Capitolo 1

Y/N'S POV:

Sto guardando fuori dalla finestra del mio minuscolo appartamento londinese: tanto per cambiare piove a dirotto. Non è che qui piova sempre come la gente normalmente pensa. Voglio dire, non siamo mica in Scozia. In genere piove il giusto, e questo vuol dire che in questo periodo piove oggettivamente spesso. Ok, ogni giorno.

Le gocce cadono quasi orizzontalmente e colpiscono la mia finestra. Poco male, tanto non lavo le finestre da un sacco di tempo.

L'estate sta per finire, e questi temporali improvvisi ne sono la prova. I prossimi mesi voleranno, lo so già, le foglie inizieranno lentamente a cadere e in pochissimo tempo saremo già a novembre. Il mese che detesto più di tutti, visto che non segna né una fine né un inizio. È una caratteristica da cui non riesco a sfuggire questo mio ostinarmi a pensare sempre alla cose brutte che succederanno. La mia amica Jennie ha perfettamente ragione quando dice che non so gustarmi il momento. Sono quasi cronicamente incapace di farlo.
Guardo sul polso il bell'orologio regalatomi dai miei per la mia laurea ormai qualche anno fa, che mi indica inesorabile che sono già in ritardo sulla tabella di marcia quotidiana. In fondo al corridoio il telefono prende a squillare minacciosamente. A quest'ora può essere solo mia madre, quindi non mi degno di rispondere. Mai iniziare la giornata con tua madre che ti stressa. Una giornata simile non può che andare male.
La mia esistenza è da sempre stata segnata dall'aver avuto una madre che ha passato tutta la sua vita a fare la casalinga, mentre in verità sognava di fare carriera. Voi direte, e allora perché non ha lavorato? Ecco, ancora oggi, non so darmi una risposta. So solo che ha da sempre pensato che, al contrario, far morire di lavoro la sua unica figlia fosse un'idea eccezionale.

Mi chiama ogni giorno in ufficio e mi ripete sempre la stessa cosa. «Cosa stai facendo amore?» E io tutti i giorni le rispondo «Sto lavorando mamma». Questa frase le piace, la fa sentire orgogliosa.

In realtà, io non sono mai stata una femminista sfegatata, ma questo mia madre non ha mai voluto accettarlo. Lei pensa ancora di essere una suffragetta dell'inizio del secolo scorso.

Sono stata costretta a studiare economia all'università solo per il quieto vivere. Mia madre, infatti, pretendeva che io lavorassi in una di quelle grandi banche d'affari; io invece delle donne che vi lavoravano ammiravo solo gli elegantissimi completi. Sono sempre stata capace di grande onestà con me stessa, una delle poche doti che penso di avere, e la realtà è che non ho mai avuto determinazione o voglia di riuscire o qualcosa che anche solo lontanamente potesse assomigliarci.

Il caso ha voluto che, per una serie di incredibili circostanze, io sia finita a lavorare per un' Investment Bank. A distanza di anni mi sembra ancora grottesco. In un tema alle elementari dal titolo «cosa voglio fare da grande» ricordo di aver scritto che mi sarebbe piaciuto fare la sarta. Trovavo eccitante la capacità di creare abiti dal nulla e in generale pensavo che il creare qualcosa desse un senso alla vita lavorativa. Oggi, infatti, io non creo nulla, spesso mi sembra quasi di distruggere. Ecco perché non mi convince quello che faccio.
Ho superato il test d'ingresso alla facoltà di economia solo perché in mezzo a tanta gente sono stata capace di individuare una ragazza dall'aria furba, mi sono tenuta incollata a lei e ho scopiazzato le risposte dei quesiti che in realtà erano arabo. A mia discolpa posso solo dire che individuare la secchiona giusta è anche questa un'arte.

In realtà Jennie non mi ha solo aiutato a superare il test, ma è anche stata una grande amica in tutti questi anni. Ci siamo conosciute in quell'occasione durante il test d'ammissione e da allora siamo inseparabili. Due persone relativamente introverse, due ragazze non molto fighette: questo ci ha accomunato immediatamente. Ora lei lavora alla Goldman Sachs (genio era e genio è rimasta), ma quando può continua ad aiutarmi. Devo a lei se sono riuscita ad entrare anch'io in una prestigiosa banca d'affari: mi ha preparato un mese per sostenere le loro selezioni. E io ho il vago sospetto di essere riuscita a farmi assumere solo per non deluderla. Beh, senza dimenticare che in caso di fallimento mia madre mi avrebbe ucciso. E non è solo un modo di dire, credetemi.

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Io faccio parte di un team che si occupa di fusioni ed acquisizioni estere, siamo una decina di persone completamente dedite al lavoro. O meglio, gli altri nove sono estremamente dediti, io faccio finta. Ma sono davvero brava a fingere.

Il problema principale del mio lavoro, a parte il fatto che riguarda lo studio dei bilanci e della fiscalità (blah...), è l'assurdo orario a cui siamo sottoposti: sono costretta a lavorare dalle 8 del mattino fino anche alle 10 di sera. Per riuscire a ritagliarmi qualche ora di shopping ogni tanto devo fingere un malore, un mal di pancia insostenibile, un'emicrania che tutte le volte è senza precedenti. I miei colleghi sono in genere così presi dal loro lavoro che neanche si accorgono della mia mancanza. Per loro è così del tutto inimmaginabile che qualcuno voglia scappare dal lavoro che non ci fanno neanche caso. Ho il sospetto che verrebbero a lavorare anche gratis, io ci vengo davvero solo perché mi pagano discretamente. E spesso non basta neanche quello per farmi venire il sorriso la mattina.

Una volta, durante una delle mie fughe in un negozio in centro, sono incappata in Lisa, dell'ufficio derivati su commodities: ci siamo riconosciute e sorrise con fare complice. Quando ci incontriamo in ascensore ci sorridiamo sempre. L'aver scoperto di non essere l'unica mi ha rasserenato, ha fatto venire meno quei pochissimi sensi di colpa che avevo. Erano davvero molto labili prima, ora sono del tutto inesistenti.

Mi capita ancora di pensare a quelle stupende ragazze fasciate in meravigliosi completi che vedevo correre per la city mentre ero ragazzina: ma come diavolo facevano a comprarsi i vestiti se erano costrette a lavorare tutto il giorno, spesso sabato e domenica inclusi?

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Secondo mia madre le donne non hanno bisogno di un marito. Ripeto, mia madre, che si è sposata all'età di 22 anni, è davvero convinta che gli uomini siano superflui e che ogni donna debba cercare il proprio gratificante successo nel mondo del lavoro. Ma pensa una cosa simile solo perché di fatto non ha mai lavorato: se solo ci avesse provato, sarebbe corsa a sposarsi il giorno dopo. Mio padre sopporta pazientemente e silenziosamente, quando l'aria in casa diventa troppo pesante scappa a giocare a golf e risolve così i suoi problemi.
Chiaramente una femminista come lei non può sopportare di fare i lavori di casa, così assume delle persone che lo facciano per lei: negli ultimi anni si sono susseguite schiere di ragazze dal nome più o meno impronunciabile che hanno stirato, lavato, pulito e cucinato per la mia famiglia. Io invece, che lavoro dalle otto del mattino fino alle dieci di sera mi faccio le pulizie da sola. Naturalmente.

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La giornata oggi è iniziata davvero male: sono in ritardassimo, mi sono messa delle scarpe scomodissime, credo di aver bucato le calze e mi si è mezzo scucito il bellissimo ombrellino nuovo, nero a pois bianchi che ho comprato per poche sterline la settimana scorsa. Questo mi dovrebbe servire da lezione: se una cosa costa poco un motivo c'è. Come ho già detto piove, ma a Londra piove così tanto che la giornata odierna non è che un'altra conferma della statistica. Così sto arrivando in ufficio mezza bagnata e già stremata dal salto delle pozzanghere quando incontro Lucas dell'ufficio legale. Sorride compiaciuto mentre preme il tasto dell'ascensore e mi dice con una certa boria: «Non so se hai sentito, ma dal mese prossimo sono a New York!»

Ora, il bastardo sa benissimo che io avevo chiesto di essere mandata all'ufficio newyorkese, ed è più che evidente che se ci va lui io non parto, dal momento che ho saputo da sicure fonti interne, che ho corrotto con caffè e dolcetti, che c'è un solo posto disponibile.
In realtà l'idea del trasferimento all'estero per conoscere il mondo e fare carriera non era stata del tutto mia. Edward, il mio mitico capo, una delle poche ragioni per cui non mi sono già licenziata, mi ha caldamente suggerito pochi mesi fa di chiedere di essere destinata a qualche ufficio estero, definendola una condizione indispensabile per crescere professionalmente. Io, che non ci pensavo neanche ad andarmene da Londra, non l'ho ascoltato. Allora lui mi ha candidato direttamente, ignorando tutte le mie proteste. Quello che Edward davvero non capirà mai è che io non voglio assolutamente fare carriera. Non me ne importa un fico secco. Devo solo impiegare il tempo nell'attesa di scoprire cosa voglio fare da grande. E lo ammetto, se domani un affascinantissimo principe azzurro con elevato conto in banca o inesauribile fondo fiduciario mi chiedesse di sposarlo, io non ci penserei due volte a licenziarmi. Con immenso orrore di mia madre, che forse sospetta qualcosa di simile ma almeno ha il buon gusto di non chiedere.

Non chiedere quello che non puoi sopportare è una sua saggia regola. Nella sua follia devo ammettere che è dotata di molto giudizio, decisamente più di sua figlia.

In realtà, nonostante quello che si sente dire in giro, il mondo della finanza non è eccessivamente maschilista: ai miei colleghi non importa un accidenti se io sono una donna o un uomo, gli importa solo quanto sono in grado di lavorare.
Quando sono entrata in questa banca ormai 6 anni fa Edward mi ha subito preso in simpatia, dice che ero fuori dal comune. Effettivamente non ho assolutamente niente a che fare con tutti gli altri che credono davvero che il lavoro nobiliti l'uomo. Nessuno riuscirà mai a convincermi di una cosa simile. Come può essere meglio lavorare invece che dormire?

Edward si sta avvicinando alla cinquantina, ha una bella moglie che naturalmente se ne sta a casa, cura il giardino e il cane, oltre a cucinare per il loro amatissimo figlio diciottenne, che nella vita vuole solo suonare la chitarra. Credo mi considerino come una sorta di figlia, a cui si deve trasmettere il lavoro e il sapere.

Senza di lui sarei completamente persa. Inoltre, i miei colleghi sanno che io sono la sua preferita e mi lasciano vivere in pace. Potrei dire che godo di un certo status in ufficio. Andarmene dopo che ho faticato tanto per essere lasciata in pace? Neanche morta.

Dopo la sua segnalazione l'ufficio risorse umane mi ha contattato per un colloquio. Hanno finto di mettermi a mio agio mentre in realtà cercavano di cogliere anche il più piccolo battito delle mie ciglia e mi hanno chiesto abbastanza indirettamente in quale parte del mondo mi sarebbe piaciuto lavorare. Ora, io non sono mai stata brava con il dico non dico, quindi ho affermato senza peli sulla lingua che volevo andare a New York. O lì oppure da nessun altra parte. Tutti sanno che non c'è posto migliore per fare shopping di New York, senza contare l'elevatissima probabilità che potrei avere di incontrare casualmente un potenziale ricchissimo marito.

E ora Lucas, che sa benissimo della mia richiesta, è qui in ascensore a vantarsi del fatto che sarà lui a partire. Quasi quasi mi viene il sospetto che si stia facendo su e giù con l'ascensore da un'ora solo per potermi incontrare e sbattermi in faccia questa notizia. Io sono in evidentissimo ritardo e lui non è di certo appena arrivato. Lecchino com'è deve sempre essere tra i primi a mettere piede qui dentro.

Faccio finta di niente, spingo il bottone del mio piano ed attendo pazientemente che l'ascensore inizi la sua salita. Ma Lucas non è molto soddisfatto della mia reazione e gioca il tutto per tutto per farmi perdere le staffe.

«La notizia migliore riguarda però la tua destinazione, perché, vedi Y/n, un passerotto mi ha detto che anche tu sei in partenza...» il vile ha appena sganciato la notizia bomba, vede che sto finalmente subendo, che questa informazione è completamente inaspettata, e la mia sicurezza sta pian piano svanendo. Da un lato vorrei infischiarmene, ma dall'altro devo assolutamente scoprire qualcosa di più.

«Di cosa stai parlando? Io ero solo interessata a New York, e visto che l'unico posto è stato assegnato a te è evidente che io rimango qui. Ma poco male, Londra mi piace e in fondo restare ha il suo vantaggio.»

Lucas sorride sempre di più ascoltando le mie parole, e il suo sorriso non mi piace affatto.

«Vedrai allora che la giornata sarà piena di sorprese.»

Finalmente l'ascensore arriva al mio piano, e io esco senza neanche salutarlo, che vada pure al diavolo. Mentre le porte si richiudono sento che mi dice «Potremmo fare la festa d'addio insieme, pensaci e fammi sapere!»

Ok, non andrò a New York ma evidentemente qualcuno nei piani alti ha pensato bene che anch'io dovessi partire. Ma per andare dove? Parigi potrebbe piacermi, ma io parlo un francese davvero molto stentato. Ora che ci penso non credo che riuscirei assolutamente a farmi capire parlando francese. Poco male, vuol dire che mi iscriverò ad un corso di lingua. Quello a cui mi aveva mandato mia madre per 10 anni di fila non ha mai sortito i suoi effetti perché io non ero davvero motivata. E anche perché l'insegnante sosteneva che neanche 100 anni di corsi mi avrebbero mai trasformato in una persona capace di dire 2 frasi sensate in una lingua che mi è sempre stata antipatica. Ma anche a Parigi lo shopping non è niente male, e il cibo è divino. Ora che ci penso, Parigi sarebbe molto meglio di New York, non so davvero come ho fatto a non pensarci prima.

Oppure potrebbero mandarmi a Roma: gli italiani sono così affascinanti ed espansivi, adoro i loro stilisti ed il loro modo di vivere.

Quando mi siedo alla mia scrivania sono davvero convinta che andrà tutto benone e che Edward mi manderà in qualche posto bellissimo. La prima cosa che noto sono i messaggi che la mia collega Alexandra, detta anche Alexa, mi ha lasciato. Mia madre deve aver chiamato almeno 10 volte questa mattina; sa che oggi vengono decisi i trasferimenti e sicuramente non ha dormito dall'emozione. Ma prima di riuscire a richiamarla vedo Edward dall'altra parte dell'ufficio che mi fa strani cenni, mi indica il suo ufficio e poi scappa dentro. Se non lo conoscessi così bene direi che è agitato.

Alexa è ritornata alla postazione con il caffè in mano. «Cosa diavolo sta succedendo questa mattina?» le chiedo preoccupata.

Lei mi guarda con fare sospetto, come se stesse ragionando su quanto svelarmi. «Ho solo visto un uomo entrare nell'ufficio di Edward mezz'ora fa. Poco dopo Edward è venuto a cercarti, abbiamo anche cercato di chiamarti prima a casa e poi sul cellulare ma era spento. Credo che avesse bisogno di te urgentemente». Questo vuol dire che per una volta non era mia madre che mi telefonava. E per la cronaca mi dimentico sempre di accendere il cellulare, troppe e-mail lavorative che preferisco ignorare.

«Allora vado a vedere subito cosa vuole da me.» Il mio tono dovrebbe essere sicuro, ma così non è.

Mi incammino timidamente verso il suo ufficio e sento le farfalle allo stomaco. Poco prima di entrare ho un presentimento: so che non mi dirà niente di buono, sento che con assoluta certezza ci saranno grane per me. Mi è già capitato di sentire in anticipo l'arrivo di disgrazie. Ricordo che qualche volta ai tempi della scuola sono riuscita a predire persino l'arrivo di esami a sorpresa. Io lo chiamo istinto di sopravvivenza. Oggi mi sta dicendo che è meglio scappare. Se almeno potessi bigiare proprio come a scuola. Per un breve attimo sono quasi tentata di filarmela. Se solo Edward non mi avesse visto arrivare...

Busso ed entro con tutto il coraggio che ho, o quel poco che è rimasto almeno. Vedo il mio capo seduto alla scrivania: mi guarda con un attimo di imbarazzo, e poi si rivolge a qualcuno seduto di fronte a lui.

«Ah, ecco finalmente la nostra Y/n. Alexandra mi ha riferito che avevi chiamato questa mattina in ufficio per avvisare che saresti arrivata con un lieve ritardo perché tua mamma era stata poco bene.» Mia mamma non è mai stata poco bene in vita sua. Edward sta chiaramente mentendo per costruirmi un alibi, e non solo, mi sta dicendo di mentire anch'io. Ma perché mai?
Cerco di avanzare timidamente, mi porto in prossimità della sua scrivania, ma non vedo ancora chi è l'altro uomo seduto di fronte a lui, nascosto com'è dallo schienale dell'enorme poltrona di pelle. Che si tratti di quelli del controllo? Che io abbia davvero combinato un disastro questa volta? Ho sempre saputo che non ero portata per questo benedetto lavoro. Deve trattarsi di quella volta che ho rovesciato il caffè sul tabulato delle transazioni riscrivendolo poi del tutto a caso. Mi mangerei quasi le unghie per il nervoso.

Infine, ecco che l'uomo del mistero si volta e io lo guardo con curiosità: mi sembra un ragazzo cinese, gli occhi sono molto espressivi ma chiaramente a mandorla, indossa un completo grigio scuro di evidente taglio sartoriale, perfetto e impeccabile. Ha un aspetto molto serio, fin troppo se sapete cosa intendo. Se sta cercando di intimidirmi con lo sguardo direi che ci sta riuscendo. L'unica cosa che tradisce una qualche vanità sono i suoi capelli neri troppo lucidi, che sembrano urlare pietà per la massa esorbitante di lacca e gel presenti su di essi. Ho sempre odiato tipi simili. Ti trafiggono con quel loro sguardo di superiorità come se nessuno mai potesse essere alla loro altezza, come se nessuno fosse degno di posare gli occhi su di loro.
«Miss Jones» mi dice e si alza dalla sedia. È molto alto, per essere un orientale è altissimo. Io sono sempre stata molto fiera del mio metro e ottanta, e per rimarcare la mia altezza in genere porto anche qualche centimetro di tacco. Oggi ho messo le scomodissime ma bellissime scarpe con 7 centimetri di tacco, eppure lui è ugualmente più alto di me di almeno 5 centimetri. Vedo tuttavia che è sorpreso della mia altezza. Mi scruta attentamente, ma non sono del tutto sicura che gli piaccia quello che sta guardando. Anzi, se dovessi fare una scommessa direi che non gli piace per niente quello su cui ha posato lo sguardo.

«Y/n, questo è Kim Namjoon.» Edward è impacciato ma cerca ugualmente di fare le presentazioni. Lui mi porge la mano, una mano grande e perfetta, che mi fa vergognare di non essere andata dalla manicure nell'ultima vita e mezza, e che stringo in maniera automatica ma con un po' di titubanza. Spero davvero di non avere la mano sudata.

Ha una presa molto decisa e severa, gli si addice molto. Dopo di ché si risiede al suo posto senza pronunciare una sola sillaba come se nulla fosse, e io faccio altrettanto sulla sedia accanto alla sua.

«Ho già parlato a lungo di te con Namjoon, e gli ho elencato tutte le tue qualità» sta dicendo Edward. Sbatto in fretta le ciglia mal celando il mio stupore. Evidentemente mi sfugge qualcosa: perché mai il mio capo dovrebbe cercare di nascondere le mie lacune ed i miei ritardi al nuovo venuto? Chi diavolo è per indurre Edward a comportarsi in maniera così strana?

Sono ufficialmente in panico, e come sempre mi accade nei momenti delicati riesco sempre a dire cose insensate. «Lei è cinese?» guardo accanto a me e la domanda mi esce fuori inaspettata. Ecco, forse partire con un interrogatorio non è il modo migliore per rendersi simpatici con gente che non si conosce.

Kim Namjoon strabuzza gli occhi quasi sbigottito, come se la mia fosse una domanda totalmente ridicola. Ora, posso essere stata indiscreta, ma non merito lo sguardo di assoluto disprezzo che mi sta lanciando.

«Hmm, no. Sono americano, ma di origini coreane» mi dice finalmente. Ora che ci penso, è la prima volta che apre bocca da quando sono entrata. Voce profonda, ma chiaramente seccata. Una sorta di avvertimento. Chi diavolo è, il killer che la società manda per eliminare i dipendenti più pigri?

Sono assolutamente certa dall'espressione dei suoi occhi che già mi detesta. Ci conosciamo da 30 secondi e l'antipatia reciproca è più che evidente. Nell'aria c'è qualcosa che non saprei definire...hmm, forse aria di tempesta? Mio Dio, ma quale infelice allineamento stellare sta causando tutte queste disgrazie odierne?

Edward deve aver percepito il mio imbarazzo perché cerca di spiegarmi la situazione. «Come sai bene qualche mese fa ti sei resa disponibile ad un periodo di trasferta all'estero, e la società ha deciso di accontentarti.» Detta così potrebbe sembrare una cosa bella, ma io so già che la fregatura sta per arrivare servita su un piatto d'argento: sono pronta ad andarmene da Londra tanto quanto potrebbe esserlo la regina d'Inghilterra, e il mio capo lo sa.

«Veramente io mi sono resa disponibile a trasferte a New York» puntualizzo, lanciandogli un'occhiataccia che vorrebbe dire "e il tutto a causa tua".
Il Sig. Kim cerca di nascondere un sorriso di derisione di fronte alla mia frase ma non ci riesce del tutto. Chiaramente gli americani, o almeno quelli di origine coreana, non sanno nulla delle buone maniere; nessuno gli hai mai detto che in certi casi, e soprattutto in Inghilterra, fingere è d'obbligo? Ormai non mi importa di fare bella figura con lui, quindi cerco di incenerirlo con lo sguardo, cosa che sicuramente coglie. Pur essendo antipaticissimo devo ammettere che è perspicace.

«Sì, ecco, lo so che tu avevi chiesto espressamente di andare a New York City, ma il nostro ufficio americano aveva bisogno di consulenti legali e quindi hanno deciso di mandarci Lucas Yuk-hei. Ma sarebbe stato un peccato farti sprecare quest'opportunità davvero unica, e quindi abbiamo deciso di dar corso al tuo trasferimento all'ufficio della Big Hit a Seoul.» Edward ha preso coraggio, un coraggio che probabilmente pensava di non avere, e paonazzo in viso mi sta comunicando la sentenza.

Io non ho sentito bene, nelle mie orecchie non risuonano ancora le sue ultime parole, il mio cervello si rifiuta di processarle.

«Dove devo andare???» ora il mio tono è molto più acuto del normale. La voce non sembra neanche la mia.

Kim Namjoon non vuole assolutamente perdere la possibilità di darmi il colpo di grazia, quindi rimarca con eccessiva convinzione «A Seoul, nella Corea del Sud, nel caso non sapesse dove si trova. Io sono appena arrivato dal nostro ufficio sudcoreano per rendere il suo trasferimento...come dire...più facile.»

Ma è evidente che non sta neanche cercando di nascondere il suo vero pensiero, ovvero quello che mi renderà il trasferimento un inferno.

Non può essere, non può assolutamente essere. Devono essere tutti impazziti. Io non so nemmeno dove si trova la Corea del Sud, o meglio, so solo che si trova lontanissimo e non mi pare che sia famosa per lo shopping o per l'eccellente cibo. Improvvisamente mi rendo conto che per me è davvero finita.

«Quando?» il mio è poco più che un sussurro.

«Tra due settimane.» Edward si rende conto di quello che mi sta dicendo, sa l'effetto che la notizia sta avendo su di me, e non osa quasi guardarmi in faccia.

«Ed è definitivo? Non posso dire niente a proposito?» oso chiedere.

«Direi che è definitivo» ammette il mio quasi ex capo bastardo e traditore.
Per qualche minuto nessuno di noi dice niente, finché Edward non si riprende «Namjoon sarà il tuo capo a Seoul, anche lui ha appreso questa mattina che saresti stata tu a partire con lui, quindi anche per lui è un sorpresa. Ma io conosco molto bene entrambi, e vi posso assicurare che lavorerete bene insieme».

Ecco svelato il perché del malcontento del nuovo arrivato: anche lui come me era all'oscuro di un po' di cose. Chissà chi gli avevano promesso ed ecco che ora si deve accontentare della sottoscritta.

Nella stanza cala un silenzio imbarazzante, e per alcuni lunghissimi ed interminabili minuti nessuno osa dire niente. È più che evidente che è stato detto anche troppo.

Io sono sotto shock, se qualcuno mi chiedesse di alzarmi dalla sedia probabilmente stramazzerei al suolo. Sto cercando con tutti i miei sforzi di richiamare alla memoria qualsiasi cosa io possa ricordare della Corea del Sud, ma non ci riesco! Non so nulla di Seoul e dei coreani, neanche una singola minuscola cosa, a parte che hanno gli occhi a mandorla.

Edward pare essersi ripreso dopo un attimo di esitazione «Namjoon, Jessica Ho mi ha detto che voleva vederti questa mattina per discutere insieme a te di alcune tematiche urgenti. Posso chiedere ad Alexandra di accompagnarti, e dopo che avrete finito potrai raggiungermi per il pranzo.»

Namjoon si è già alzato, ritenendo il suggerimento più che valido. Evidentemente per lui la faccenda è chiusa. Vedo Edward chiamare al telefono Alexa, che compare nel giro di pochi secondi e segue le istruzioni del nostro capo accompagnando fuori dall'ufficio mister simpatia. Che se ne va senza neanche salutarmi. Non che la cosa mi stupisca.

Rimasta finalmente sola con Edward, non riesco davvero a trattenermi. «Sia chiaro che io non vado assolutamente in Corea!!! Mi licenzio piuttosto!!! Ma cosa pensavi? Che avrei fatto le valigie e me ne sarei davvero andata in un posto che non so nemmeno dove si trova? Un posto lontanissimo e con quella specie di foca ammaestrata!!!» non ho quasi più fiato da quanto sto urlando. Spero davvero che questo ufficio sia stato a suo tempo insonorizzato a dovere.

Edward mi guarda con sofferenza, mi rendo conto per la prima volta da quando sono entrata qui che sa cosa sto passando in questo momento. «Y/n, credimi, non ho potuto farci niente. La direzione vuole assolutamente una donna nell'ufficio coreano, dicono che l'ambiente sia un tantino maschilista e chiedono che qualcuno risollevi il morale. Senza contare che avevano davvero bisogno di un esperto di fusioni, e non c'era nessun altro del nostro team che fosse una donna e potesse partire.»
Esperta io? Ma con chi pensa di avere a che fare? A forza di ripeterselo si è davvero convinto che io ne so qualcosa di questo lavoro?

A questo ribatto subito «Ma c'è anche Alexa!»

«Alexandra ha un marito e un figlio, come posso chiederle di partire?»

Lo so che ha ragione, ma non voglio arrendermi all'evidenza. Sto quasi considerando di rimanere incinta anch'io in due settimane, ma mi manca la materia prima, ovvero un padre. Al momento sono libera, liberissima, ed Edward lo sa bene. Che la cosa mi serva da monito: mai raccontare i fatti tuoi al capo.

«Ma io non voglio andarmene in Corea, e per di più a lavorare per quello lì...» il mio tono è praticamente una supplica.

Edward sa sempre come prendermi, e anche questa volta sa che il suo tono pacifico mi rasserena. «Namjoon è davvero un ragazzo in gamba, ci ho lavorato insieme per qualche mese quando sono stato a New York.»

È ufficiale, sono stati tutti a New York tranne la sottoscritta, che a quanto pare non ci andrà mai.

«È brillante, ha una mente davvero acuta. Imparerai molto da lui» sta continuando Edward.

«Non mi importa niente della sua mente geniale. Ha un aspetto cattivo, e poi come diavolo posso lavorare per uno che ha le unghie più curate delle mie?» mi rendo conto che mi sto comportando come un'adolescente capricciosa ma non mi importa. In questo momento farei di tutto pur di non dover partire. «Mi ha squadrato dall'altro in basso come se fosse una creatura superiore. E hai visto con quale supponenza mi stesse deridendo» ribatto infine.

«Y/n, è ora per te di crescere sia umanamente che professionalmente. Namjoon è una delle persone che stimo di più in questa società, ha grinta e carattere, so che è intransigente ma che saprà anche ripagarti delle fatiche.»

Ma Edward ne è davvero convinto oppure vuole solo liberarsi di me, costi quel che costi?

Questo vuol dire che mi toccherà davvero lavorare sodo, con un capo tiranno che mi disprezza prima ancora di conoscermi. Pensa quando avrà scoperto davvero come sono!

Non sono ancora pronta a darmi per vinta, tuttavia. «Io non so la lingua, io so solo l'inglese. Non riuscirò mai a imparare una parola di coreano! Come farò a sopravvivere in una città come Seoul?» balbetto sempre più rossa in viso. Sono pericolosamente vicina alle lacrime.

Edward sa che le sto provando tutte e non ci casca. «Ormai Seoul è una città internazionale, quasi tutti parlano inglese. E in ufficio l'inglese è la lingua principale».

Non so più cosa inventare, mi sento in trappola.

Il mio quasi ex capo sa di avermi in pugno «E poi la banca ti pagherà l'appartamento e provvederà a tutte le spese per il trasloco. Ormai è deciso, tu e Namjoon partite tra due settimane, anzi, meno...partite sabato prossimo.»

Si alza dalla sua poltrona e mi accompagna fuori dal suo ufficio con una pacca sulle spalle. «Cercate di familiarizzare nel frattempo. Credo che dovresti venire a pranzo con noi, in modo da conoscere meglio Namjoon» mi dice infine. Mi sorride ma una volta che sono fuori richiude con decisione la porta. Nel caso non si fosse capito, sono ufficialmente spacciata.

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È ufficiale, oggi è la giornata peggiore della mia vita. E non sono nemmeno le 10 del mattino. Non oso neanche pensare alle disgrazie che potrebbero succedere fino alla fine della giornata.

Mi ricordo allora che devo ancora richiamare mia madre, così mi avvicino alla mia scrivania, mi lascio cadere come un sacco sulla sedia e compongo in automatico il numero dei miei genitori. Vivono poco fuori Londra, in una bella casa con giardino. La scelta della casa è stata l'unica cosa su cui mio padre ha avuto diritto di parola in tutti questi anni. A mio modesto parere ha scelto davvero bene.

Naturalmente sento la voce di mia madre dall'altra parte della cornetta. È sempre lei a rispondere, se mio padre osasse farlo credo seriamente che rischierebbe la vita. «Y/n! Allora, ti sembra il modo? Chiami solo ora? Tuo padre ed io stiamo morendo dalla voglia di sapere!»

Dubito che mio padre sia così smanioso di scoprire se rimarrà di fatto da solo sull'isola inglese insieme a mia madre, senza di me a proteggerlo ogni tanto, ma non oso ribattere. «Mamma, ti ho chiamato appena ho saputo le novità» le rispondo.

«Allora, quando parti per New York? E quanto rimani?» la voce è chiaramente elettrizzata all'idea.

Chissà come la prenderà... «Veramente non parto per New York, me ne vado a Seoul» la butto lì con finta semplicità.
Dall'altra parte del telefono tutto tace.

Ecco almeno una soddisfazione, mia madre è rimasta per la prima volta senza parole. Probabilmente non sa assolutamente dove si trovi Seoul e sta cercando di ricordare qualcosa in merito. Io non sono stata mai molto brava in geografia, ma lei è davvero imbarazzante.

Quasi sorrido per la prima volta da quando sono entrata in ufficio questa mattina, e mi sento anche magnanima, perché alla fine la tolgo dall'impaccio. «Seoul è in Corea del Sud, hai presente?»
Lei cerca di mascherare lo stupore, ma non ci riesce. Sento solo un sospiro.

«Parto tra due settimane» la incalzo.

Finalmente riesce a dire qualcosa, forse si è finalmente ricordata qualche dettaglio sull'Asia. «Ma è splendido! La Corea del Sud è una grande economia emergente! Farai sicuramente carriera in un posto simile!» a quanto pare è riuscita a consultare al volo un'enciclopedia, sento il rumore di un libro nel sottofondo.

Mia madre ha appena saputo che la sua unica figlia sta per andarsene all'altro capo del mondo e tutto quello che riesce a pensare è che farò carriera. Lo sapevo che la giornata poteva peggiorare ulteriormente, me lo sentivo.

«Ti farò sapere tutti i dettagli, ma ora devo tornare a lavorare. Ci sentiamo dopo mamma» la saluto senza neanche attendere che lei mi risponda.

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La mattinata procede con tranquillità, sempre che questo stato di sospensione possa essere paragonato effettivamente alla tranquillità. Accanto a me nessuno osa chiedere, e tutti fanno finta di fissare intensamente il loro computer. Alexa ha compreso il mio malumore di fronte alla notizia del trasferimento e a suo modo sta cercando di tirarmi su. Mi offre alcune caramelle gommose e della liquirizia. Sostiene da sempre che le caramelle sono in grado di curare tutti i mali. Io non ne sono troppo convinta, ma posso provare lo stesso il suo rimedio, anche perché non ne ho altri. Le caramelle oppure il suicidio. Vada per le caramelle.

In preda alla crisi più nera scrivo un'e-mail a Jennie e le comunico brevemente le novità.

Notizia drammatica: non parto per New York ma per Seoul tra due settimane...
Il mio intento è farmi consolare come si deve. Mi sembra palese che voglio crogiolarmi nel mio dolore e nelle mia totale disperazione. Evidentemente non così palese, visto che tutto quello che lei mi risponde è:

Fighissimo! Chissà quanto kimchi ti mangerai!

Sbatto le ciglia perplessa di fronte al suo messaggio. Kimchi? Io non so neanche cos'è il kimchi, sono sicura di non averlo mai sentito nominare in vita mia. Cerco nervosamente su internet e scopro che è un piatto diffusissimo in Corea, fatto di verdure fermentate con spezie: di solito viene fatto con cavolo cinese a cui si unisce una montagna di peperoncino. Il sito completa la spiegazione con una foto che non farebbe giustizia neanche al piatto più succulento, e temo fortemente che questo non lo sia a prescindere.

Sono così disgustata dalla mia scoperta che nemmeno mi accorgo che dietro la mia sedia si è come per magia materializzato Kim Namjoon. Sono certa che il suo passo felpato non sia casuale. Sta evidentemente cercando di capire cosa sto leggendo, al che mi alzo di scatto e con un tono di voce minaccioso gli dico: «In Corea non siete abituati a rispettare la privacy altrui?»

Lui si ritrae indietro istintivamente e mi guarda perplesso. I miei occhi sono di fuoco, per un brevissimo istante credo persino di averlo intimidito, il che è a dir poco incredibile. Il signor Kim ha l'aria di uno che più che farsi terrorizzare in genere terrorizza.

Dopo un attimo di esitazione mi schiocca la sua occhiata diffidente e astiosa allo stesso tempo, che ho già imparato a conoscere prima. Se penso che lo conosco da solo poche ore deve trattarsi di un record mondiale. «Veramente Edward mi ha mandato a cercarti per il pranzo» mi dice scettico. «Non volevo spaventarti, concentrata com'eri sul tuo lavoro». Lo so che è ironico, ma ha un tono di voce così serio che tutti gli altri ci cascano. Io no, e glielo faccio chiaramente capire con un'occhiataccia.

Dio, giuro che lo odio abbastanza da ucciderlo. Ma com'è possibile detestare tanto una persona che si è appena incontrata? Questa sarà la terza o quarta frase che mi dice, in fondo non so ancora nulla di lui. Ma niente di quello che potrei scoprire in futuro potrebbe farmi cambiare idea. Neanche se fosse un martire o un filantropo, neanche se un giorno inventasse il vaccino contro tutte le malattie del mondo.

Cerco di fingere e gli sorrido, ma mi esce un sorriso orribile, davvero falsissimo. In genere riesco a fare meglio di così, è evidente che è lui a influenzarmi negativamente.

«Non c'è problema» gli rispondo e afferro cappotto e borsetta dall'attaccapanni qualche passo indietro alla mia scrivania.

Con la coda dell'occhio vedo che Edward è appena uscito dall'ufficio e si sta dirigendo verso l'ascensore. Così mi incammino anch'io, e Namjoon mi segue silenzioso. Scendiamo tutti e tre avvolti da una tensione abbastanza palpabile e ci incamminiamo lungo le trafficate strade londinesi. Nell'ora di pausa Londra sa essere davvero caotica.

Edward e Namjoon stanno discutendo di alcune pratiche aziendali, noto che si stimano davvero dal modo in cui si chiedono reciprocamente consiglio. Mi sento un po' esclusa dalla discussione, tutte le volte che provo ad intervenire dico cose senza senso. Forse è meglio camminare in silenzio.

Sono così assorta nei miei pensieri che quasi non mi rendo conto di quello che succede quando la mia maledettissima scarpa con il tacco mi fa scivolare sulla strada ancora bagnata di pioggia. E già mi preparo a cadere pesantemente per terra, quando, nel bel mezzo del mio volo, sento due grandi mani afferrarmi con decisione. Penso subito a Edward, che stava camminando al mio fianco, ma alzando lo sguardo vedo gli occhi scuri, in tutti i sensi, di Namjoon. Noto per la prima volta che ha delle ciglia incredibilmente lunghe; se fosse una donna non dovrebbe neanche usare il mascara. Strano, ho sempre pensato che gli occhi a mandorla fossero diversi.

Non so come, ma deve aver fatto un improvviso balzo felino per soccorrermi. «Stia attenta! Non vorrà mica cadere e farsi male, rischiando di ritardare la nostra partenza. Non vorrei che si rompesse qualcosa!» mi dice. Questa volta non capisco se il suo tono è serio o canzonatorio.

Io lo ringrazio con imbarazzo, mi raddrizzo subito ma vedo che lui mi tiene ancora. Stacco allora le sue mani dalla mia vita e raggiungo Edward qualche metro più avanti. «Sei arrossita» mi prende in giro il mio capo a bassa voce.

«Non dire sciocchezze! Allora, dov'è questo benedetto ristorante?» chiedo con finta tranquillità mentre avanzo con un passo esageratamente lungo.

Finalmente poco dopo arriviamo al ristorante italiano prescelto. Io adoro i ristoranti italiani, vado pazza per la pasta. Non devo neanche consultare il menù, so già che prenderò le tagliatelle ai funghi. Improvvisamente divento triste, pensando al fatto che per un bel po' non potrò mangiare cibo simile, dal momento che sto partendo per un paese lontanissimo dove mangiano cavolo fermentato. Non so come, ma un sospiro sofferto mi esce dalla bocca. Edward non si è accorto di niente, ma Namjoon sì, e mi guarda attentamente, ma come sempre questa mattina non pare per niente soddisfatto di quello che ha davanti. Non dovrebbe fissare la gente in questa maniera, trapassandola da parte a parte, non credo sia educato.

Sto quasi per dirglielo quando Edward interrompe le nostre silenziose ostilità chiamando ad alta voce il cameriere per ordinare.

Il pranzo sta procedendo discretamente: il mangiare è ottimo, la conversazione tra Edward e Namjoon non richiede il mio intervento se non in qualche occasione rarissima, così ho tempo per riflettere. Ma pensare oggi è pericoloso.
Sono così assorta che non mi rendo quasi conto che Edward si è allontanato dal tavolo per rispondere ad una telefonata. Io sono con il naso per aria mentre Namjoon mi scruta non cercando affatto di nasconderlo.

«Non mi piace essere osservata» gli dico schietta avvertendo il suo sguardo su di me. «E lei non sta facendo altro.»

Lui sorride alla mia frase, come divertito.
«Chiedo scusa» dice per niente dispiaciuto, «ma cerco di capire da qualche piccolo indizio sparso qua e là cosa aspettarmi da lei.»

«In che senso?» Lui non sa cosa aspettarsi? E io cosa dovrei dire allora?

«È evidente che lei non vuole partire per Seoul» dice sollevando un bicchiere di vino rosso fissando un punto imprecisato davanti a sé.

«Non mi pare un mistero...» borbotto.

«E di per sé non sarebbe un problema se io potessi capire che tipo di persona è lei. E stranamente faccio molta fatica.»

Io apro gli occhi curiosa, non ho davvero idea di dove voglia andare a parare.


«Lei mente malissimo, le si legge in faccia quasi tutto quello che pensa, ma poi c'è qualcos'altro che non si riesce a decifrare. Eppure ad una prima occhiata sembra una persona banale. Strano» conclude con voce piatta, come se non mi stesse insultando. Cosa che invece ha fatto, dannazione!

Per circa dieci secondi sono scioccata. Sto per ficcargli quel suo vino rosso in testa quando stranamente mi viene in mente un'idea: dovremmo coalizzarci per farmi rimanere a Londra.

«Giuro che non vuole essere un insulto ma solo un dato di fatto» gli dico preparandolo, «ma io penso molto sinceramente che lei sia un pallone gonfiato che prima o poi esploderà. Vedo inoltre che pensa che io sia una cretina totale, quindi perché non unire le nostre forze per farmi rimanere a Londra?»

Mi aspettavo una reazione diversa, perché quando Namjoon inizia a tossire a causa del vino che gli è andato di traverso non posso fare a meno di meravigliarmi. Mi guarda con orrore. Io non faccio altro che sorridergli come un angioletto.

«Cosa?» chiede molto serio, ancora tossicchiando.

«Lei mi disapprova, e non lo nasconde. Su, non mi dica che si stupisce che anch'io la trovi odioso» dico con voce soave. Alla fine del pranzo mi daranno l'Oscar.

«Generalmente la gente non mi trova odioso» dice risentito. Bene a sapersi, oltre che presuntuoso è anche permaloso.

È quasi divertente tutto questo. Namjoon è davvero scioccato dal mio modo di fare.

«Ipotizziamo per un attimo che tempo fa mi sia stato promesso un collaboratore con grande esperienza internazionale, e poi mi venga detto che invece dovrò fare da balia ad una giovane ragazza inglese. Una ragazza che da quello che vedo farà fatica ad ambientarsi in un una realtà diversa dalla sua, una ragazza che non mi sembra ad una prima occhiata eccessivamente dedita alla carriera...» alza un sopracciglio e mi guarda come per sondare l'effetto delle sue parole su di me. «...quindi, se lei ora fosse al mio posto, che cosa ne penserebbe di tutta questa faccenda?»

Ha ragione, lo so, ma non mi importa niente dei suoi motivi, io ho a cuore i miei di problemi.

«E se lasciassimo il campo delle ipotesi e tornassimo con i piedi per terra?» chiedo quasi annoiata da questa sua storiella.

Non voglio perdere tempo così decido di affrontarlo: «Lei non vuole lavorare con me, e io non voglio partire per Seoul. Direi che è il caso di unire le forze, così io rimango qui a Londra e lei riparte con qualcun altro più volenteroso di me.»

Lui riflette in silenzio ma non dice niente. Edward nel frattempo ritorna al tavolo e, se anche si accorge dell'atmosfera tesa, non fa niente per farlo capire.

Alla fine del pranzo rientriamo in ufficio, ognuno perso nei suoi pensieri. Io riprendo con il lavoro ma sono tutt'altro che serena.

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Sono appena tornata a casa dal lavoro, e la prima cosa che faccio è telefonare a Jennie. Sono le sette di sera, quindi lei è chiaramente in ufficio. Non esce mai prima delle nove/dieci e non cena mai a casa. A vedere Jennie uno finirebbe quasi per pensare che la Goldman sia un bel posto. E non lo è.

Vado diretta al punto non appena la sento rispondere. «Jennie, sono disperata! Cosa posso fare? Io non voglio andarmene da Londra, e sicuramente non voglio vivere per un anno in Corea!»

Lei ride, e come sempre ha una risata squillante ed armoniosa. «Sai che non mi dispiacerebbe andarmene da Londra per un po'? Penso sinceramente che dovresti partire, staccare con la tua famiglia e l'ambiente protetto che ti sei creata al lavoro. Tu hai bisogno di sfide mia cara» mi dice convinta.

Jennie non concepisce una vita monotona, lei ha sempre bisogno di nuovi traguardi. Infatti negli ultimi 6 anni è già stata 9 mesi a New York, 6 mesi a Hong Kong e 6 mesi a Parigi. Ogni tanto si stufa di Londra e va a vivere dall'altro capo del mondo. O come dico io, va a rintanarsi in un ufficio dall'altro capo del mondo, perché non mi risulta che abbia mai avuto un attimo per godersi da turista le varie città in cui ha vissuto. E un ufficio a Londra è probabilmente uguale ad ogni altro ufficio in giro per il mondo. Al massimo cambierà la mensa interna, ma se è solo una questione di cibo le basta chiamare qualche take and carry nuovo.

Io non sono affatto come lei: mi piace mettere radici, mi piace sapere cosa aspettarmi e vedere sempre le stesse facce al mattino. E poi, non voglio mettermi in discussione, ora che ho finalmente trovato una sorta di precario equilibrio nella mia disastrata vita.
«Io ho bisogno di pace e tranquillità» le rispondo rassegnata. Tanto non lo capirà mai.

«No, tu hai bisogno di uno scossone nella tua vita. E la Corea del Sud mi sembra una grande opportunità» mi dice cercando di convincermi.

«Ipotizzando anche per un attimo che Seoul sia davvero un bel posto come mi stai suggerendo, cosa che non è, non sai ancora con quale arpia d'uomo mi toccherebbe lavorare se davvero me ne andassi! Un certo Kim Namjoon che mi ha odiato nell'istante in cui mi ha visto. Credimi, nemmeno tu partiresti tanto tranquilla» mi lamento a voce alta.
Jennie ridacchia a bassa voce. La cosa non mi aiuta molto.

«Cielo Y/n, è chiaro che non tutti possono amarti subito. Ma in genere sei abbastanza brava ad entrare nelle grazie delle persone dopo qualche periodo prolungato di conoscenza. È una delle qualità che ti ho sempre invidiato» mi dice sincera.

Jennie che mi invidia qualcosa? Sono davvero stupita.

«In genere sarei d'accordo con te, ma devi conoscerlo. Credimi, mi detesta con una convinzione davvero radicata!» dico cercando di spiegarle.

La mia amica ride nuovamente. Sono felice di creare tanta ilarità, rifletto innervosita. «E perché mai dovrebbe detestarti così tanto? Ti ha appena conosciuto.»

Ci rifletto seriamente per un attimo. «Credo che abbia davvero capito che io non voglio fare questo lavoro» le ammetto malvolentieri.

«Te l'ho già detto, Y/n: a te questo lavoro piace ma ti piace di più lamentarti.»

Certe volte Jennie è davvero sfacciata.
«Pensandoci credo che mi abbia letto in faccia tutto quello che penso nel momento in cui mi ha visto» insisto.

«Allora non è un male. Lui sa cosa aspettarsi da te, e tu non dovrai fingere di essere quella che non sei» conclude seria.

Io le ho telefonato per essere confortata, non per sentirmi dire certe cose. «Jennie, basta. Abbi pietà di me. Non aggiungere altro. La giornata è stata già abbastanza dura.»

Sento la mia amica ridere dall'altro capo del telefono. Magari potessi farlo anch'io.
Così ci salutiamo, lei torna al lavoro che ama tanto, e io riprendo a rodermi il fegato. Sembra che siano tutti coalizzati contro di me.

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