Elizabeth Jackson • ❝Hi, Ubel❞
[Premessa: La one-shot è lunga. Tanto lunga.
E, come al solito, per rendere il tutto più depresso consiglio di ascoltare "Listen before I go" di Billie Eilish: la canzone del capitolo.
Buona lettura!]
━━━ • ✙ • ━━━
C'era una stanza del casinò di Montecarlo che non veniva aperta da anni; era stata blindata per paura che qualcuno potesse entrarne a contatto, eppure qualsiasi sforzo era stato vano.
Perché c'era una ragazza che degli ordini e delle camere blindate se ne fregava altamente.
Lei ormai lo sapeva quale sarebbe stata la sua fine; lo sapeva come sarebbe terminata quell'esistenza durata vent'anni tondi tondi, come si sarebbero concluse quelle vicende che, in soli quattro anni, l'avevano trasformata, cambiata radicalmente.
C'era una stanza del casinò di Montecarlo che si chiamava "Camera dei Silenzi". Una volta chiusa la porta, anche il flebile suono di un respiro avrebbe riecheggiato in eterno tra le pareti infinite di quel vano. Un respiro, una risata, una lacrima; una confessione, un sospiro strozzato a metà, lo schiocco delle labbra in un bacio.
Tutto sarebbe rimasto in quella stanza sino all'epilogo mortale, sino all'ultimo dei giorni.
«Ciao, Ubel.»
Lei ci aveva provato ugualmente. Il fato aveva voluto che la Camera fosse stata lasciata aperta, solo per loro due. Perché, anche se in piedi, con la pelle gelida e cadavericamente pallida, nel buio più totale e confinata in quel vuoto che sembrava solo un'immensamente sottile linea, la quale divideva il caos più assoluto dal mutismo più assordante, Elizabeth era sì da sola, ma anche in compagnia di ciò che le restava di lui. In compagnia di reminiscenze che le apparivano dannatamente lontane, eppure maledettamente sfiorabili, raggiungibili. Come se ella avesse potuto tornare indietro e toccare con mano i segni, le tracce, le cicatrici di ciò che ora era scomparso, o che sarebbe svanito a breve.
«Non ho la più pallida idea di come - e se - funzioni quest'assurda stronzata.»
Forse in quegli anni era maturata, ma se c'era un particolare che non avrebbe mai smesso di caratterizzarla, quello era la schiettezza. Il non fregarsi degli altri, del parere di chi non aveva guadagnato l'appellativo di Angelo Caduto o era biondo, tedesco, ventiduenne e si chiamava "Ubel Schreiber", era ciò che in fin dei conti la delineava. Assieme al registro poco elegante, un pacchetto di Camel Blu onnipresente nella tasca posteriore dei jeans, un vinile degli Arctic Monkeys sul giradischi e una buona birra in mano.
O assieme allo sguardo perso tra le stelle e il cuore a sprofondare nel passato; assieme alle giacche di pelle che la facevano sembrare una di cui aver paura, anche se alla fine era lei stessa a incutersi timore e a spaventarsi della propria ombra.
Elizabeth Jackson era fatta di poche cose, semplici ed efficaci: era fatta delle imprecazioni più fantasiose che poi, insomma, sempre imprecazioni restavano. Era fatta di continue contraddizioni, di continui desideri irrealizzabili, di continue promesse mai mantenute. Era fatta di fede; fede che le dava fiducia verso uno spiraglio di luce sfuggente, uno scalpo d'alba che pareva essere vera e propria salvezza, pura rinascita.
E poi c'erano i suoi baci. I suoi baci che sapevano di alcool, di tabacco, di fumo bianco che era solita cacciare dalle narici, talvolta sporche di sangue.
Lei sapeva di occasioni sprecate, di sere passate ad aspettare qualcuno che non arriva, qualcuno che è andato e non ritorna più. Sapeva di speranze distrutte, di sogni infranti, di notti trascorse a impersonificare il ruolo di un muto che urla disperatamente aiuto, e che lo grida a un sordo, o a uno che fa finta di non poter ascoltare.
«Non lo so, schiocco le dita e le sento solo io. Sì, che grandissima cazzata.»
Ci aveva provato già diverse volte: aveva battuto le mani e quel secco rumore aveva risuonato, è vero, ma solo nella sua testa. Se qualcuno avesse potuto assisterle mentre parlava, non avrebbe sentito nulla, come se la sua voce fosse collegata in modo diretto alla sua stessa mente, attraverso cavi e auricolari invisibili. Forse era proprio questo a fregarla; questo giocare a nascondino da parte delle parole, udibili solo quando chi le aveva pronunciate non si ritrovava nello stesso luogo in cui l'aveva fatto.
«Probabilmente quando ascolterai ciò che sto tentando di dirti, se il buon Dio così vorrà, sarò già morta. Anzi, di sicuro.»
Il sarcasmo era la sua lingua: Elizabeth conversava solo attraverso ironia, e ora chiunque ne avrebbe avuto la schiacciante prova.
La scozzese non amava Dio; non si affidava a qualcuno che potesse aiutarla perché, quando aveva tentato di farlo, da bambina, non aveva ricevuto risposta. Eppure l'aveva nominato, donandogli anche l'appellativo di "buono".
Per lei l'Eterno non era buono; per lei era uno che prende in giro, che gioca sull'esistenza degli altri, sulla loro vulnerabilità.
Ma Elizabeth sapeva di stare per morire e qualsiasi tentazione di supplicare ancora aiuto sarebbe stato inutile.
Forse era stata proprio questa richiesta ignorata a farle ergere, col passare degli anni, quel muro invalicabile che costituiva il suo orgoglio.
«Sì, sarò passata a... miglior vita? È così che si dice?»
La giovane non era poi tanto certa che la sua esistenza potesse essere mai stata peggiore, ma migliore...
Non lo sapeva. Lei alla fine non sapeva più niente.
Si sentiva come una che doveva prendere qualcosa al volo come se fosse stato un palloncino che altrimenti sarebbe volato via, e riportarlo senza troppi giri all'interno della sua esistenza. Una che, per quanto sapesse di esserne capace, non era tanto certa di aver preso il filo di quel palloncino.
«Ti starai chiedendo il motivo di questa... lettera vocale? Non saprei come definirla. Vabbè, quella.»
La semplicità con cui parlava, la noncuranza con cui le sue dita percorrevano l'intera lunghezza di quei capelli così scuri, così neri, la rendevano la solita contrapposizione tra il quotidiano modesto a cui era stata abituata per anni in Scozia e l'indubbia bellezza regale che, cascasse il mondo, non l'avrebbe mai abbandonata.
La pelle lattea come quella di una statua neoclassica; la linea delle labbra irremovibile, eppure tremante; gli occhi bui e profondi quanto pozzi senza fine.
Nulla poteva essere paragonabile a un quadro tanto grandioso.
«Ti starai chiedendo il motivo di questa stronzata che, cazzo, non so neppure se hai ritrovato o meno.»
Un debole sorriso parve per pochi secondi incorniciarle la bocca rosea, nel momento in cui la Sacerdotessa pronunciava tali parole. Si sentiva una codarda, che non aveva avuto neanche il coraggio di parlare per l'ultima volta con colui che l'aveva fatta vivere, finalmente; colui che aveva dato un senso a quell'esistenza tanto oscura e priva di ogni luce.
Ma, per quanto volesse fingere di non sapere, voleva che finisse com'era finita: con quel bacio - nella chiesa che ora costituiva il loro quartier generale - così intimo, così risanante. Entrambi i giovani stretti nelle morse di un amore tanto riassestante da apparire inverosimile.
Loro che si erano detti "bentornato" mentre si dicevano "addio".
«Uscita da qui tornerò a New York e mi vedrò con Johann.
Lui alla fine doveva ammazzarmi lo stesso, per quel Tarocco di cui neanche ricordo il nome; tanto valeva accorciare i tempi e risparmiarci le scenate del "No Elizabeth, sparami prima tu! Oh no, Johann, ti supplico, fa' che una pallottola mi buchi il culo per prima!"»
Un'amara risata riecheggiò tra le pareti della Camera dei Silenzi, eppure la ventenne non fu capace di udirla. Era la sua risata, quella che non era mai stata cristallina, a differenza dei sorrisi di suo fratello; tanto simili quanto differenti, i due Jackson erano da sempre la personificazione del più benedetto Angelo dell'Inferno e del più maledetto Demone del Paradiso.
Ma quel sogghigno fu breve; in poco, lasciò spazio alla stretta che il rimorso del non poter più respirare provocava allo spirito della corvina. Per un fugace attimo, ella si sentì mancare. Per un fugace attimo, Elizabeth percepì i propri sospiri iugolare. Eppure, ciò che per anni aveva costutuito il suo miraggio di salvezza, si trasformò in un'ulteriore stretta, stavolta percepita all'altezza dello stomaco.
E la fanciulla non poté fare a meno di chiedersi se i momenti in cui aveva lambito lo spirito altrui, quelli che l'avevano fatta fremere secondo dopo secondo, non fossero altro che le famose "farfalle". Farfalle non sporche di ferroso liquido cremisi, come quello che saggiava all'altezza della gola ogni giorno; bensì farfalle libere, immacolate; farfalle che erano state in grado di afferrare il filo del palloncino della vita e volare via, ancorate a esso.
«Gli ho chiesto di proteggerti. Lo so che non ne hai bisogno, non fraintendermi ma... avevo bisogno di essere sicura che tu stessi bene.»
Alla fine Elizabeth di Johann si fidava. Era il loro capo e, sebbene la ragazza non fosse capace di ammetterlo, era suo amico, qualcuno a cui lei voleva bene. Così come lo era Niko, così come sotto sotto lo era Lu'ay, così come lo era Elinor. Tutte persone che avevano lasciato un segno sul suo cammino, un segno che la pioggia non avrebbe cancellato. Erano state diverse dalle orme che, da bambina, la scozzese lasciava sulla sabbia. Quelle sparivano, i ricordi non l'avrebbero fatto.
Quando la Sacerdotessa alzò lo sguardo, piuttosto di trovare l'immensità del cielo, quello che ogni volta le ricordava le sue iridi, incastonate come zaffiri in un volto scolpito nel marmo, vide il buio. Il nero. Il nulla.
Si accorse per l'ennesima volta che non c'era alcuna stella a illuminare l'empireo. Non più.
E riscontrò ancora di quanto futile fosse stata la sua vita senza Ubel, bloccata in un susseguirsi di birre e sigarette, alternata al suono di un violino scordato e al ricordo di suo fratello.
Elizabeth era rimasta intrappolata per anni tra gli incubi che caratterizzavano le sue notti e gli errori che delineavano le sue giornate. Sigillata dietro una porta chiusa con una chiave oramai perduta, in una stanza all'interno della quale non c'era altro se non... Morte.
Gli sbagli erano divenuti quotidiani, indelebili, imperdonabili.
La giovane dai corti capelli corvini aveva affermato per tanto tempo che la redenzione non esisteva. O che, se esisteva, a lei non era stata concessa.
Eppure ora sentiva di poter cambiare qualcosa; sentiva finalmente che la raccomandazione di Axel, quel "sii una te migliore, per te", era realizzabile, razionale, reale.
Sentiva che le bugie non sussistevano più, che le illusioni prima o poi avrebbero lasciato spazio a ciò che c'era di più vero.
La felicità era ancora quell'abbaglio che riusciva a scorgere quando chiudeva gli occhi, quando strizzava le palpebre e prendeva a giocare con i puntini di luce che si venivano a creare, in una disperata ricerca di riscatto.
Era ancora quell'attimo di pseudo fedeltà, durante il quale l'unica cosa che importava era la speranza che vedere il sole alla fine del tunnel comportava.
Però prima di lasciarla precipitare nell'oblio la assisteva.
E stavolta riusciva a sentirla davvero.
«Sembra che per una volta io stia facendo qualcosa di buono.» Si ritrovò a mormorare d'un tratto, quasi sottovoce, lei che era rimasta nel silenzio di quella stanza per un tempo che non si era curata di quantificare.
E osservò che, quando Ubel avrebbe ascoltato ciò che lei aveva da dire, sarebbe stato avvolto da quel susseguirsi di pensieri incontrollabili come lo era stato lei.
O magari sarebbe stato tabula rasa, concentrato solo e solamente sulla memoria che gli rimaneva della giovane scozzese.
«Stavolta pare che la scelta non sia tra ciò che è corretto è ciò semplice. La scelta non è quella facile da compiere, eppure forse è quella giusta.»
Un brivido le percorse la schiena. La ventenne aveva sempre pensato che essere i cattivi della situazione fosse complicato; che, con i mille problemi che si procuravano, spesso anche da soli, essere gli antagonisti della storia fosse la parte più difficile.
C'era una linea che divideva bene e male, per quanto essa potesse essere calcata superficialmente. Ed Elizabeth ne era a conoscenza. D'altronde, ella stessa sentiva di non essere cattiva al cento percento, poiché sapeva che esisteva quel sottile solco, margine, confine in cui le due forze maggiorni - bene e male - si combinavano. Quel limbo in cui non c'erano solo "buoni e cattivi", ma c'erano entrambi. E lei si sentiva bloccata lì.
Ciononostante, l'adepta del Distruttore stava a poco a poco realizzando quanto fosse difficile prendere le decisioni che avrebbero portato vantaggio a chiunque tranne che a chi coronava tali verdetti, tali conclusioni.
Il mondo come l'aveva visto fino a quel momento stava mutando, o forse era solo lei a girare attorno a un panorama che per anni aveva pensato le corresse in tondo.
«È difficile.» Fu però la sua semplice sentenza, pronunciata a fior di sospiro.
«Ricordo che quando mi sono ubriacata fino a non capirci più niente, tre anni fa, Abaddon ne ha approfittato per fare lo stronzo più del solito.»
Una nuova risata, appena appena udibile, le morì tra le labbra. E la fanciulla abbassò lo sguardo, nero come la pece, sulle proprie mani, dove le dita rigiravano il fanatico anello d'argento, dono dell'Angelo della Morte suo padrone.
«Ricordo che dopo aver vomitato anche l'anima ho bussato alla tua porta. Ti ridevo in faccia, sembravo ancora sbronza, e invece avevo paura da morire e dolore da vendere.
Credo che tu te ne sia accorto, ma non ne sono del tutto certa. D'altronde non è così facile capirti senza che tu parli.»
Ubel, per quanto complicato fosse, non era stato un mistero per lei; c'era qualcosa, qualcosa di nettamente superiore a entrambi i giovani, che li legava attraverso un filo indissolubile, una catena che li rendeva più liberi di qualsiasi volta celeste.
Qualcosa che andava oltre Satana, che andava oltre Dio; magari era solo il Destino che, più potente di qualunque altra forza superiore, prendeva per il culo un po' tutti. Alla fine, nessuno ci capiva nulla. Erano tutti troppo piccoli e infinitesimalmente fragili per comprendere delle superpotenze debolissime.
«Eppure quando abbiamo visto noi da bambini parlarci, supplicarci, perché so che l'hai visto anche tu, io ho messo te in primo piano. La sofferenza straziante sarebbe stata pari a una piuma sfiorarmi la pelle se tu al contempo ne provavi anche una piccola parte.»
Nell'istante in cui la ventenne si rese conto che c'era finalmente qualcosa di più importante della sua stessa persona, che il suo egoismo aveva un limite, abbassò le palpebre e alzò completamente il volto al soffitto, che per lei alla fine era un firmamento sprovvisto di stelle. Un firmamento che, però, a occhi chiusi splendeva lo stesso.
«Io non lo so perché, Ubel. Ma ogni volta che ci penso, ogni volta che quel ricordo balèna nella mia memoria...»
Elizabeth schiuse appena le labbra mentre le sue iridi, dello stesso colore del vuoto che completamente l'avvolgeva, si puntavano su ciò che rappresentava il suo cielo, il viso alto a farsi sferzare dal taglio delle lacrime che avevano preso a scorrere, inesorabilmente lente.
«Più ci penso e più mi rendo conto che ho messo la tua vita ad antecedere la mia.
Più ci penso e più mi rendo conto che, anche se siamo rimasti svegli tutta la notte, altre mille avrei sussurrato che ti amo fino a quando non ti saresti addormentato.»
Nuovamente, le palpebre della giovane scozzese calarono appena, lasciandola in quel polare buco che niente sembrava se non una nicchia.
Ma d'altronde Elizabeth si sentiva come morta o, peggio, sepolta viva.
C'erano tanti rimorsi che le laceravano lo spirito, che le facevano pesare ogni respiro di più, come nemmeno la malattia aveva mai fatto; eppure il sapore ferroso del sangue, all'altezza della gola secca, era l'ultimo dei suoi pensieri, sebbene fosse la causa principale di quell'addio.
Abaddon era sparito. La sua adepta non lo sentiva più e, nell'invocarlo, percepiva tutto tranne la costante presenza che precedentemente poteva testimoniare con certezza. Forse l'aveva lasciata da sola, forse semplicemente era scomparso senza lasciare traccia. Chi meglio di un Demone dell'Inferno poteva nascondere dietro la propria ombra tanti enigmi?
Per quanto la ventenne sua serva potesse maledirlo, alla fine si sentiva totalmente svuotata senza di lui. Era come un cieco che brancola nel buio, senza la possibilità di poter mettere avanti le mani per avvisare se stesso di possibili ostacoli. E poi c'era la malattia. Questo non lo si doveva affatto dimenticare poiché, senza il suo Angelo Caduto, Elizabeth non era affatto immune al tumore. Quanto sarebbe durata? Quali sintomi ci sarebbero stati? Sarebbe stata capace di superare un problema del genere? No, non ci voleva neanche pensare. Aveva troppa paura.
Voleva solo farla finita, mettere un punto piuttosto che continuare a elemosinare virgole. D'altronde, una vita condotta con le iridi lustre che vita era?
Non le restava nulla tra le mani che non fosse cenere, distruzione, peccato. E non le restava nulla in mente che non fossero i ricordi. Ma quelli erano astratti e di proprietà del passato. Non aveva più nulla, lei.
Tuttavia l'unica azione che le permettesse di incurvare appena le labbra rosee in un lieve sorriso era proprio il rimembrare ciò che era successo e che non sarebbe più tornato.
Se chiudeva lentamente gli occhi e si lasciava cullare dalla storia di ciò che era capitato poteva percepire una strana tranquillità, quasi le sembrava eterna, carezzarle la pelle di porcellana con delicatezza. Se accompagnata dalle reminiscenze degli ultimi venti anni, la fanciulla che tanto aveva odiato la sua stessa esistenza vedeva la Morte come un'amica, piuttosto che come una troppo somma Signora, una Sovrana.
Se si estraniava dal resto del mondo, concedendo a quel breve sollievo di strapparla via dalla sofferenza di una vita intera, riusciva quasi a dormire senza incubi.
Quando aveva cominciato a vedere la luce del sole restava a fissarla senza sosta per tanto, tanto tempo. Osservava il bagliore accecante della più grande stella anche se sapeva che le avrebbe fatto male. Eppure continuava a fissare imperterrita quella luce senza mai distogliere lo sguardo. E, se lo faceva, se la ritrovava avanti anche con gli occhi serrati o quando provava a leggere le scritte, quando guardava i sentieri sterrati della Scozia, sulle persone che una volta tanto sembravano finalmente brillare.
Da ore si trovava quasi seppellita in quella stanza, al freddo, sovrastata dalla notte più oscura. Pensava. Ricordava.
Si riempiva di avvenimenti passati, nonostante le facesse male. Ma non aveva importanza; per quanto il trascorso fosse un'arma a doppio taglio, riusciva anche a risanare le ferite che non si erano ancora ricucite.
Come la lesione che aveva macchiato di liquido cremisi tutte le sue camicie, all'altezza del fianco destro.
Era un taglio infernale, quello. E nessuno avrebbe mai potuto né dovuto neanche solo provare a curarlo, a riassestare tale tratto di pelle; perché era la prova che non tutto il male accorreva per nuocere: una parte magari veniva in aiuto. Magari era un miracolo.
Elizabeth era diventata una non vedente che camminava nelle tenebre con le mani legate dietro la schiena e le palpebre cucite. Non poteva guardare più niente, eppure sapeva che c'era il Sole. Brillava ancora e, quando cedeva il posto alla Luna, faceva brillare anche lei.
«Io ho memoria di com'ero tre anni fa. Sempre una testa di cazzo, ma almeno avevo i capelli più lunghi.
Ora neanche più quello.»
Quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui la Sacerdotessa aveva parlato? Dieci minuti, forse. Chissà a cosa avrebbe pensato Ubel durante quel frangente.
Magari le riflessioni di entrambi gli amati si sarebbero intrecciate, anche senza toccarsi completamente. Così com'era stato delle loro vite, in precedenza.
O magari le meditazioni dei due giovani servi dell'ombra si sarebbero discostate, separando per sempre le trame dei loro giorni.
«Tu cosa ricordi, Ubel?»
Una lacrima più lenta delle altre percorse la guancia arrossata della scozzese, finendo col posarsi sul pavimento gelido come il ghiaccio dell'Artico. Eppure, quando passò a un millimetro dalle sue labbra, anch'esse leggermente più rosate rispetto al resto del colorito corporeo, parve aumentare la curva appena accennata in cui esse erano impiegate. Ed Elizabeth non sentì il sapore del sale, né quello del sangue, tantomento l'amaro di una vita che si stronca, un libro che si chiude, un respiro che si stanzia tra un sospiro strozzato ed uno emesso solo in parte.
Bensì poté gustare in pieno l'acre dolcezza che circonda una madre quando ella stringe tra le braccia il proprio figlio mentre questi abbassa per l'ultima volta le palpebre, ma con la gioia sulla punta delle ciglia.
E, quando le gambe parvero cedere, trovò la forza di tenersi in piedi, almeno fino a quando non avrebbe finito di parlare.
Ubel aveva il diritto di conoscere e ascoltare tutto ciò che l'unica persona mai stata in grado di farlo vivere davvero aveva da dirgli. E lei aveva bisogno di fargli sapere ogni segreto.
«Te la ricordi Montecarlo, Ubel? E Versailles? Te la ricordi?»
Lasciando che il passato prendesse in mano la situazione, la giovane violinista chiuse definitivamente gli occhi, percorrendo con le dita tremanti la stoffa del proprio vestito corto, nero come la pece.
«Te li ricordi i bicchieri che straripavano di alcool, i destini che straripavano di sbagli?»
Con i canini bianchissimi affondati nelle labbra per trattenere i singhiozzi, la corvina rimase in silenzio per qualche secondo, lambendo con i pensieri la storia che le scorreva dinanzi allo sguardo perso.
«Te la ricordi la poltrona su cui ti ho trovato la prima volta? Non te ne fregava niente dei soldi che avevi guadagnato mettendoti a prevedere tutte le vincite delle slot-machines grazie al potere di Metatron. Come non te ne sarebbe fregato niente anni avanti dei soldi che avresti guadagnato prevedendo tutte le news che sarebbero arrivate, prima di tutti gli altri giornalisti.»
Sussurrò un: "Pff, esseri umani medi", ripercorrendo le memorie che si andavano spegnendo, così come il suo sorriso, sebbene questo fosse già quasi invisibile da sé.
«Ricordo che sul bigliettino che avevo letto appena sveglia, quella notte a Montecarlo, c'era la firma di Abaddon, con una bella rosa accanto. Era appassita, naturalmente.
Giusto per ricordarmi che, qualsiasi fosse stato l'esito di quella sera, sarei finita col distruggere qualcosa.»
Un sospiro e una lacrima, forse due. Poi il silenzio tornò ad ascoltarla parlare, domandare, urlare tacendo il perché di tutti quegli intrecci che avevano reso la trama della sua storia invivibile.
«Io non lo so se ti ho mai distrutto, Ubel. A Versailles mi hai detto che ti avevo salvato, eppure tutt'oggi non riesco ancora a comprendere come io abbia potuto fare una cosa simile.
Credo che in qualche universo esista la legge della coerenza, non trovi? Come può allora la serva della distruzione salvare qualcuno piuttosto che fargli del male?»
Fecendo sì che dei secondi muti la avvolgessero nuovamente, lei come il giovane tedesco, Elizabeth notò che erano i respiri instabili gli unici a interrompere quel taciturno oblio a cui oramai si era abituata.
In quel modo si ritrovò a pensare e ripensare, per l'ennesima volta, a ciò che era successo in quei venti anni, passati troppo velocemente.
Ripensò ad Axel, alle corse contro il tempo, contro il fato, contro la vita che rendeva schiava chi non era capace di tenerle testa. Ripensò al conto perso di tutti i momenti in cui si era vista costretta a rubare al suo prossimo, chiunque egli fosse, per poter continuare a scappare da un'esistenza troppo crudele per appartenere a una bambina.
Ripensò alle iridi azzurrissime che aveva da piccola, prima che Abaddon la portasse con sé verso una sorte ignota.
Ripensò al patto, al sangue tossito in tante occasioni, a quello sparso una sola volta e che l'aveva condannata a vederselo disteso sullo spirito per un periodo indefinibile, forse anche troppo lungo per essere quantificato.
Ripensò a Montecarlo, all'istante di transito in cui il lucchetto inapribile della luce aveva ritrovato la sua chiave ed era tornato a illuminarle, seppur fiocamente, la strada.
Ripensò al volto di Ubel, al fatto che egli le avesse ricordato ogni giorno, ogni secondo dell'esistenza di Dio. Non le era mai piaciuto il Padre Eterno, no, ma se davvero esisteva un qualcosa di divino, di inafferrabile...
Se davvero i miracoli esistevano, se davvero Dio c'era... assomigliava al giovane tedesco.
Perché qualsiasi azione ordinaria era divenuta straordinaria ogni volta che Ubel Schreiber ne aveva fatto parte.
Ogni sbronza con lui era stata diversa da quelle in compagnia di altri; ogni sorriso era stato più vero, ogni risata più radiosa se Ubel era lì ad assistere.
Ogni lacrima era stata meno aspra se il ventiduenne biondo l'aveva asciugata; ogni incubo era stato meno pauroso e traumatizzante se, nel risvegliarsi, Elizabeth aveva trovato il giovane di Amburgo accanto a lei, che fossero essi nello stesso letto o con la schiena poggiata contro lo stesso muro.
«E lo sai che c'è, Ubel?»
In quel momento, tutta l'ira della giovane scozzese parve attraversarle il corpo, tracciandone la superficie attraverso il sangue che le pulsava nelle vene.
«C'è che io sto morendo di dolore, sto morendo di paura, sto morendo di rabbia!»
Urlò. Elizabeth urlò come non aveva mai fatto. Urlò piangendo, urlò frustrata, urlò prima di cadere a terra in ginocchio.
Si ritrovò con i punti tremanti a battere senza sosta sul pavimento, le sue grida che continuavano inarrestabili a riecheggiare tra quelle pareti così vuote, a colmare il nulla che la circondava di tutto ciò che la riempiva.
«Fallo smettere, ti prego!»
Non era nata per supplicare, lei. Ma in quegli istanti voleva solo che il ventiduenne tedesco fosse lì con lei e placasse, in qualsivolesse modo, ciò che stava cominciando a farle scoppiare la testa.
I ricordi erano troppo, lo strazio era troppo, la stessa e ardente collera che le faceva stringere i denti bianchissimi ogni secondo stava divenendo troppo.
C'era il rammarico, c'era la tortura, c'era la disperazione; era troppo, anche per una come lei. Era troppo il terrore di morire, era troppo il pensiero di abbandonare chi la amava, era troppo capire di star tradendo le aspettative che le ricadevano addosso. Era troppo il sentire l'empireo intero gravare su spalle troppo gracili.
Il troppo la stava distruggendo lentamente. Anche respirare le faceva male e non era a causa della malattia.
Elizabeth Jackson si stava spegnendo prima del previsto e senza neppure capacitarsene.
«U-Ubel... Ubel ti prego fallo smettere...
U-Ubel...»
Ancora a terra, la scozzese chiamò, in sussurri e per tante, tante volte il nome del ragazzo amato. Non si curò neppure di quantificarle, d'altronde non sarebbe servito a niente.
Invece, tentò di farsi forza, per quanto difficile potesse essere, e di rialzarsi. Suo fratello, Axel, le diceva sempre che ciò che veniva distrutto doveva essere ripagato dalla stessa persona che l'aveva rotto. Le diceva che il mondo le avrebbe sempre chiesto di ripagare con gli interessi tutto ciò che veniva raso al suolo, che non c'era via di scampo. E che per questo motivo ella doveva ritrovare la fermezza, la vera e propria sanità, e combattere. Combattere fino alla morte, perché altrimenti il mondo l'avrebbe risucchiata con sé e lasciata priva di ogni energia.
«Parla con Elinor.»
Lo pronunciò, finalmente, il nome dell'unica amica che avesse mai avuto. Lo pronunciò con le lacrime agli occhi, esse che le ancora bagnavano la pelle di porcellana ma che cadevano al suolo come gocce di sangue intrise di sofferenza.
«Dille che... Dille che le voglio bene.»
Pronunciò quel nome, quelle frasi in ginocchio, con i pugni stretti, le unghie affondate nella carne e i denti a torturarsi le labbra oramai sporche di liquido cremisi nel tentativo di trattenere i singhiozzi.
«Dille che avrei voluto passare più tempo con lei, che forse avrei dovuto abbracciarla più spesso e che...»
Elizabeth si bloccò quando notò quanto realmente avesse sbagliato nella sua esistenza, quanto realmente l'orgoglio che la caratterizzava avesse fatto del male non solo a se stessa, ma anche a chi le stava attorno. Si rese conto che sì, avrebbe dovuto esprimere molto meno di rado quanto ciò che provava.
«Io... AH!»
Arrabbiata, solo e solamente con se stessa, la corvina batté forte i pugni a terra, tante, tante altre volte, fino a quando non dovette fermarsi perché il dolore fisico che si stava procurando attraverso le mani era divenuto insopportabile anche per una come lei.
«Avrei dovuto fare tante cose! Avrei dovuto prendermi la laurea, quel fottuto pezzo di carta con cui pulirmi il culo!
Avrei dovuto stare più tempo con te, con Elinor, con Niko!
Avrei dovuto fare qualcosa per la malattia piuttosto che stipulare un patto con un Demone dell'Inferno e... e... e avrei dovuto piangere e lagnarmi meno su ciò che è accaduto a mio fratello e fare qualcosa per dare un senso alla sua morte e invece... Invece guardami! Sto addirittura impazzendo!»
C'erano tanti rimorsi che le pesavano sul petto, all'altezza del cuore. Tanti rimorsi che, uno dopo l'altro, stavano contribuendo a farla consumare lentamente, come una di quelle sigarette che la fanciulla adorava tanto ma che, tiro dopo tiro, si trasformavano solo in cenere spenta e priva di vita.
Era vero; avrebbe tanto voluto continuare gli studi al Conservatorio, laurearsi, continuare a suonare a quei saggi che delle volte negli ultimi tre anni avevano ospitato un giovane biondo tra gli spettatori e che erano culminati sempre con un bacio, con la testimonianza che, nel male così come nel bene, Elizabeth Jackson ed Ubel Schreiber erano legati da un filo indissolubile che il Destino aveva dimenticato di tagliare ma che, invece, aveva stretto il più possibile con nodi su nodi.
La scozzese sarebbe voluta tornare nella sua isola natia, magari, e ripercorrere con mano ciò che ormai era solo uno dei tanti ricordi sfocati.
Avrebbe voluto avere un quotidiano normale, per quanto esso potesse realmente essere tale, e magari fare cose da persone... da persone sì, "normali".
Avrebbe voluto continuare a bere birre orrende, economiche e senza sapore e a fumare sigarette dannose, ancora e ancora, perché per quanto quelle dipendenze potessero essere una debolezza, come affermava puntalmente Ubel, erano ciò che la caratterizzava.
E poi, anche lui era una debolezza. La più grande.
Abaddon, nel giorno in cui tutto era ricominciato, lì nella chiesa di New York, le aveva detto che era la sua debolezza. Forse si riferiva al taglio che la sua adepta da anni oramai portava sul fianco destro o forse si riferiva semplicemente al tedesco. Non gli era mai piaciuto, d'altronde.
Le debolezze, esse non gli erano mai piaciute, né a Lui tantomento alla sua servitrice.
Eppure la giovane ne aveva. Lei aveva un grande, grande punto debole: amava. Ed era terribilmente in svantaggio, dinanzi a Ubel stesso poiché, per quanto potesse pensarlo, non era certa che anche lui l'amasse. Era come trovarsi disarmata di fronte a una persona che le puntava una pistola contro e asseriva che era lei, era solo lei a voler morire perché non agiva, non contrattaccava, non cercava neppure minimamente di difendersi. Ma lei non poteva. Non poteva perché aveva paura che potesse accadere quello che non voleva accadesse, ovvero che la persona che le stava avanti premesse il grilletto al primo tentativo di replica.
«Avrei voluto sposarti, lo sai...?»
Forse Elizabeth stava cominciando davvero a dare di matto, forse era solo terrorizzata a tal punto da collegare la bocca al cervello meno delle altre volte o forse era solo esasperata a tal punto da confessare la semplice e limpida verità.
«Te la immagini una casa tutta nostra...? Dei figli... Avrei voluto essere normale... un essere umano medio, se fosse stato necessario...»
Prendendo a tracciare segni invisibili e privi di senso con l'indice della mano sinistra, sul pavimento, la ventenne sorrise. Non sapeva bene perché lo stesse facendo, forse era l'idea di un possibile futuro che avrebbe potuto esserci a farle quell'effetto o forse erano solo i ricordi. Ancora, solo i ricordi.
«Avrei voluto avere spartiti dispersi per tutta casa, violini attaccati alle pareti, archetti anche fin dentro la doccia...»
Forse lei era davvero la personificazione della contraddizione, la disfazione di qualsivolesse logica; perché rise, appena, e al contempo una lacrima più calda delle altre cadde si precipitò al suolo.
Risata e pianto, bene e male, felicità e disperazione. Ogni possibile emozione, ogni possibile volere era racchiuso in un corpo e in una mente troppo fragili per appartenere a una singola persona e per questo Elizabeth voleva farla finita. Perché sapeva di non poter resistere ancora a lungo, neppure con l'aiuto che la presenza di Ubel le forniva.
«Probabilmente sto uscendo sul serio fuori di testa, ma...»
Dalla tasca del fedele giaccone nero come la pece, la corvina estrasse un semplice cumulo di post-it, dalle dimensioni davvero minute. Ancora una volta, sorrise flebilmente, vedendo che alla raccolta mancava un foglio che però, a differenza dei precedenti, non era stato distrattamente strappato con noncuranza, come la giovane era solita fare, bensì era stato tagliato con cura minuziosa, affinché esso potesse essere pressappoco perfetto e non riportare alcun danno.
«Sai, ho scritto il nome del mio più grande amore su un foglio di carta con un pennarello indelebile.
Che poi non è servito a un cazzo perché quel foglio l'ho bruciato e ho lasciato cadere le ceneri in mare.»
Non sarebbe mai cambiata, questo era certo. Sarebbe rimasta per sempre l'irresponsabile scozzese dai corti capelli corvini, la violinista senza futuro, quella che aveva sfiorato il cielo senza volare mai.
«Cioè, non lo so se in acqua ci sono arrivate. C'era un forte vento e non ho la più pallida idea di che fine abbiano fatto.»
Sarebbe rimasta per sempre l'immatura fumatrice accanita, quella che se proprio doveva darsi una calmata si limitava ai cerotti di nicotina sotto la giacca.
Chiunque l'avrebbe ricordata, chiunque ne avrebbe sentito la mancanza. Perché se c'era una cosa che nessuno avrebbe mai potuto mettere in dubbio, era quanto Elizabeth Jackson fosse meravigliosa; con le labbra scarlatte che lasciavano la macchia del rossetto a ogni bacio, come quelli di Montecarlo; con le confessioni accompagnate dalle lacrime, con il terrore di morire come quelli di Versailles; come le birre condivise e i timori di una malattia non controllabile urlati, come quelli di Roma; come le notti passate a guardare le stelle, o meglio gli Angeli che conducevano alla Morte, come quelle di New York.
«Magari... Magari le ceneri del mio biglietto si sono bagnate e mescolate con la sabbia. O magari il vento le ha portate lontano, nella vita di qualcun altro. Forse quell'amore lo salva qualcun altro...»
Se fino a quel momento era stata sincera, per quanto sciocca potesse sembrare, e aveva riso dinanzi alle proprie parole, ora non riusciva a farlo più. Il flebile sorriso che le incorniciava le labbra aveva cominciato a sfumare, gradualmente come un accentato sulla nota di una partitura musicale, sino a quando non era totalmente sparito, lasciandole in bocca e nella zona del petto, vicino al cuore, quella acre sensazione di vuoto, quel sapore amaro che oramai la riempiva quasi completamente.
Non voleva affatto che Ubel fosse di qualcun altro, il solo pensiero la straziava. Non lo voleva, non lo voleva affatto, ma... Ma se qualcuno poteva salvare il ragazzo, anche solo lontanamente, che ben venisse.
Se qualcuno poteva tenere al sicuro qualcosa che era stato capace di risanare non una, ma due esistenze, che fosse ben accolto.
«Fatto sta che ho scritto il nome del mio più grande amore su un foglio di carta con un pennarello indelebile, e ciò significa che né il tempo, tantomento la morte potrà cancellarlo.»
Chinandosi in avanti, Elizabeth Jackson tornò forse a sorridere, seppur debolmente. Chiuse gli occhi, lustri, e respirò in modo profondo.
Niente avrebbe potuto distruggere ciò che i due amati avevano costruito, perché la distruzione non esisteva più. E, sebbene l'amore fosse qualcosa di irrazionale, stavolta era più concreto di qualsiasi tocco.
«Ho scritto il nome del mio più grande amore su un foglio di carta con un pennarello indelebile.
Ho scritto "Ubel Schreiber", e lo sai perché?»
Quasi riuscì a udire la voce del tedesco che - forse curioso, ma chi mai potrebbe affermarlo con sicurezza? - tre anni prima a Versailles come tante volte dopo allora le teneva il gioco, le domandava: "Perché?"
Non era fatta, lei, per i finali in sospeso. Non era fatta per i finali semplici; piuttosto avrebbe preferito chiedere scusa a una vecchietta per averle pestato un piede mentre ballava in strada con una rivisitazione delle opere di Beethoven da parte degli Arctic Monkeys nelle cuffiette bianche.
Era fatta per le cose in grande, lei.
Era fatta per i finali in grande stile.
«Perché... Perché tu sei il mio qualcosa, ricordi?»
Era stata la prima risposta che le era venuta in mente. O meglio, per la precisione, la seconda: la prima era diversa, più istintiva. Ma la seconda non l'aveva pronunciata lei, all'epoca: era un ricordo. Un ricordo che la faceva fremere e sorridere ogni volta. Era il ricordo di quella promessa che, senza che nessuno dei due Sacerdoti se ne sincerasse, li aveva incatenati l'uno all'altra. Era quel qualcosa che aveva segnato la loro vita per sempre.
«Però non solo. L'ho scritto anche perché... Perché...»
La Versailles del diciottesimo secolo era stata sicuramente il famigerato "filo rosso" che aveva legato appieno due ragazzi. Due persone che pareva non avessero niente in comune se non un accordo con un Angelo Caduto e un passato difficile; due persone così distanti, così diverse...
Come avevano fatto a innamorarsi? Nessuno dei due lo sapeva, probabilmente Ubel doveva ancora rendersene conto.
Eppure l'avevano fatto. Si erano amati, con tutti loro stessi.
Si erano confortati nel dolore reciproco, mancati nei momenti di lontananza, odiati a morte e amati fino alla follia. Ma mai, l'una più dell'altro, per un solo istante aveva messo in dubbio quello che c'era tra di loro.
«L'ho scritto perché sei il mio punto debole. L'ho scritto perché probabilmente mi mancherai anche se sarò morta. L'ho scritto perché ho un maledetto bisogno di te, perché anche respirare adesso mi arreca un dolore che non puoi neppure immaginare e no, la malattia non c'entra niente.»
L'aveva buttato fuori piangendo, tutto d'un fiato, senza fermarsi neanche un attimo.
La vera risposta, la prima, quella reale e la più semplice del mondo, per quanto complicata fosse, la stava confessando a raffica senza prendere fiato. Ma era solo nei suoi pensieri.
Gliel'aveva già detto una volta, in Francia, entrambi seduti sul pavimento, lei con un vestito da cameriera indosso e lui con l'armatura del braccio destro del Re che ancora luccicava. Perché ora aveva paura di ripeterlo?
«L'ho scritto perché voglio che tu sappia che, irrimediabilmente, Ubel, io...»
Elizabeth socchiuse gli occhi prima di ammetterlo. Quasi riuscì, ancora una volta, a sentire lo sguardo ceruleo del tedesco sopra la propria figura, quell'impazienza nell'udire la risposta. E, in quel momento come tre anni prima, alzò gli occhi neri come la pece, privi di pupilla e, con un sorriso appena accennato sulle labbra, lo ripeté.
Aveva Versailles intorno, Ubel davanti, Abaddon nella mente e quell'incessante sensazione di aver vinto a pizzicare come una scintilla tra le dita.
L'aveva confessato, ripetuto, urlato in sussurri così colmi di amore in modo indolore ma troppo sofferto, senza pensarci ma con troppi pensieri, sentendosi un metro sopra al cielo e tre spanne sotto terra.
Gliel'aveva detto, ancora una volta, ad occhi aperti, che avevano osservato senza vedere l'amore della sua vita guardarla come solo lui sapeva fare, nell'attimo in cui l'ira verso ciò che precedentemente gli era stato detto lo abbandonava del tutto per essere sostituta dalla sensazione positiva che ora pareva colmarlo.
Gliel'aveva ripetuto vincendo durante una partita già persa dal principio, come un fiore germogliato mentre la neve lo ricopre e lo uccide nel momento in cui esso nasce.
Gliel'aveva confidato, quasi esso fosse stato un segreto, salpando da una nave fantasma l'attimo prima della tempesta.
Gliel'aveva sussurrato perché era la verità, perché Elizabeth Jackson aveva imparato una sola volta cosa significasse "vivere" ed era stato durante quella notte a Montecarlo.
Perché lui alla fine era tutto ciò che Elizabeth Jackson avesse mai potuto desiderare.
«Lo sai... il perché...»
Aveva sorriso, per l'ennesima - nonché ultima - volta.
Le lacrime non si erano fermate, ma quando precipitavano al suolo ora erano la testimonianza di una vita e non di una morte.
E, nella Camera dei Silenzi a Montecarlo così com'era stato nel corridoio della reggia di Versailles, Elizabeth Jackson aveva risposto a quella domanda, a quel "Perché?"
E la sua risposta non era cambiata, non lo avrebbe mai fatto.
«Perché ti amo, Ubel.»
━━━ • ✙ • ━━━
Bene, se sei arrivat* fino a questo punto vuol dire che sei così abituat* ai discorsi logorroici e da dRaMa QuEeN di Elizabeth che leggere questa one-shot è stata una passeggiata. Complimenti, ti regalerò una rosa appassita che ti trasmette il tetano solo se la guardi come farebbe la nostra Liz!
Okay, apparte gli scherzi!
Ho abbandonato ufficialmente qualsiasi possibilità di ruolare e lasciare un "addio" per l'oc e la role che mi sono stati più a cuore mi sembrava doveroso.
Personalmente ho pianto nel rileggere ciò che ho scritto - e anche nella stessa stesura - perché mi sono tornati alla mente tanti di quei ricordi che stavo per sentirmi male anch'io!
Anyway spero che, a te persona a cui devo regalare questa rosa, la one-shot sia piaciuta!
[Ps: Mary, ti lascio una foto a fine capitolo per farti morire♡]
Goodbye goodbye,
-Arianna🥀
[Persone che potrebbero essere interessate: Annoying_Mary, writer_of_dreams__, _LadyAlys_]
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top