Capitolo 2
Y/N'S POV:
Le ultime due settimane sono passate con una velocità stupefacente. Mi sento come una condannata a morte che aspetta il suo aguzzino e non ha avuto il tempo per prepararsi mentalmente al dramma. Credo di aver capito solo ora che cosa ha provato Maria Antonietta mentre attendeva che la portassero fuori ad affrontare la ghigliottina. Non è una sensazione piacevole.
Negli ultimi giorni ho fatto le valigie, impacchettato tutte le mie cose, subaffittato il mio appartamento.
Tecnicamente sono pronta a partire, psicologicamente non potrei sentirmi peggio.
Il mio geniale piano per farmi rimanere a Londra non ha dato i suoi frutti sperati. Edward si è completamente tirato indietro, e tutte le mie lacrime non sono riuscite ad impietosirlo. Ad un certo punto ha iniziato proprio ad evitarmi. Vile!
Tuttavia la mia più grande speranza era davvero Namjoon, ironia della sorta. Ero convinta che piuttosto che farmi partire per Seoul si sarebbe tagliato un braccio.
E non per usare un eufemismo.
Una parte di me era certa che non me ne sarei mai andata. Nonostante tutto, dentro di me ero tranquilla. Qualcosa doveva pur accadere.
Purtroppo le cose hanno preso una piega inaspettata quando, durante un incontro casuale in ascensore, Namjoon mi ha comunicato che ha cercato di smuovere le acque dopo la nostra conversazione al ristorante, ma che la società non aveva minimamente intenzione di cambiare idea. A quanto pare lui si è lamentato della mia scelta con il suo capo, ma non è servito a niente. Uscendo dall'ascensore mi ha guardato a malapena mentre mi diceva «Si rassegni signorina Jones, io l'ho già fatto. E le assicuro che tra noi due quello che deve mandar giù il boccone più amaro sono io.»
Verme schifoso, mai che perda un'occasione per insultarmi.
Dopo quell'episodio per qualche giorno ho pensato seriamente di licenziarmi, ma la verità è che mi è mancato il coraggio per una presa di posizione simile. E lentamente, una parte di me si è arresa all'evidenza ed ha iniziato a fare le valigie.
Ed ora eccomi in macchina con i miei genitori mentre mi dirigo all'aeroporto, come se stessi partendo per il campeggio degli scout o qualcosa di simile. Mia mamma ha deciso di accompagnarmi con la scusa di salutarmi, ma io so bene che in realtà non si fida: pensa che potrei decidere di scappare all'ultimo momento, e forse ha ragione. In ogni caso è terribilmente imbarazzante essere a spasso con mamma e papà alla mia età.
E per di più visto che sto partendo per lavoro!
Dovrei avere un bellissimo fidanzato che mi accompagna, anzi, che mi impedisce di partire perché non può vivere senza la mia elettrizzante presenza nella sua vita. Ma, ahimè, oggi non c'è nessun principe azzurro al mio fianco. Ora che ci penso, non c'è mai stato: solo rospi che sono rimasti tali.
Jennie è passata questa mattina prima di andare in ufficio per darmi il suo regalo d'addio, tutta la collezione dei romanzi di Jane Austen. La mia amica sa quanto io ami la Austen e in un momento simile l'ho trovato un pensiero davvero carino. Mi ha detto che mi avrebbe scritto ogni giorno un'e-mail e che avrebbe tenuto le dita incrociate per me. Come se bastasse. Neanche il mago Merlino in persona potrebbe inventarsi una magia capace di aiutarmi a sopravvivere a Seoul.
In ufficio tutti sono stati molto teneri. Mi hanno organizzato una festicciola molto divertente per salutarmi, ma la cosa mi ha solo depresso ulteriormente.
Ho dovuto liberare la mia scrivania, ho svuotato i cassetti e tolto i miei gadget.
Mi è sembrato così incredibilmente definitivo, come se si trattasse di un per sempre.
Edward mi ha abbracciato e mi ha detto che mi aspettavano di ritorno tra un anno, e si è raccomandato di telefonargli tutte le settimane. Io ho annuito sconsolata. Non riuscivo quasi a parlare mentre me ne stavo andando.
In tutto questo periodo il signor Kim si è tenuto molto alla larga da me. Non ho più avuto modo di parlargli, e l'ho solo notato passare dal nostro piano di tanto in tanto.
Arriviamo troppo velocemente all'aeroporto, non sono ancora del tutto pronta a questa partenza.
Papà sta trascinando le mie tre valigie, mentre la mamma ed io camminiamo verso il check-in.
Non sono riuscita a far stare le mie cose strettamente necessarie in meno di tre valigie, le ho provate tutte, ma inutilmente.
«Devi chiamarci spesso, non ti dimenticare di tenerci informati su tutto! Sono così felice per te! Eh, ai miei tempi queste occasioni non erano possibili...tu sì che sei fortunata!» mi dice la mamma, ma, chissà perché, io non mi sento affatto baciata dalla dea fortuna. Se vuole facciamo cambio.
In lontananza vedo Namjoon appoggiato al bancone del check-in che mi sta aspettando. Se vogliamo davvero lavorare insieme deve imparare a togliersi dalla faccia quello sguardo cupo che assume tutte le volte che mi vede. Potrei iniziare ad offendermi davvero. Mia madre è naturalmente rapita dalla sua presenza, in fondo è uno che ai suoi occhi ha tutto, perché ha fatto carriera.
Mio padre non sa cosa dire così si tiene saggiamente in disparte.
«Signorina Jones» mi saluta Namjoon a suo modo «per un attimo ho temuto che stesse meditando sulla fuga» dice serio.
Non immagina neanche quanto fossi stata vicina ad una decisione simile.
«Non potrei mai lasciarla partire tutto solo» gli rispondo ironica. Lui solleva lievemente il sopracciglio come gli ho già visto fare qualche volta quando vorrebbe dirmene quattro, ma si trattiene.
La ragazza al check-in lo guarda con fare adorante mente noi le porgiamo i nostri documenti ed imbarchiamo la valigie.
Mio padre mi porge le mie.
«Vedo che viaggia leggera» esclama sarcastico Namjoon mentre sta fissando le mie enormi valigione.
«Non ha mai viaggiato con una donna?» gli rispondo a tono. «Nessuna ragazza al mondo viaggia con poche valigie, a maggior ragione se si sta praticamente trasferendo. Sono sicura che persino le ragazze coreane sono attente al look.»
«Oh, ma questi sono solo alcuni bagagli di prima necessità di Y/n. Non appena si sarà trasferita penseremo a mandarle il resto» aggiunge mia madre come se qualcuno l'avesse interpellata. Ma perché diavolo ho pensato che farla venire fosse una buona idea?
Finiamo le procedure, prendiamo i nostri biglietti e ci incamminiamo al gate.
Prima di attraversarlo saluto definitivamente i miei genitori, e voltandomi vendo che mia madre muove ancora la mano mentre mio padre mi lancia un'ultima occhiata disperata. Non so chi di noi due è messo peggio, se lui che dovrà subirsi da solo mio madre, oppure io che sto per andare in un continente dove l'unica persona che conosco è un essere tutt'altro che affabile.
Cerco di farmi coraggio, in fondo non è così difficile fare amicizia al giorno d'oggi. Almeno non in Inghilterra. Spero che la Corea sia fatta anche di persone simpatiche e alla mano. Il mio metodo di giudizio è precipitato dopo aver conosciuto il Sig. Kim, ma mai darsi per vinti.
Sono seduta in attesa dell'imbarco e probabilmente devo avere un aspetto davvero pietoso visto che Namjoon si sente in dovere di sollevarmi il morale.
«Visto che io sarò l'unica persona che conosce in tutta Seoul cosa ne dice se ci diamo del tu? Ho sbirciato solo velocemente la scheda che l'ufficio risorse umane mi ha dato su di te, ma ho visto che siamo abbastanza vicini d'età.»
Non me la bevo, avrà studiato la mia scheda con attenzione maniacale nella speranza di cogliermi in fallo, lo so.
«Quanti anni hai?» gli domando facendo finta di essere interessata.
«Ho 33 anni» mi risponde senza aggiungere altro. Di questo passo la conversazione stenterà a decollare.
«L'età di Gesù Cristo quando è morto» gli dico dopo qualche attimo di troppo di un silenzio imbarazzante. Ma perché mi escono dalla bocca frasi simili? Come mai riesce a farmi dire sempre le cose sbagliate?
Lui ride. Sono contenta che le mie figure riescano almeno a strappargli un sorriso. Felice di essere utile per qualcosa, penso un po' seccata.
«Spero che questo non voglia dire che ti aspetti di vedermi appeso ad una croce prima di compiere 34 anni. Vorrebbe dire che mi rimangono pochi mesi di vita.» Pare che Namjoon sia dotato di ironia, chi l'avrebbe mai detto?
Stranamente questa scoperta mi fa accigliare. «Certo che no, è che tu riesci a farmi dire sempre cose che sembrano terribili. In genere io sono una persona normale, ma tu...» non so come spiegargli il mio stato d'animo «tu riesci davvero a tirarmi fuori certe cose...».
Lui non sembra troppo preoccupato da questa mia piccola ammissione. «Questo vuol dire che sarai sempre sincera con me? E che mi dirai sempre quello che pensi?» Mentre mi formula la domanda mi guarda con un'espressione strana, che non so interpretare. Non sono del tutto sicura quale risposta si aspetti da me.
«A quanto pare non riuscirò a nasconderti niente di quello che penso su di te» gli dico. «Ma non credo di sapere molto su di te al momento.»
Namjoon alza lo sguardo sul soffitto meditando sulla mia ultima frase.
«Abbiamo un volo lunghissimo davanti a noi, se vuoi potrai chiedermi tutto quello che ti interessa» mi dice infine. Hmm, chissà cosa posso domandargli?
«Vorrei già iniziare ad illustrarti i casi di fusione che stiamo seguendo e raccontarti del nostro team» attacca lui con voce molto professionale qualche attimo dopo.
Evidentemente devo aver frainteso. Io volevo chiedergli cose più interessanti di quelle che riguardano l'ufficio. Ma lui sembra davvero una persona riservata, non credo lo faccia apposta, semplicemente è fatto così.
Oddio, e se i coreani fossero davvero tutti come lui? Per un attimo sono sinceramente spaventata. Non credo di poter resistere un anno intero circondata da gente che pensa solo a lavorare.
Nel frattempo veniamo invitati a salire a bordo dell'aereo. Attendiamo pazientemente il nostro turno circondati da un sacco di coreani che stanno per tornare a casa. Quanto li invidio.
Come sempre mi dispero vedendo quanto poco spazio c'è per le mie gambe lunghe una volta individuato il mio posto, e sto già per lamentarmi quando mi rendo conto che Namjoon è persino più alto di me e quindi starà ancora più scomodo. Lo so che non è politicamente corretto, ma quest'ultimo pensiero mi ha causato un breve ma intenso attimo di soddisfazione.
Il mio posto è accanto al finestrino, lui ha quello accanto al mio che da sul corridoio.
Ora, forse questo è un buon momento per ammettere che in realtà io non amo molto volare.
Detta così forse è troppo soft. Io ho il terrore di volare. Letteralmente.
Siccome sono una ragazza moderna ed indipendente mi rifiuto di farmi influenzare da questa paura ossessivo-compulsiva. Infatti volo sia quando vado in vacanza che per lavoro. E va tutto bene finché non metto piede sull'aereo, perché è allora che la mia paura ritorna con prepotenza. In genere sbianco di colpo, mi sudano le mani, mi gira la testa e inizio a respirare con fatica. Una volta sono persino svenuta. Va bene, lo ammetto, più di una volta.
Visto che ci aspettano circa 12 ore di volo forse è il caso di avvertire il mio sventurato compagno di viaggio dei miei attacchi di panico. Non vorrei che si facesse delle idee sbagliate su di me. Ma mentre lo penso mi rendo conto che probabilmente un attacco di panico è esattamente quello che lui si aspetta da una persona come me, e forse si merita anche che io gli vomiti addosso visto che è a causa sua che io mi trovo su questo maledetto aereo. Avrebbe dovuto fare qualcosa per farmi restare a Londra, con i piedi ben piantati per terra.
Improvvisamente mi ricordo delle mie ultime vacanze: Jennie ed io abbiamo prenotato una meravigliosa settimana in un residence da sogno alle isole Baleari. Io sono stata così male durante il volo che ho impiegato tutta la settimana a riprendermi. Morale, al mio ritorno a Londra ero più stravolta e più pallida di quando ero partita.
In realtà credo che con il passare degli anni la mia paura sia solo aumentata, da lieve malessere iniziale nel tempo è diventata terrore irrazionale e totale. E non c'è molto da fare quanto vieni trascinato in fondo da una cosa simile.
Mentre mi allaccio la cintura di sicurezza, cosa peraltro non facile visto che iniziano a tremarmi le mani, cerco di affrontare il discorso. «C'è una piccola cosa che vorrei dirti prima di partire...» Così non va bene, ho una tono di voce talmente labile da averlo allarmato. Solleva infatti quegli occhi scuri dalla sua cintura e mi guarda molto serio, sembra praticamente concentrato.
«Ecco, sì... io non amo molto volare.»
L'ho detto.
Mi conosce da poco, ma devo ammettere che sa già come interpretare quello che gli sto dicendo. Mi sta guardando infatti con l'aria di chi la sa lunga.
«Fammi capire Y/n, quanto male stai durante il volo?» lo dice come se pretendesse e non domandasse.
«Non sto propriamente male, è che mi capita di avere piccoli attacchi di panico duranti i quali mi dimentico di respirare.» Oddio, penserà che sono una pazza completa. O forse lo pensava già?
Lui si raddrizza al suo posto e continua ad osservarmi pensieroso. Vorrei stemperare la situazione ma non so come fare. Improvvisamente mi ricordo di alcuni tranquillanti che mia madre mi ha messo in borsetta proprio per emergenze simili. In fondo è colpa sua se non ho mai superato certe ansie. Una madre simile non fa che aumentartele.
«Ora che ci penso, credo che prenderò qualcosa per rilassarmi prima di decollare» dico e inizio a frugare nella borsetta. Mi è bastato il suo sguardo seccato per decidere di dover fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non fare certe figure in sua presenza.
Come accade sempre, le mie pillole sono in fondo alla borsa e mi tocca tirare fuori praticamente tutto il contenuto prima di riuscire a trovarle. Volano fuori pacchetti di fazzoletti di carta (sinceramente non ricordavo di averne presi così tanti, ma una ragazza ha sempre bisogno di qualche fazzolettino di scorta), trucco di vario genere nel caso fossi incappata in qualche adone biondo nel corso del mio viaggio (anche se è difficile su un volo simile, lo ammetto, sono diretta in Corea e non in Svezia), e infiniti oggetti che forse non so nemmeno io a cosa possano servire. Però, come faccio a toglierli dalla borsa se nemmeno so cosa sono? Con la mia fortuna finirei per privarmi sicuramente di una cosa indispensabile un secondo prima di doverla usare.
Ma finalmente ecco che tengo in mano i miei tranquillanti: sulla confezione c'è scritto di prenderne una o massimo due a seconda dei casi. Io opto per tre. Chi ha scritto le istruzioni non poteva conoscere il mio caso di assoluto terrore e profonda disperazione. E sono già stata brava a non prenderne quattro.
Namjoon si è accorto del numero di pillole che ho ingoiato, lo vedo dalla sua faccia che mi sta disapprovando. Ma tanto non si tratta di una novità, quindi non mi scompongo. Credo che detenga il record di occhiatacce che una persona mi abbia mai lanciato. E pensare che mi conosce da due settimane.
Mentre iniziamo il decollo sento che le pillole effettivamente fanno effetto: mi sento molto più serena, la mia testa è leggera. Quasi non li sento gli scossoni iniziali dell'aereo.
Cerco di allungare le gambe distendendole in maniera obliqua ma colpisco la caviglia di Namjoon.
«Opss, scusami» gli dico.
Lui sta facendo di tutto per non perdere la pazienza, ma vedendolo così concentrato improvvisamente decido che quello sarà il mio svago durante il volo.
Mi attendono alcune noiosissime ore con niente di meglio da fare. Inizio ad elaborare una strategia: prima di tutto devo cercare di scoprire i suoi punti deboli. Perché anche se non lo sembra affatto, quest'uomo deve pur essere umano nel vero senso del termine, deve avere dei difetti.
«Raccontami qualcosa di te,» gli dico con finto fare affabile «quando ci siamo conosciuti hai detto che sei americano, eppure tu sembri in tutto e per tutto coreano e ci vivi pure in Corea.»
Lui non sembra aver voglia di fare conversazione. Mi guarda da dietro un fascicolo di lavoro che ha tirato fuori non appena l'aereo ha iniziato a muoversi e che tiene saldamente in mano. Che sia una specie di scudo?
Inizialmente pare riflettere su come farmi tacere, ma poi evidentemente qualcosa deve indurlo a darmi retta, così si decide a rispondermi. «Sono nato a Chicago, dove ho vissuto per dieci anni. Poi mi sono trasferito in Corea con i miei, che da allora abitano poco fuori Seoul. Ma sono tornato in America per fare l'università e poi il master.»
«Che università hai fatto?» gli domando curiosa.
«Ho studiato a Yale e mi sono specializzato ad Harvard».
Cielo, un secchione allo stato puro.
Dovevo saperlo.
«Ma poi dopo gli studi sei rientrato in Corea...» gli dico. Deve ancora raccontarmi un bel po' di cose, non penserà di cavarsela con così poco.
«Veramente non subito, ho lavorato in America per un po' e poi la società mi ha chiesto di andare a Seoul: ci sono pochi cittadini americani che parlano anche il coreano e avevano bisogno del mio aiuto.»
«Wow, sei stato parecchio in giro per il mondo. Chissà come deve essere» dico sinceramente impressionata.
«Faticoso» mi risponde seriamente. «Non è facile essere divisi tra due paesi.»
Guardo le sue mani. Già in precedenza mi ero accorta che non portava anelli, e che non sembrava avere la fede, ma non si può mai sapere.
«Sei sposato?» domando ancora. Questo può sembrare un terzo grado, ma davvero cos'altro posso fare per far sbottonare una persona simile?
«No.» Risponde secco senza aggiungere altro, nascosto nuovamente dietro il suo fascicolo.
Forse ho annusato qualcosa di cui non vuole parlare.
«Lo sei stato?» gli chiedo sfacciata. Ormai i miei tranquillanti devono avermi liberato la lingua molto più di quanto pensassi.
«No.» Ancora una risposta secca, in tutti i sensi.
«Perché no?» insisto decisa come un cane da caccia che ha fiutato una preda.
Lui sbuffa, ma abbassa i fogli. Poi pare riflettere su cosa dirmi per un periodo piuttosto lungo, probabilmente è tentato di dirmi di farmi gli affari miei.
«E tu perché non sei sposata?» mi chiede con un tono che vorrebbe sembrare neutro ma nasconde una certa seccatura.
Una tattica di difesa sempre efficace, quella di rispondere con un'altra domanda.
«Perché sono sempre chiusa in ufficio, perché non ho mai incontrato un uomo capace davvero di indurmi a considerare di passare insieme a lui la mia vita, perché in parte non credo nella convivenza uomo-donna e perché non me lo ha mai chiesto nessuno» gli dico tutto d'un fiato.
Ma questi tranquillanti contengono il siero della verità?
«Ma non stavamo parlando di me» gli ricordo sorridendo maliziosa. «Senza contare che io sono 5 anni più giovane di te e che in Inghilterra nessuna ragazza pensa al matrimonio alla mia età.»
Vedo che è stupito. «Persino in Inghilterra una ragazza a 28 anni è considerata in età da marito. In Corea è quasi un caso disperato» mi risponde lasciandomi a bocca aperta. Questo credo si chiami una risposta maleducata in qualsiasi parte del mondo!
Meglio non prendersela, cerco di ripetermi parecchie volte. Ma è difficile...
«Niente risposte acide?» chiede osservandomi, felice di avermi messo KO.
«Sono sotto effetto di stupefacenti, evidentemente funzionano visto che riesco a non mandarti a quel paese» gli rispondo.
«Allora forse dovrei prendere anch'io qualche pillola miracolosa» mi dice e quasi mi sorride. Incredibile, quando sorride ha davvero un'espressione deliziosa sul volto, ma sorride così poco che uno quasi non se ne accorge.
«Non sono abituato a questo genere di rapporto con i miei collaboratori» cambia improvvisamente argomento. «In Corea le interazioni professionali sono più formali» mi dice. «Tu ed Edward eravate molto schietti tra di voi?» si informa.
«Edward sapeva tutto di me, gli raccontavo persino dei miei appuntamenti!» gli rispondo scherzando, ma vedo che lui si irrigidisce.
«E ti aspetti di avere lo stesso tipo di rapporto anche con me?» domanda preoccupato.
A quel punto sorrido, e allora capisce che lo sto prendendo in giro.
«No, non me lo aspetto. Ma Edward e io avevamo davvero un bel rapporto, non tanto frequente negli ambienti lavorativi. Mi mancherà. Ed è capitato che io gli abbia effettivamente raccontato dei miei ragazzi.»
Mi sono improvvisamente rattristata, e forse per risollevarmi il morale Namjoon riprende la discussione sul matrimonio.
«Comunque anch'io non mi sono mai sposato perché lavoro troppo, non ho mai incontrato una donna con cui valesse la pena passare tutta la vita, e perché nessuno me lo ha mai chiesto» conclude ridacchiando. Vedo che il nostro scambio di opinioni lo diverte.
«E la tua famiglia cosa ne pensa?» gli chiedo.
«La mia famiglia vuole assolutamente trovarmi una moglie, in effetti. In Corea usa fissare appuntamenti al buio ai ragazzi, in modo da arrivare al matrimonio con una candidata che viene vista di buon occhio dalla famiglia.»
Le sue parole mi stupiscono. «Davvero esistono ancora parti del mondo in cui vanno di moda i matrimoni combinati?»
«Non sono veri e propri matrimoni combinati. Uno va liberamente all'appuntamento, se la persona gli piace può continuare ad uscirci, sapendo che non deve ottenere poi l'approvazione della famiglia, perché in realtà ce l'ha già» mi spiega paziente.
«Non fa al caso mio, decisamente meglio il nostro metodo occidentale: le storie d'amore devono essere romantiche e non costruite, altrimenti che gusto c'è?»
Ma come si fa ad uscire con una che tua nonna e tua madre hanno selezionato per te?
Lui pare essere d'accordo con me.
«Guarda che io la penso esattamente come te. Ho vissuto troppo tempo in America per abituarmi a certe tradizioni coreane» mi spiega.
«Chissà come sarà delusa allora la tua famiglia» lo prendo in giro.
«In effetti...» ammette «anche se la mia famiglia non è una famiglia coreana tradizionale.»
«Ah no?» Vorrei non essere così curiosa, ma non ci posso fare niente.
«Mia nonna è americana, caucasica. Mio padre è per metà asiatico e per metà occidentale» aggiunge.
«Deve essere divertente avere una famiglia mista. Io purtroppo provengo da una famiglia molto ordinaria» mi lamento.
«Allora la Corea è il posto giusto per te, vedrai che non ti sentirai più così ordinaria» mi dice con voce affabile.
Improvvisamente però sento l'aereo sobbalzare pericolosamente. Posso anche essere sotto sedativi ma non basterebbero 100 pillole a farmi stare tranquilla di fronte a simili turbolenze. Mi irrigidisco sul mio sedile.
«E come mai?» cerco di riprendere la conversazione anche se la mia voce suona un po' stridula, ora che sento il terrore tornare con prepotenza. Inizio a sentirmi male, mi gira la testa.
Namjoon mi guarda preoccupato, e mi risponde forse per farmi pensare ad altro. «Perché non ci sono donne bionde con grandi occhi verdi e un metro e ottanta d'altezza in Corea...»
Ma la sua voce mi risuona sempre più lontana, la sento arrivare appena, e mentre perdo conoscenza riesco solo a riflettere sulle sue parole e sul fatto che non è da lui dire cose simili, neanche in punto di morte.
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Al mio risveglio vedo che siamo ancora in aereo, è tutto buio, gli altri passeggeri dormono. Al mio fianco anche Namjoon sta dormendo irrigidito. È seduto in una posizione davvero molto scomoda, e l'ha chiaramente assunta per cercare di lasciarmi più spazio possibile.
Noto che la hostess mi ha infilato due cuscini dietro la testa e che mi ha coperto. Effettivamente l'aria condizionata è parecchio fastidiosa. O almeno spero che sia stata la hostess e non lui.
La buona notizia è che l'aereo pare viaggiare tranquillo ora. Non sento più gli scossoni. Cerco di stiracchiarmi come posso per risvegliare i miei arti atrofizzati.
Guardo l'uomo accanto a me. Un tipo buffo questo Kim Namjoon, parecchio rigido nell'atteggiamento, evidentemente con un forte senso del dovere. Uno che ha studiato e che ora lavora con un certo concetto, forse vecchia maniera, dell'onore. Glielo si legge in faccia e ne si ha conferma tutte le volte che apre bocca.
Cerco di sfruttare il momento per osservare meglio il suo volto. Ha delle belle labbra piene, e una pelle liscia, una di quelle pelli che tutte le donne sognano di avere e che io reputo assolutamente sprecate su di un uomo, specialmente uno come lui.
Mi ha detto che sua nonna è occidentale, forse è per questo che i suoi occhi sono sì a mandorla, ma grandi ed espressivi. Ha un naso diritto ma non piccolissimo, che lo fa sembrare determinato, non molto orientale in effetti. Le ciglia sono lunghissime e nerissime. Un ciuffo ribelle gli ricade sul volto. Chissà perché uno come lui tiene i capelli troppo scompigliati.
Raddrizzandomi sul sedile finisco per smuovere anche il suo, e poco dopo anche lui riapre gli occhi. Anche mezzo addormentato ha sempre un aspetto perfetto, mentre i miei capelli saranno sicuramente tutti scompigliati.
«Scusami se ti ho svegliato» gli dico sussurrando per non svegliare gli altri passeggeri che dormono.
«Nessun problema» risponde con voce resa sottile dal sonno. «Come ti senti?» mi domanda raddrizzandosi sul sedile.
«Come nuova. Purtroppo attacchi di panico di questo genere mi capitano di frequente quando volo. Forse avrei dovuto prendere qualche altra pastiglia.»
«Sì, così a Seoul saresti arrivata cadavere. Non pensare neanche a fare pazzie mentre sei in Corea, io rispondo per te, e decisamente non voglio averti sulla coscienza» mi dice ora ben sveglio.
«Che sciocchezza, io rispondo per me stessa. Nessuno può essere responsabile per me» ribatto seccata. Nessuno si è mai preso cura di me, non penserà mica di dover farlo lui adesso?
«Io mi sentirò sempre responsabile di averti trascinato lontano da casa, quindi niente scherzi.» Lo dice con una voce che ha un che di minaccioso.
«Guarda che l'emancipazione femminile esiste da un secolo ormai. Sono sicura che non ti sentiresti così protettivo nei confronti di un uomo» affermo battagliera.
Su queste tematiche non transigo, in fondo sono la degna figlia di mia madre. Tanti lavaggi del cervello avranno pur avuto su di me una qualche influenza.
«Forse» ammette lui «ma tu sei una donna e immagino che non sapremo mai come sarebbe andata se fossi stata un uomo.»
«Guarda che non mi devi assolutamente riservare trattamenti speciali per il fatto che sono una ragazza. Dovresti comportarti proprio come con uno qualsiasi dei tuoi colleghi uomini» gli dico decisa.
Lui ride, direi però che ride di me. «Allora vuol dire che appena arrivati tu penserai da sola alle tue tre valigie» mi dice come enfatizzando il loro numero.
«Posso farlo benissimo!» gli rispondo, ma non ne sono così tanto sicura. Se mio padre non le avesse trascinate in qualche modo fino all'aeroporto per me, sarei stramazzata al suolo dopo il primo metro. Questa mattina non riuscivo neanche a sollevarle. Devono pesare tonnellate.
Lui lo sa. Mi guarda senza aggiungere altro, vedo che non riesce a nascondere un sorrisetto di derisione.
«Va bene, forse potrei avere bisogno di un aiuto con le valigie, ma l'aiuto che daresti ad un collega uomo che sta di fatto traslocando in un altro continente.» È meglio ammetterlo, non riuscirò mai a portarmi le valigie da sola, e qualcosa mi dice che Namjoon sarebbe davvero in grado di farmi morire schiacciata sotto il loro maledettissimo peso.
«Ma questo non vuole dire nulla, noi ragazze londinesi siamo da sempre abituate a guardarci le spalle» ribatto.
Questo è uno scontro che non voglio perdere.
Vedo che non l'ho affatto convinto, ma non risponde perché sa che con me è fiato sprecato. Tanti anni di emancipazione e questo pensa che io abbia bisogno di una balia.
«Guarda che ho fatto anche dei corsi di autodifesa» affermo determinata e un po' petulante.
Lui mi guarda dubbioso.
«Cosa c'è?» chiedo inviperita.
«Ti atterro quando voglio» mi dice con fare seccato «come la maggior parte dei coreani che praticano il taekwon-do. È lo sport nazionale.»
Ma questo con chi pensa di avere a che fare?
«Vuol dire che mi iscriverò anch'io al tae...won...do!»
Ok, non so neanche come si pronuncia, ma poco importa.
Namjoon mi sta guardando come a dirmi provaci e poi vediamo. Ma ribatte solo: «Si chiama taekwon-do e sarò lieto di trovarti una palestra in prossimità dell'ufficio, se lo vorrai.» Il suo tono esprime in maniera inequivocabile tutti i suoi dubbi, si capisce chiaramente che pensa che desisterò.
Vedrà con chi ha a che fare!
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Il cibo in aereo è come sempre scadente, ma almeno è gratis. Lui lo assaggia appena, mentre io mi fagocito tutto.
«Ti dispiace se prendo anche il tuo, visto che non lo vuoi?» gli chiedo indicando il suo vassoio ancora mezzo pieno.
«Prego, fai pure» mi dice guardandomi curioso ed avvicinandomi il suo piattino. «Ma come fai ad essere magra se mangi sempre così tanto?» mi chiede.
Non ho capito se è un complimento oppure un'offesa. Senza contare che prima di oggi mi ha visto mangiare una sola volta al ristorante italiano. Ok, in quell'occasione ho davvero esagerato, ma la giornata richiedeva un piatto di pasta eccezionale. Avevo bisogno di una montagna di carboidrati per riprendermi dall'idea del trasloco.
Sua mamma non gli ha mai insegnato che non si dicono cose simili alle ragazze? Comunque sia, se pensa di farmi desistere si sbaglia di grosso. Ci vuole ben altro per farmi passare l'appetito.
«Devo mangiare il più possibile. Mi attendono mesi di penuria» gli dico infilzando decisa il suo pezzo di formaggio. Non ha un sapore particolarmente buono, ma è decisamente meglio di quello che mi aspetta in terra straniera.
Sorride mentre mi dice: «Ho capito, hai paura di morire di fame in Corea...»
Detta così parrebbe una paura insensata la mia. Ah, se solo sapesse cosa vuol dire la cucina asiatica per una come me...
«Una mia amica mi ha raccontato di certi cavoli fermentati...» gli dico solo.
Mi guada per un attimo, poi scoppia a ridere. È una risata talmente spontanea da lasciarmi momentaneamente stupita. Cerca anche di trattenersi ma proprio non ci riesce.
«Cosa c'è di tanto buffo?» gli chiedo ad un certo punto alquanto seccata. «A me non piace la cucina esotica, non vado matta né per quella giapponese né per quella cinese» cerco di spiegargli. Il che è vero: a differenza di quasi tutti gli altri londinesi non so nemmeno come si tengono le bacchette.
Lui prende tempo cercando di tornare serio, ma ride ancora il vigliacco.
«Non voglio svelarti niente della cucina coreana, allora. Diciamo che sarà una sorpresa» mi annuncia infine con voce enigmatica e appena ricomposta dal divertimento che gli sto garantendo.
Ho già capito che tutto di questo viaggio sarà un grandissima sorpresa. Devo riconsiderare seriamente il ruolo delle sorprese nelle mia vita: da cosa meravigliosa a funesta disgrazia. Com'è difficile l'età adulta...
Sospiro, masticando tutto quello che mi capita sotto tiro, e cerco di capire per la millesima volta come sia potuta finire diretta in Corea. Io avevo altri progetti per la mia vita. È tutta colpa di mia madre che ha sempre osteggiato tutte le mie relazioni e che da me ha sempre e solo preteso che facessi carriera. Che ingiustizia! Una come Jennie ci sarebbe stata bene su un aereo diretta all'altro capo del mondo, non io.
Il problema è che non ho mai davvero desiderato qualcosa, e quindi non sapendo cosa volevo ho finito per seguire le strade segnate dagli altri per me.
Ancora oggi non so se mi piace il lavoro che faccio, non so se mi piacerebbe fare altro e davvero non so se starei invece meglio a casa con una famiglia da curare. Mi crogiolo nel dubbio, in fondo ci vivo bene. Se va male qualcosa posso sempre dire che non era colpa mia, perché stavo facendo una cosa di cui non ero molto convinta. Forse Jennie ha ragione quando dice che ho bisogno di uno scossone molto forte. Ci vorrebbe un terremoto nella mia vita, anche se forse è meglio attendere di scendere a terra per vivere queste turbolenze.
Rimango a meditare silenziosamente per il resto del viaggio, che per fortuna scorre veloce e relativamente tranquillo.
Una volta atterrati ci incamminiamo a prendere il nostro bagaglio. In effetti mentre cammino tra la folla per la prima volta mi sento davvero diversa. Sono l'unica bionda in mezzo a tutto questo mare di gente. Namjoon ed io spicchiamo inoltre per la nostra altezza; anche senza tacchi sono molto più alta sia degli uomini che delle donne di questo paese.
Vedo qualche testa voltarsi per osservarci meglio, stiamo creando una certa curiosità. Ecco cosa intendeva Namjoon quando diceva che non mi sarei sentita così comune in Corea. È una sensazione del tutto nuova, ma non spiacevole.
Occhi a mandorla a parte sembra di essere a Londra: gente che corre frettolosa da tutte le parti, ragazzi vestiti esattamente come quelli inglesi. Per fortuna ho portato le mie All Stars, vedo che vanno di moda anche qui.
Questi dettagli mi rassicurano per un momento. Forse posso farmi accettare anche da questo paese nuovo e del tutto sconosciuto. Forse troverò un modo per non sentirmi del tutto un pesce fuor d'acqua.
I cartelli con le indicazioni che troneggiano sopra la mia testa sono scritti sia in coreano che in inglese, e muoversi non sarà troppo complicato se anche in città sarà così.
Arriviamo in fretta al nastro per il ritiro dei bagagli e inizio a sudare freddo in previsione dell'impresa che mi aspetta: devo prendere le mie tre valigie! Ho trovato in giro un carrello e sono fisicamente e psicologicamente pronta all'impresa. La farò vedere io al Sig. Kim l'indipendenza femminile!
Vedo arrivare in lontananza la mia prima valigiona e parto decisa all'attacco: con tutta la forza che ho cerco di alzarla dal nastro...ma cielo, quanto pesa! Con un colpo di reni finale riesco a sollevarla e facendola roteare cerco di farla atterrare per terra, solo che non mi sono accorta del fatto che Namjoon si è materializzato al mio fianco come per magia, probabilmente per aiutarmi, e, presa come sono dalla mia impresa, finisco per scaraventare la mia valigia sul suo piede.
Gli sfugge un suono di dolore e stupore insieme, apre totalmente i suoi occhi e mi lancia uno sguardo di odio.
Ma perché non me ne riesce una giusta? Ecco, ho rovinato tutto.
Naturalmente dopo l'incidente Namjoon si allontana più che può dalla zona e quindi non mi resta che recuperare le altre due valigie da sola. Lo ammetto, è stato dannatamente difficile, sento persino che mi è venuto mal di schiena a causa dello sforzo che ho fatto. In qualche modo sono riuscita ad issarle sul carrello e con non poca difficoltà mi dirigo in direzione di Namjoon che mi attende all'uscita.
«L'autista della società è venuto a prenderci» mi dice solamente ancora offeso. Tutti uguali gli uomini, se la legano sempre al dito.
Mi sento sollevata, finalmente qualcuno che mi aiuterà con queste benedette valigie. E in effetti un ometto buffo si materializza al nostro fianco indicandoci una grande macchina scura davanti a noi, poi si avvicina ed inizia a sistemare tutte le valigie nel grande vano posteriore.
Namjoon si siede dietro e io lo seguo. L'autista rientra in macchina e parte a guidare senza attendere istruzioni da parte nostra. Evidentemente sa perfettamente dove deve andare.
Fuori sta iniziando a calare la sera, vedo le luci della città che si avvicinavano sempre di più. Ad un certo punto passiamo lungo un grande fiume. Sono curiosa, Namjoon non sembra intenzionato a fare conversazione dopo il piccolo incidente di prima, quindi chiedo al nostro autista come si chiama il fiume che stiamo guardando.
«Seoul è attraversata dal fiume Han» mi spiega l'ometto tutto fiero «ed è una città ricca, non solo di grandi grattacieli, ma anche di molti parchi, nel caso sia interessata a fare jogging per mantenere la sua splendida linea».
Namjoon mi guarda scettico.
«Grazie, credo proprio che coglierò l'occasione per un po' di sano jogging» rispondo. Pensi pure quello che vuole. È vero che non ho mai fatto un minuto di corsa in vita mia, ma posso sempre iniziare!
Attraversiamo ora un ponte gigantesco, la vista sul fiume e sulla città è davvero molto bella.
Sono con il naso incollato al finestrino quando la macchina si ferma davanti ad un edificio nuovo di zecca di una quindicina di piani. Namjoon scende senza dirmi niente, e non sapendo cosa fare scendo anch'io.
Il simpatico ometto si è già messo a scaricare le nostre valigie e vedo che si rivolge a Namjoon consegnandogli un paio di chiavi.
«Aiuto la signorina con le valigie?» gli chiede.
«Non si preoccupi, porti solo le valigie davanti all'ascensore e poi ci penseremo noi. La signorina si offende se qualcuno cerca di aiutarla. Grazie mille dell'aiuto.»
Ma che bastardo.
L'uomo esegue e fa come gli è stato detto, ci saluta e risale in macchina. Se ha trovato strano il commento di Namjoon non lo ha fatto notare.
Seguo Namjoon che senza neanche aspettarmi è entrato nell'edificio, così gli corro dietro. Mi trovo improvvisamente in un grande ascensore luminoso con Namjoon che ha faticosamente portato dentro le nostre valigie.
«Io abito qui?» gli chiedo timorosa.
Lui mi guarda freddo. «Noi abitiamo qui» mi corregge. Ancora quel tono di voce seccato. Ho appena imparato che il Sig. Kim è uno che non perdona facilmente. Giuro, non lo volevo colpire con la valigia, si è trattato davvero una sfortunatissima coincidenza. A cui lui ovviamente non crederà mai.
Io strabuzzo gli occhi con evidente stupore di fronte alla sua affermazione.
«Ognuno nel proprio appartamento» aggiunge notando il mio iniziale sgomento. Poteva anche dirlo subito invece di farmi prendere un colpo!
Mi fa strada una volta arrivati al sesto piano. Si avvicina alla porta con la scritta 6B, inserisce la chiave e mi fa segno di seguirlo.
Entriamo in un appartamentino piccolo, con un delizioso atrio in marmo.
«I coreani hanno l'abitudine di togliersi le scarpe subito nell'atrio per infilarsi le pantofole in modo da non sporcare in casa. È anche il caso che tu ti procuri delle pantofole per gli ospiti nel caso volessi invitare gente. Le persone si aspettano di cambiarsi le scarpe appena entrano» mi spiega Namjoon. Che strana usanza!
«Ma trattandosi adesso di casa mia posso anche decidere di non costringere la gente a togliersi le scarpe...» azzardo, ma vengo subito fulminata con lo sguardo.
«Puoi decidere di fare quello che vuoi, ma se non vuoi che le persone si sentano in imbarazzo trovo sia più saggio decidere di adattarsi alle usanze locali.»
Per questa sera è meglio non creare altre tensioni, in fondo cosa sono un paio di pantofole di fronte alla prospettiva di un po' di tranquillità? E Namjoon ha tutta l'aria di uno che vuole litigare a tutti i costi.
Trascino dentro le mie tre valigie, e Namjoon si decide ad aiutarmi solo alla fine, vedendo la mia totale disfatta di fronte alla più grande delle tre.
L'appartamento sembra piccolo, ma con tutti i comfort: un piccolo salotto con un divano, una zona cucina con un piccolo tavolo, in fondo la mia camera da letto e un bagno. Per fortuna anche i coreani usano i letti come i nostri.
«Non dormite per terra, per fortuna» gli dico scherzando.
«Non più» mi risponde, con il tono di uno che ha pensato «Ma per te potremmo nuovamente introdurre l'usanza».
Improvvisamente inizio a sentire una certa stanchezza, il viaggio e il fuso stanno facendo effetto su di me. Namjoon se ne è probabilmente accorto, perché si incammina verso la porta.
«Ti lascio disfare le valigie e riposare. Eccoti le chiavi. Io abito esattamente di fronte, appartamento 6A, per qualsiasi urgenza sai dove trovarmi» mi dice congedandosi.
«Grazie di tutto» gli dico a denti stretti, perché non sono del tutto sicura di essergli grata per avermi trascinato in questo posto.
«Domani è domenica, avrai modo di superare il fuso con un giorno di riposo. Ci vediamo.»
Lo guardo uscire dalla porta, lo sento infilare la chiave nella sua ed entrare dall'altra parte del pianerottolo.
Ottimo, abitando così vicini avrà modo di tenermi sotto controllo, rifletto con disappunto. È quasi come abitare di fronte ai propri genitori, o forse, trattandosi di Namjoon, è anche peggio. È come un padre autoritario che ti impone orari rigidissimi e poi ti aspetta davanti alla porta per riprenderti se sgarri anche solo di un minuto.
Tiro fuori dalla valigia solo lo spazzolino e la mia camicia da notte. Meglio dormirci sopra, come direbbe una delle mie eroine preferite, domani è un altro giorno.
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