questo bancone, se non ha la benché minima intenzione di portarmi a casa sua. Sono confusa e per nulla abituata a esserlo. «Non so: un drink e a seguire una serata divertente. A casa mia oppure tua…», gli rispondo, prestandomi al gioco.

«E poi?», mi incalza.

«E poi niente. Facciamo sesso – la speranza è che sia dell’ottimo sesso – e ognuno torna alla propria vita di sempre, no?»

«Ah, davvero? È così che si usa fare, oggi?». Ma da quale pianeta è atterrato, di preciso?

«Sì, è così che si fa», gli confermo con enfasi quasi eccessiva.

«E come fa la gente a innamorarsi in questo modo?».

Sbatto le palpebre incredula, mentre osservo il suo volto. Parrebbe essere serio e non interessato a deridermi, incredibile ma vero. «Innamorarsi? E chi ha mai parlato di innamorarsi?»

«Io. Sono estremo, pensa un po’», non ha problemi ad affermare ridendo.

«Sì, sto iniziando a notarlo… Perché, che tu sappia la gente si innamora ancora?». La mia domanda è più seria di quello che potrebbe sembrare.

«Così dicono…», sospira, come se avesse bisogno di chissà quale pazienza nell’interagire con me.

«Chi, quelli che si ubriacano e battono la testa? Quelli che finiscono nell’Hudson dopo una notte trascorsa ad alzare troppo il gomito?». Il sarcasmo è più forte di me, temo.

«Divorziata?», chiede all’improvviso, come se questo servisse a spiegare tutto.

«Chi, io? Per carità…». La sola idea del matrimonio, persino uno finito, mi fa rabbrividire e non mi interessa fingere diversamente. «E ti pregherei di smetterla con questi cliché sulla donna e sulle relazioni…».

«Desumo femminista».

«In una scala da uno a dieci? Undici».

«Ecco, non trovi che oggigiorno la vera sovversione femminista possa essere un legame di lungo corso come il matrimonio?».

Io osservo la mia birra. Poi la sua. E poi ancora la mia. «È uno scherzo, vero?»

«Cosa?», domanda perplesso.

«La serata. Tu. Questa discussione…».

«Posso comprendere il dubbio, ma no. Sono seriamente interessato a parlare con te».

«Ma non al sesso…». Una donna deve pur verificare una seconda volta, chiedo venia.

«No, mi spiace», conferma sollevando le spalle, come a volersi scusare. Incredibile, dico davvero. Afferra poi il portafoglio e ne estrae un biglietto da visita. Se si attende che io lo accetti, è il caso che ci ripensi. «Potremmo… non so… parlare?», mi propone con un sorriso disarmante che, ora che ci faccio caso, è quanto di meno erotico possa esserci. All’improvviso mi viene il dubbio che sia una sorta di terapeuta e che mi abbia scambiato per il caso umano della settimana.

«Senza offesa, ma no. Non credo che troveremmo argomenti di discussione».

Hoseok ripone il biglietto con sguardo spento. «Capisco. E rispetto. Però è un peccato». Può dirlo forte…

Continuo a pensare che sarebbe stato un gran sesso. «Be’, Hoseok, conoscerti è stato…». Mi prendo il giusto tempo per pensare al termine più corretto. «…differente dal solito».

«Da come lo dici, parrebbe qualcosa di negativo», mi punzecchia ridendo. Protende quindi la mano nella mia direzione, paziente e certo che finirò per stringerla. Ha un modo di fare che, ahimè, brucia ammetterlo, continua ad avere uno strano effetto su di me. Alla fine cedo e afferro il suo palmo. «Magari ci rincontreremo…», azzarda.

Che mi venga un colpo, ma credo davvero sia speranzoso al riguardo. «O magari no».

«Le vie del Signore sono infinite».

«Così dicono, ma a me le strade paiono sempre le stesse. Sporche e piene di gente». Mi lascio scivolare giù dallo sgabello e mi allontano da Hoseok e dal bancone del bar, decisa a dimenticarmi quanto prima di lui e di quella sua strana espressione. È come se lo avessi in qualche modo deluso. Ma è impossibile: in fin dei conti il grande vantaggio di non abbandonarsi mai alla reale intimità è proprio questo: non puoi deludere chi tieni a distanza.

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