✼Never enough✼
Aveva perso per l'ennesima volta, era distesa sul terreno.
Avrebbe voluto tanto rialzarsi e continuare a combattere, mostrargli che lei non era da meno, ma il suo piccolo e gracile corpo ricoperto di graffi e segni violacei non glielo permetteva, aveva a mala pena le forze per poter respirare.
Questo scenario si ripeteva almeno due o tre volte al giorno, loro padre voleva fossero sia degli abili strateghi che degli abili combattenti, forti ed invincibili, in grando di saper usare qualsiasi arma gli capitasse sotto mano; voleva diventassero due macchine da guerra.
Purtroppo per la giovane, non era molto abile nel combattimento, ogni allenamento era la stessa storia: era inutile quante volte provasse a colpirlo o a difendersi dai suoi colpi, qualunque cosa lei facesse era inutile.
Due alte figure maschili si ereggevano vicino al suo corpicino pieno di graffi e lividi disteso per terra.
Con le gambe vicino al petto, come se volesse chiudersi in sé stessa.
Una di esse la guardava dall'alto verso il basso; nonostante non vedesse bene il suo viso, era certa che sulle sue labbra mostrasse un ghigno soddisfatto: soddisfatto di come l'aveva ridotta, di come le avesse macchiato la candida pelle con quei segni violacei, di come le avesse affondato la lama nella carne, aprendole tutte quelle ferite.
Sentiva le voci dei due uomini, ma non riusciva a capire cosa stessero dicendo, non che le interessasse particolarmente, tanto dicevano sempre le stesse cose; sembrava quasi seguissero sempre lo stesso copione che, oramai, Sun conosceva a memoria.
Era anche troppo impegnata ad ascoltare quella voce nella sua testa che le ripeteva sempre le stesse cose ogni singola volta.
"Non sarai mai abbastanza"
"Sei debole"
"Sei solo un'ammasso di carne al quale dare pugni e calci"
Odiava quelle parole, odiava quella voce, odiava colui che gliele ripeteva sempre e la cosa che odiava più delle altre era il fatto che fossero vere.
L'unica cosa che poteva fare era stringere i denti ed andare avanti, niente di più.
A risvegliarla dai suoi pensieri fu il rumore passi di quelle due alte figure che si stavano allontanando da lei, per poi entrare in un edificio non molto distante da lei, quella che lei chiamava impropriamente "casa".
Anche se con un po' di fatica, la ragazzina riuscì a sollevare il suo corpicino, trascinandosi verso l'entrata di casa.
Fece per entrare, ma sentì il suo corpo cadere all'indietro, alzò subito i suoi occhi Color rubino, che incontrarono quelli del padre, così simili ai suoi; forse solo grazie a quella particolare gradazione di rosso che si poteva capire che la ragazzina fosse effetimavamente sua figlia, seppur nata da un'avventura notturna, alle spalle della moglie.
Sempre con quell'espressione sul volto, messo sempre nella stessa posizione, non serviva nemmeno più che aprisse bocca, tanto la corvina sapeva ormai bene cosa significasse quello sguardo glaciale.
Sarebbe rimasta per l'ennesima notte in quel cortile, con le ferite ancora sporche e gli abiti strappati.
Abbassò il capo, non osò alzare lo sguardo, non avrebbe retto ulteriormente lo sguardo dell'uomo, era troppo per lei.
Non appena la porta si chiuse, rialzò lentamente il capo, lasciando sfuggire dalla labbra rosee un leggero sospiro; già rassegnata all'idea di passare l'ennesima notte a dormire sotto ad un albero.
Iniziò a sentire delle piccole gocce d'acqua picchiettare sulla testa e sulle spalle, ma non sembrava importare; a forza di ripetere sempre lo stesso teatrino ci aveva fatto l'abitudine.
Si lasciò a cadere ai piedi di un albero, il solito arbuto nel quale ai piedi del quale si metteva ogni volta, facilmente riconoscibile da alcune incisioni sul tronco, fatte da Sun stessa, quando a tenere il conto di quante volte avesse passato la notte lì al freddo.
Ora avrebbe dovuto aggiungerne un'altra, ma non aveva né la voglia, né le forze; vedere quelle dannate incisioni aumentare le faceva solo male, non capiva perché si fosse ostinata a farle.
Buttò il capo all'indietro, facendo sì che anch'esso toccasse il tronco e che il viso fosse rivolto verso l'altro.
Sentiva ancora le goccioline picchiettarle addosso, facendosi pian piano sempre più insistenti e, lentamente, bangnadola dalla testa ai piedi.
Facendo così si sarebbe di certo presa un malanno, ma che le importava?
Anzi, cosa importava a loro?
Niente, a nessuno importava niente di lei, finché sarebbe rimasta debole ed indifesa.
La cosa che la stranì, era il fatto che iniziò a vedere tutto in maniera confusa, appannata e a sentirsi le guance rigate da qualcosa che era sicura non fossero goccie di pioggia.
Prima era solo una, poi due, tre, quattro...quante erano?
Non volevano fermarsi.
Si piegò in avanti, sfiorandosi le guance arrossate con i polpastrelli.
Quelle non erano semplici gocce di pioggia, erano lacrime, ne ebbe la conferma non appena sentí il loro sapore salmastro in bocca.
Stava davvero piangendo?
Si era abbassata a tanto?
Lei non voleva piangere, non poteva, era quello che si meritava per essere debole, no? Nonostante ciò non smise di piangere, lasciò le lacrime rigarle il viso, perché non volevano smettere di scendere dagli occhi?
L'unica cosa che poteva fare, era nascondere il viso in mezzo alle gambe, così che nessuno potesse vedere le sue inutili lacrime.
In fondo, era felice che quella sera stesse piovendo, così che le sue lacrime potessero confondersi con la pioggia e non far mostrare a gli altri quel suo momento di debolezza, del quale si stava tanto vergognando.
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