• Foolish
La paura pare essere l'emozione più complicata da gestire: la tristezza si piange, la rabbia si urla, la gioia si ride. Ma la paura, quella profonda, innata, si aggrappa silenziosamente alle membra di ciascuno e non lo lascia più libero.
La sua paura era quella di oltrepassare i limiti. Ognuno di noi ne possiede almeno uno: ci sono atleti che non riescono a correre per più di un tot di tempo o a una certa velocità costante, artisti che non possono cantare una certa nota, troppo bassa o troppo alta, ballerini di danza classica che non sono capaci di superare un numero preciso di piroette continue.
Tuttavia alcuni ostacoli sono diversi: il suo terrore, ad esempio, era quello di valicare il confine della follia. Era un margine distante, a tratti vago; un bordo che quasi si credeva impossibile da raggiungere. Eppure, quando lo si attraversava, perché lo si attraversava, era sicuro, qualcosa si spezzava. In chiunque ne fosse vittima. Il tempo non sarebbe bastato, neppure il più forte dei collanti sarebbe stato in grado di rimettere assieme tutti i pezzi del puzzle e ricomporre l'immagine originale.
Proprio perché quel limite era la follia.
Lei era fatta di barriere e ad ognuna di queste corrispondeva un lucchetto differente, di cui però era andata scomparsa ogni chiave.
Era fatta di corazze di ferro per incassare i colpi che la vita, senza sosta, le dedicava.
Era fatta di castelli di ghiaccio, eretti per non sentire sulla pelle il tepore di certi rischi, di ombre che si alternavano al sole più luminoso.
Una persona estremamente forte, al punto da incaponirsi di coniugare in tutte le persone l'unico verbo impersonale quando il lessico è colmo di verbi congiungibile con l'io, così come con il loro.
Una persona capace di starsene sulle sue anche per tutta la propria durata esistenziale, mentre al contempo tentava di scavarsi una via d'uscita dalla gabbia che si era creata con le sue stesse mani, come un carcerato che cerca di evadere dalla prigione tastando la terra con un cucchiaino d'acciaio.
La sua identità era andata perduta, bloccata in un susseguirsi di smarrimenti, di labirinti tutti uguali, ricchi fino all'orlo di inizi ma totalmente privi di fini.
Paradossalmente, il tempo forse l'aveva indebolita. Tuttavia, ella rimaneva una giovane eccessivamente coraggiosa; non come gli eroi descritti nei libri, come i generali che guidano il proprio esercito in battaglia o come coloro che sono disposti a gareggiare contro ogni avversità pur di trionfare.
Bensì coraggiosa come chi è andato incontro, durante la sua vita, a un dolore così abissale da piangerci sino a non aver più lacrime a disposizione, sino a non avere più la più pallida idea di come sfogare tale frustrazione. Uno strazio così vasto da condurre chi ne subisce le conseguenze a un limbo infinito, all'interno del quale ci si trova in uno stato di trance, di pseudo-calma, di certezza. Certezza riguardo a un futuro che, sebbene sia ancora in grado di riservare sofferenze, non sarà mai capace di riservarne di simili a quelle vissute e che quindi non accadrà più nulla.
Un vuoto rigonfio di pienezza, e appunto talmente massiccio da apparire come cavo.
Coraggiosa dunque come chi non ha niente da perdere e, di conseguenza, nulla da temere.
Il silenzio del suddetto vuoto era però assordante, così tanto da riempirle la testa di pensieri che restavano ancorati alla sua mente ed ella non riusciva più a liberarsene.
Da anni oramai la fanciulla non proferiva parola; non era muta, né aveva timore di parlare. Semplicemente non desiderava farlo, poiché il rumore - diverso dal suono, pertanto meno compatto e più confusionario, maggiormente distruttivo - sarebbe stato solo un elemento aggiuntivo a tutto il caos che già alloggiava nel suo intelletto.
In più, le parole erano pericolose, buie, dai doppi e fatali significati. Se non le si sceglieva e dosava attentamente, potevano diventare la principale arma di distruzione.
Gli occhi, al contrario, erano limpidi e si vantavano di possedere un mezzo di divulgazione non fraintendibile.
Ma, ahimè, neppure essi erano più capaci di comunicare qualcosa di incomunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile.
C'era, purtroppo, una sensazione che si era insinuata al suo interno e che non le concedeva alcun istante di tregua. Forse era stato Dio che, al di sopra di ogni cosa, l'aveva creata a quel modo.
L'essere tanto fragile da vedere la tempesta al posto della pioggia, l'eruzione al posto di un fiammifero, la burrasca al posto di un respiro, il terremoto al posto di passi.
L'essere tanto gracile da rendere le proprie emozioni incontenibili e, quindi, capaci di volare via e lasciarla vacante; ecco, questo forse era stato un difetto non voluto a cui, però, l'Eterno non aveva trovato rimedio e a cui era stato così costretto a voltare le spalle.
Il suo quotidiano sarebbe dovuto essere più intessuto, poiché a starsene disoccupati si venivano a creare solchi su solchi in cui, malgrado non lo si volesse, vi si precipitava.
Si scivolava costantemente in un vortice di ansie, insicurezze, fitte che parevano non terminare mai.
Perché non era vero che un dolore, col tempo, scemava; che un'assenza la si percepiva solo per un breve periodo, che i giorni procedono anche con una persona in meno.
Non era vero che una perdita, dopo mesi, pesava di meno.
E lei era divenuta così proprio a causa di una perdita, di una sottrazione, di un due meno uno che come risultano aveva dato zero.
La parte migliore di sé se n'era infatti andata senza che quella se ne accorgesse, pertanto l'unica cosa che le restava da fare era forse raccattare tutto ciò che rimaneva e dargli un senso che molto probabilmente non esisteva nemmeno.
Non voleva andare avanti, o magari aveva solo paura di volerlo.
Dove il tempo scorreva fugace ma ogni cosa accadeva lentamente o non accadeva proprio - come in una clessidra scossa e riscossa affinché i minuti sì trascorressero, ma mai precisi, mai abbastanza - ella aveva versato lacrime che l'avevano fatta morire affogata, pianto sudore che era trasmutato in sangue perché il primo sembrava non essere stato sufficiente e urlato a tal punto da divenire non muta, ma semplicemente sorda.
Dove la felicità era solo un'illusione, un veloce attimo nato con il solo scopo di prepararla a un qualcosa di più grande, di più devastante, ella aveva poggiato la mano sul proprio cuore per controllare se questo avesse resistito all'altro che smetteva di battere.
Ed era stato un sollievo, forse, sentirlo ancora palpitare.
Un briciolo di ristoro, nato nell'abbandono al buio; una flebile scintilla che si era accesa sebbene l'umidità la circondasse, ma che si era affievolita, e smorzatasi, sino allo spegnersi definitivamente in un soffio di fobia.
La fobia di un limite attraversato.
E non avrebbe potuto rimetterlo insieme, no.
Non quando quel limite era la follia.
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