| 𝙲𝚊𝚙𝚒𝚝𝚘𝚕𝚘 15 |
<<Un incubo:
una rosa che divora una rondine, piuma a piuma>>
San Juan, Portorico
Dopo il fallito tentativo di fuga, a Samantha non venne data l'occasione di tornare nella sua stanza. Difatti, sotto il vigile controllo da parte di Ruben, la ventiquattrenne fu accompagnata ad una delle molte vetture appartenenti al cartello portoricano.
"Sali" ordinò El Diablo stesso, con un timbro di voce che, decisamente, non voleva ricevere alcuna obbiezione. Ma la Moretti non si mosse. Rimase lì, immobile, intenta ad incenerire con lo sguardo Perez. "Sali in macchina, Samantha" ripeté quel comando, osservandola a sua volta. Le aprì la portiera posteriore, facendole cenno col capo di andare a sedersi.
"Te lo puoi scordare!" esclamò lei, dopo alcuni secondi trascorsi in silenzio. "Non ho alcuna intenzione di fare una gita fuori porta con te" aggiunse, incrociando le braccia sotto al seno.
Davanti a quelle parole, un leggero ringhio lasciò la gola de El Diablo. Si passò due dita su quel leggero strato di baffetto che gli ornava il viso, sbuffando subito dopo. Senza dire alcuna sillaba, allungò il braccio destro e, con un deciso movimento, spinse la biondina all'interno della Bentley Bentayga, sbattendo successivamente lo sportello di quel costosissimo Suv.
"Llevo a la niña al médico" disse nella sua lingua madre Ruben, rivolgendosi ad Javier. Il quale li aveva appena raggiunti, con l'intento di andare assieme a suo fratello.
"¿Quieres ir solo?" chiese Romero, mentre posava i suoi occhi scuri prima su di Perez, poi sulla ragazza. "¿Qué pasa si intenta escapar de nuevo?"
"El no huirá" rispose El Diablo, guardando di sfuggita la sua Mija. "Está cansada y dolorida. No tiene fuerzas para escapar" spiegò, tornando a guardare Javier. "Cuida a los demás, ¿vale?"
Per tutta risposta, El Perro si limitò unicamente ad annuire, salutando poi con un cenno del capo El Diablo.
Il lungo viaggio in auto verso la clinica privata, appartenente alla dottoressa Vega, per la nostra protagonista fu una vera e propria agonia. Sarà stato per corpo dolorante, che non le dava tregua. Per la stanchezza che, man mano che il tempo scorreva, si stava impossessando di lei. Oppure per quelle poche ore di sonno che, negli ultimi giorni, Samantha si era concessa.
Erano si e no quattro giorni che, la ragazza di origini italiane, riusciva a stento a dormire tre, quattro ore a notte. Ed il motivo di queste notti quasi insonni era semplice. Il 3 Luglio si stava avvicinando e, con lui, si portava appresso il primo anniversario della morte di Shannon e Tyler.
E purtroppo gli incubi, in quelle tetre notti, non erano di certo mancati. Erano quattro giorni che, con gran cattiveria, la sua mente le faceva rivivere, ancora e ancora, quella maledetta mattina. Quei secondi che, in un battito di ciglia, l'avevano resa da felice dopo tanto tempo, a vuota e rotta.
Il silenzio regnava sovrano in auto e, questo, non era affatto d'aiuto per la giovane. Più e più volte le sue palpebre, che si facevano man mano più pesanti, si abbassavano. Desiderose di ricevere un po' di riposo. Ma lei, tra le braccia di Morfeo, non voleva proprio finirci. Non voleva affatto che, per l'ennesima volta, gli incubi le facessero nuovamente visita. Ma la stanchezza era tanta... Troppa forse. Le bastò poggiare la nuca contro la fredda superficie del finestrino per far si che le proprie palpebre si abbassassero del tutto e, ancora una volta, i suoi tormenti le facessero visita.
Nonostante fosse Luglio, quella mattina non era una mattinata afosa come le altre. Un leggero e quasi impercettibile vento soffiava sotto il piccolo e grazioso portico di casa Moretti. Samantha, in compagnia dei suoi cugini e di suo zio, sedeva su di una delle varie poltroncine in vimini poste attorno al tavolino, anch'esso in vimini, che erano presenti nel porticato. Quella famiglia, tenuta unita da chissà che cosa, date le molte perdite che aveva subito, si ritrovava spesso a casa Moretti per fare, tutti assieme, colazione. Erano tutti e quattro intenti ad addentare la propria brioche, tra una chiacchiera e l'altra quando, l'attenzione dello zio Andrea, fu attirata dalla snella figura di suo nipote Shannon, che era intento ad uscire di casa tenendo stretto tra le proprie braccia il piccolo Tyler.
"Hai visto, Ty? Gli zii sono venuti a trovarti" affermò Shannon, indicando al piccolo i presenti.
Il bimbo, di appena un anno, non appena vide Andrea, allungò le sue piccole braccia in direzione dell'uomo. Desideroso più che mai di finire tra le protettive braccia di suo zio. Il maggiore dei Rossi, nel vedere come, quel piccolo ed adorabile ometto, volesse finire tra le sue braccia, si affrettò ad alzarsi dalla poltroncina, raggiungendo i suoi nipoti.
"Ogni giorno che passa diventi sempre più grande, Tyler" constatò Rossi, depositando un soffice bacio nella guancia del piccolino. Il quale, non appena sentì la barba dello zio toccargli la gote, sorrise.
"Fai colazione con noi, Shannon?" parlò Stellan, rivolgendosi al cugino.
"Oggi no. Porto Ty a salutare i nonni, poi andiamo a fare delle commissioni" spiegò. "Tempo di rientrare a prendere le chiavi della macchina e andiamo" aggiunse subito dopo.
"Prendi la mia auto, Shannon" si intromise Samantha, lanciando le chiavi della sua Lancia Delta Integrale.
"Sicura?" domandò lui, afferrando al volo le chiavi. La biondina annuì semplicemente.
Samantha osservò i due dirigersi verso la sua auto, parcheggiata dall'altra parte del giardino. Guardò Shannon mettere nel seggiolino il piccolo, per poi andare a sedersi sul posto del guidatore. Il venticinquenne fece un cenno con la mano a mo di saluto, salutando il resto della famiglia.
E poi successe.
Un assordante boato spezzò la quiete che regnava in quella casa.
Le fiamme divamparono, rendendo infernale l'ambiente circostante.
Le nubi, dal nero colore, salirono alte in cielo. Incupendolo e rendendo asfissiante l'aria.
Il fetido odore di carne bruciata invase le narici dei presenti. E strazianti urla abbandonarono le loro gole.
Nuove e sofferenti cicatrici segnarono i loro corpi.
Le loro vite furono stravolte. Per sempre.
Samantha si svegliò di soprassalto, col cuore che le martellava talmente forte nel petto che, poteva sembrare, che dovesse lasciare la sua cassa toracica da un momento all'altro. Il respiro le si era fatto sempre più corto ed irregolare. E varie gocce di sudore le cadevano lungo i lati del viso, bagnandolo.
Frettolosamente, si passò la mano destra sul viso cercando, in quel modo, di toglier via quel che rimaneva dello spavento provato da quel maledetto incubo. Cominciò poi a fare dei lunghi e profondi respiri, così da ritornare ad avere una respirazione normale.
Solo quando si fu ripresa, almeno in parte, realizzò di trovarsi all'interno di una delle vetture appartenenti a Perez e che, lui, era proprio con lei. Difatti, non appena sollevò lo sguardo, posandolo sullo specchietto retrovisore, si ritrovò due ipnotizzanti smeraldi intenti a studiarla.
"Da quant'è che siamo arrivati?" chiese la Moretti, osservando la zona.
"Circa un quarto d'ora" rispose Perez, continuando ad osservarla. "Dormivi" mormorò poco dopo, attirando nuovamente su di sé l'attenzione di lei. "Non volevo svegliarti" confessò, mordendosi l'interno della guancia sinistra.
Per tutta risposta, la biondina aprì di scatto lo sportello dell'auto, borbottando poi un "Non dovevo proprio dormire" mentre scendeva.
Una volta all'interno della clinica privata, i due furono accolti dalla stessa dottoressa Vega, la quale li attendeva già da un po'.
"Dovevi arrivare un'ora fa" gli fece notare la Vega, non appena si ritrovò davanti El Diablo.
"Scusaci, Estela" si scusò il trentenne, chiamando per nome la dottoressa. "Abbiamo avuto un piccolo contrattempo" aggiunse, alludendo al fallito tentativo della ventiquattrenne di fuggire. "Lei è Samantha" disse poi, indicando la biondina che si trovava al suo fianco. "Temo si sia slogata una caviglia. Per favore, dalle un'occhiata"
"Le faccio una visita completa?" domandò Vega, riferendosi al tipo di visite che, solitamente, faceva a tutte le ragazze che, i Siervos del Diablo, le portavano alla clinica.
"Non è necessario"
A quel punto il medico si rivolse alla Moretti, invitandola a seguirla all'interno dell'ambulatorio.
Una volta all'interno della stanzetta dedita alle visite mediche, ed essersi accomodata sul bordo del lettino ricoperto di una carta scottex color azzurrina, la ragazza dagli occhi azzurri si decise a parlare.
"Non mi faccio visitare da qualcuno che lavora per uno stronzo che considera e tratta le donne come se fossero dei semplici pezzi di carne privi di alcun sentimento" sibilò, guardando di traverso Estela.
La Vega non le diede ascolto, limitandosi unicamente a mettersi dei guanti in lattice sulle minute mani che possedeva. Ruotò poi la sua esile figura in direzione della biondina, guardandola quasi con premura.
"Non sempre possiamo concordare con le scelte di vita che, le persone che conosciamo, decidono di intraprendere" affermò la donna, recuperando uno sgabellino e posizionandolo davanti alla ragazza italiana.
"Eri una delle sue puttane?" chiese schietta Samantha, inclinando la testa di lato.
"Sono un'orfana. Proprio come lui" ammise, abbassando di qualche nota il tono della propria voce. "Ora, permettimi di controllarti la caviglia" aggiunse, prendendo tra le mani l'arto dolorante della Moretti.
E, non appena lo fece, i suoi occhi scuri furono catturati da quel piccolo tatuaggio in bianco e nero che decorava un lembo di pelle nella parte interna della caviglia della ventiquattrenne. E Samantha, non appena si rese conto di cosa, la dottoressa Vega stesse guardando, fu subito veloce di nascondere la gamba sinistra dietro quella destra. Mettendo al sicuro, per così dire, non solo il suo tatuaggio ma anche la sua stessa identità.
"Non è la prima volta che mi faccio male" si lasciò sfuggire tali parole il giovane membro dei Sons of Silence. "Mi dia degli antidolorifici e starò meglio"
"Come vuoi"
Una volta terminata quella non visita medica, Ruben si affrettò ad accompagnare la sua Mija verso la macchina, dicendole poi che sarebbe arrivato a minuti. E che, per il suo bene, era meglio se evitava di fare qualche altra cazzata. La biondina, per tutta risposta, dopo aver alzato gli occhi al cielo, aveva annuito alla richiesta del portoricano.
Poi, con passo svelto, era tornato all'interno della clinica privata, dato che la dottoressa gli aveva espressamente chiesto di poter parlare con lui in privato.
"Che succede, Estela?" domandò il possessore di quei pericolosi occhi verdi, dopo aver chiuso la porta alle proprie spalle.
"Chi è quella ragazza, Ruben?" rispose così Vega, ponendo un quesito ad El Diablo. Il quale rispose sollevando in aria un sopracciglio. "Non è come tutte le altre ragazze che mi hai portato. Dove l'hai trovata?" chiese, non permettendo a lui di rispondere. "In che guaio ti sei cacciato?"
"Guaio?" replicò lui, con tono di voce alquanto sorpreso. "Che intendi dire?"
"Ha un tatuaggio nella parte interna della caviglia che si è slogata. Stavo per osservarlo meglio ma, appena si è resa conto che lo volevo guardare, ha sottratto la caviglia e non mi ha più permessa di toccarla"
"Un tatuaggio?" pose quella domanda Perez, ricevendosi un annesso da parte di Estela. "Che tipo di tatuaggio?"
"Non l'ho visto bene, mi spiace" ammise. "Ma, di qualunque cosa si tratti, quella ragazza non vuole assolutamente che gli altri lo vedano"
Ruben annuì un paio di volte, metabolizzando l'informazione appena appresa. Si passò la mano sui corti ricci scuri, mormorando poi un "Saprò di cosa si tratta. Costi quel che costi"
Oh Ruben. Ne sei proprio sicuro?
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Era oramai notte fonda quando, in punta di piedi, il giovane membro dei Sons of Silence, lasciava la propria camera da letto. Per sua somma fortuna, era sempre stata abituata, fin da piccola, a girare tranquillamente per casa nel buio più totale. Anche se quella non era casa sua, le bastò fare mente locale di come, le varie stanze erano disposte, e toccare pian piano le lisce e fredde pareti di quell'enorme villa, per riuscire a raggiungere la propria destinazione. Ovvero la cucina. E, una volta messo piede all'interno di quell'ampio cucinotto, lentamente chiuse la porta, avviandosi poi verso il piano cottura. Nel buio, sollevò in aria le mani, andando a tastare la cappa alla ricerca del pulsante che accendeva la luce, trovandolo subito dopo.
Si strofinò piano gli occhi, sollevando lentamente le palpebre. Permettendo, in quel modo, alle proprie iridi di abituarsi alle lieve luce prodotta dalla lampadina posta vicino alla cappa.
Accese poi uno dei quattro fornelli e, mentre le fiamme scaldavano quel piccolo angolo di cucina, Samantha cominciò ad aprire i vari cassetti della cucina ad angolo. Alla ricerca di un coltello. E, al quinto cassetto aperto, i suoi occhi chiari si illuminarono alla vista di quel meraviglioso set di coltelli in acciaio inox. Prese in mano il coltello da chef, recandosi poi verso quella pericolosa fiamma accesa. Poggiò la liscia superficie del coltello sulla fiamma ed attese. Attese che l'acciaio prendesse colore, divenendo arancione-rosso.
Successivamente, recuperò due strofinacci da uno dei cassetti precedentemente aperti. Uno lo avvolse attorno al manico del coltello, così da non scottarsi la mano, mentre l'altro lo appoggio sul tavolo. Lentamente, fece scorrere a terra una sedia, andandoci poi a sederci. Sollevò la gamba sinistra, poggiando il piede sopra la coscia destra.
Lentamente, percorse il bordo di quelle labbra cucite presenti sulla caviglia, ed una solitaria lacrima le percorse la guancia destra.
"Perdonatemi, vi prego" supplicò, in un leggero sussurro, la sua famiglia.
Arrotolò lo strofinaccio precedentemente preso, conficcandoselo poi in bocca. Così da attenuare le grida di dolore che, a breve, avrebbero lasciato la sua gola. Posizionò la rovente lama all'altezza del marchio femminile dei Sons of Silence. Chiuse gli occhi, andando poi a bruciare il simbolo di appartenenza al clan. Alla sua famiglia.
Bayamón, Portorico
Il continuo e frenetico rumore di passi, intenti a percorrere velocemente il lungo corridoio che conduceva all'ufficio, echeggiavano sovrani. Rompendo il silenzio e la quiete che, fino a quel momento, regnavano all'interno della palazzina. Il giovane, dopo aver svoltato a destra, raggiunse rapidamente la stanza che gli interessava. Con un rapido cenno del capo, salutò Romeo, che era intento ad osservare chiunque si avvicinasse all'ufficio del capo.
"Dove hai intenzione di andare, Juan?" gli chiese Romeo, bloccando con un solo braccio la figura del giovane.
"Devo parlare col capo. Ci sono delle interessanti novità!" esclamò, recuperando dalla tasca posteriore dei propri jeans una foto piegata a metà. "La fortuna gira dalla nostra parte, Romeo" aggiunse, sventolando sotto al naso dell'uomo la fotografia.
"Fai alla svelta. A breve il capo avrà una riunione"
Juan annuì, sgattaiolando successivamente all'interno dell'ufficio appartenente a El León.
"Capo, ci sono delle novità" affermò il giovane, mentre avanzava verso la scrivania del boss.
"Che tipo di novità?" domandò l'uomo, sollevando incuriosito un sopracciglio.
Juan aprì la fotografia, facendola poi scorrere sulla superficie della scrivania in mogano de El León.
"La ragazza è a San Juan, capo"
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