ἀλήθεια

alètheia: verità

Anche se Xanthos aveva delle basi abbastanza solide, decisi comunque di iniziare le mie lezioni proprio da quelle.

I miei pomeriggi dunque iniziarono a essere occupati dalle lunghe lezioni con lui.

Ci trovavamo dopo pranzo e ci congedavamo poco prima di cenare.

Durante i pasti eravamo lontani. Lui confinato dall'altra parte del tavolo insieme ad altri omeridi, io seduto perennemente accanto a Omero.

Il mio posto era riservato sempre accanto a lui.

La sua era come un'ossessione: avermi sempre vicino era un modo per tranquillizzarlo, come se da un momento all'altro sarei potuto scappare via, lontano da lui e dal suo controllo.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma ormai lui non era più niente senza di me, e non sarebbe stato più niente se avessi deciso di abbandonarlo.

Durante ogni pasto mi parlava con affetto, elogiando la mia bravura davanti agli altri. Parlava di progetti futuri con la luce negli occhi e godeva nel vedere l'invidia degli altri crescere istante dopo istante.

Secondo loro era stato il figlio di Calliope a scegliere il suo punto di riferimento e non il contrario.

Non sapevano in che essere si trasformava Omero quando tutti erano lontani da noi. La sua maschera da uomo colto e pacifico crollava e io tornavo a essere il suo schiavo personale al suo servizio, giorno e notte.

A volte mi ritrovavo quasi a desiderare di passare anche i pasti in compagnia di Xanthos, piuttosto di ascoltare ciò che di falso aveva da dire Omero. Avrei preferito sedermi accanto a quel ragazzo che tanto mi incuriosiva quanto mi scocciava.

Ogni tanto mi ritrovavo a guardarlo fisso per minuti: lì, lontano da me, circondato dai nostri coetanei che gli parlavano e gli sorridevano. Fra questi c'era anche Pirro.

Per la prima volta in vita mia provai una sorta di emozione simile alla gelosia. Solo che... Solo che non comprendevo a chi fosse rivolta. Ero geloso di Pirro? Di Xanthos? E se il biondo faccia da cane mi avesse portato via il mio migliore amico? E se il mio migliore amico si fosse rivelato un maestro migliore di me portandomi via l'incarico di istruire il biondo faccia da cane, gettandomi nel disonore?

Mi accelerava il cuore anche solo a pensarlo. Kleos, l'orgoglio nel nome, scaraventato nella vergogna. Non riuscivo a sopportarlo.

Xanthos andava d'accordo praticamente con tutti, non solo con i nostri coetanei. Doveva star simpatico anche ai ragazzi più piccoli di noi, e ai bambini, al suo passaggio tutti lo salutavano per nome e lui ricambiava il loro saluto sorridendo raggiante.

Nessuno mi aveva mai salutato in quel modo... I bambini avevano quasi paura di me, si tenevano sempre alla larga. Lo odiavo, lo odiavo perché la gente lo amava per quello che era e non per le bugie raccontate sul suo conto.

Mentre mangiava, parlava sempre con tutti molto volentieri e spesso sul suo volto comparivano i segni di una risata che non riuscivo a udire per via di tutto il baccano.

Tuttavia, nei suoi occhi, riuscivo sempre a scorgere quella lieve traccia di timidezza che tutte le volte lo riportava con lo sguardo fisso sul proprio cibo, le labbra serrate e sempre un poco piegate all'insù in un sorriso non del tutto espresso.

Lo guardavo, lo guardavo per tutto il tempo, quasi rapito dai suoi movimenti, e intanto gli uomini che mi circondavano parlavano e mi tiravano pacche sulle spalle. Non avevo idea del perché lo facessero, i loro discorsi non mi toccavano nemmeno e il mio annuire incessante li faceva continuare convinti che li stessi ascoltando, le mani sempre sul mio corpo e l'ebrezza del vino che li faceva urlare troppo.

A volte il modo migliore per sparire è fingere di esserci quando tutto il mondo ti sta guardando.

Xanthos, dal suo posto, continuava a non guardare mai verso la mia direzione, il che era un bene: potevo guardarlo tutto il tempo che volevo e perdermi nei suoi gesti. Solo così riuscivo a scampare alle abitudini che a tutti i costi volevano rendermi partecipe della loro inutilità.

Ma un giorno venni scoperto, o meglio, un giorno successe l'esatto contrario: l'unica volta in cui mi distrassi, in cui mi persi nei giri di parole dell'ebbrezza e del falso, sorpresi Xanthos a guardarmi.

Avevo alzato lo sguardo, convinto di trovarlo perso nei discorsi con gli altri ragazzi o nella sua razione di buon cibo, eppure eccolo che era lì, ritto sulla sua schiena, gli altri che parlavano e lui, con il piatto ancora mezzo pieno e gli enormi occhi verdi, intento a scrutarmi persino l'animo.

Mi sarei aspettato che distogliesse lo sguardo, probabilmente imbarazzato, ma non lo fece, rimase lì, immobile e imperterrito.

Mi guardai alle spalle, forse c'era qualcosa dietro di me e stava osservando quello. Mi sbagliavo, dietro di me non c'era niente se non una grossa colonna che imponente reggeva il soffitto.

Quando mi voltai scoprii che stava sorridendo. Ma non come al suo solito, il suo sorriso pareva essere ancora più caldo, bello e accogliente.

Fu quello il momento in cui mi resi conto che il modo in cui sorrideva a me era sempre diverso. Non saprei spiegarlo. Era diverso in tutto: i denti erano più bianchi, gli occhi più verdi, le fossette sulle guance più definite e le lentiggini si estendevano meglio sul suo viso, come millemila pesci nel mare.

Il suo riso innescò il mio. Era raro che qualcuno mi facesse sorridere, non sorridevo quasi mai. Quell'abitudine la persi il giorno in cui mi fu rivelato il mio infausto destino.

Trovavo inutile sorridere alla vita quando non avevo alcun motivo per cui farlo, sarebbe stato un po' come mentire.

Eppure quel giorno un motivo per sorridere lo trovai in quel ragazzo che tanto non sopportavo quanto mi attirava.

Xanthos prese l'osso di pollo pulito dalla carne e lo appoggiò fra la bocca e il naso tenendolo in bilico.

Compresi che era un modo per simulare dei baffi, ma non riuscì a capire chi stesse imitando.

I miei dubbi svanirono quando, dai suoi avanzi, prelevò un pezzo di albume sodo di un uovo e se lo mise davanti all'occhio destro.

Omero. Stava imitando Omero. E anche in accezione negativa a essere precisi.

Perché burlarsi di chi lo aveva trattato bene? Ero convinto che pendesse dalle sue labbra così come tutti gli altri in quella casa, che lo ammirasse e stimasse, desiderando un giorno di essere come lui.

Invece era lì, con un osso di pollo sul suo viso e un pezzo di albume in mano, a fare linguacce e a pavoneggiarsi da idiota proprio come faceva Omero.

Non resistetti e scoppiai a ridere. Era sì la peggiore imitazione di qualcuno a cui avessi mai assistito, ma, in fondo, era ben pensata.

Era un'imitazione che solo io potevo capire, io che avevo conosciuto tutti i lati di Omero, io che ero l'unico ad averlo visto senza la sua maschera da uomo gentile e colto.

Xanthos lasciò cadere l'osso di pollo, era visibilmente sorpreso: forse non si aspettava che ridessi, non ero decisamente l'individuo da cui ci si sarebbe aspettata una risata.

Ma era tutto destinato a finire in fretta, il piacere di quella risata, che calda si levava dal mio stomaco e che con dolcezza alleviava i miei tanti dolori, era destinato a lasciar spazio, per l'ennesima volta, alla realtà e alla paura.

Sentii una morsa stringermi la coscia sotto il tavolo e subito dopo quella stessa morsa passo al mio braccio e mi strattonò. Nella ferocia del movimento, battei la testa contro il sasso della colonna dietro di me, e insieme al dolore lancinante lo sguardo di Omero mi trafisse.

Abbassai il capo e non mi mossi, anche se il mio corpo implorava di alzare una mano e controllare se dal capo stesse sgorgando del sangue.

Sarei morto per la ferita nel giro di poche ore? Era quella la sorte che Delfi aveva visto in me? Morire per le ferite sul corpo e sull'animo impresse dalla violenza di un uomo egoista e troppo bravo a fingere?

Gli occhi di Omero divorarono la mia anima e strapparono le carni dalle mie ossa, proprio come Xanthos aveva fatto con quella coscia di pollo di cui rimaneva solo l'osso.

Ma non fu tanto lo sguardo di Omero a ferirmi, quanto l'indifferenza. Sì, proprio l'indifferenza.

A volte nella vita si ha paura di cose che all'apparenza sembrano catastrofi: la morte, la povertà, la malattia, l'amore non corrisposto, la vecchiaia, la solitudine, e tante altre ancora, e si ignorano quelle di cui bisognerebbe davvero preoccuparsi: l'apatia, l'egoismo e l'indifferenza.
Quanto fa paura mostrare le proprie ferite davanti agli altri e non venire nemmeno considerati? O peggio, venire guardati, anche bene, osservati in ogni angolo del nostro corpo, e poi lasciati lì, a dissanguarci delle lacrime e delle pene sofferte?

Quanto fa paura lo sguardo della gente che seria ti scruta e non fa un minimo gesto per aiutarti? Gente che vive nel proprio e non fa una piega anche se lo strazio è a pochi passi da lei?

Quanto fanno paura tutte le lacrime spese per irrigare una terra arida e senza speranza di vita?

Quanto? Quanto fa male?

Però si ha paura della morte, di ciò che prima o poi arriva per tutti tranne per gli dei che sovrastano il cielo.

Si vive guardando il dolore degli altri, le crepe nel corpo, ma nel proprio ci si crogiola nell'egoismo di non alzare un solo dito per aiutare qualcuno. Lo si guarda annaspare nelle proprie pene e soffocare nel sangue, gli occhi girati all'indietro e la bocca schiumosa semi aperta per l'agonia.

Le persone voltano le spalle, se ne vanno senza chiedersi chi sarebbe disposto a seguirle, poi però tornano indietro, ti urlano contro, ti feriscono senza un valido motivo, perché dentro accumulano il dolore che mai viene curato e poi gettano tutto nel silenzio o fingono che non sia successo nulla.

Siamo tutti fin troppo bravi a fingere. La vita è un grande teatro pieno di maschere in cui tutti amano recitare un ruolo e poi cambiarlo a proprio piacimento.

Una lacrima sfuggì al mio controllo e me l'asciugai con il palmo della mano. Gli altri uomini vicino a noi avevano assistito alla scena ed erano tutti ammutoliti.

Continuai a non muovermi e a tenere lo sguardo basso. Il cuore in petto mi esplodeva e le mie viscere si contraevano. Il fiato accelerato non riusciva a farmi smettere di tremare.

Non riuscivo a credere a ciò che Omero mi avesse fatto e nemmeno che l'avesse fatto sotto gli occhi di alcuni omeridi. Non mi aveva mai... Mai picchiato in quel modo, scosso con così tanta violenza e così tanta cattiveria. Come tutto questo poteva provenire dallo stesso uomo che, anni prima, aveva donato una speranza a quel bambino dai sogni ancora vividi?

Dopo un momento iniziale di imbarazzo gli omeridi ripresero a parlare, a ridere e a scherzare con Omero.

Lui era il vecchio poeta benevolo e io il suo discepolo ribelle. O forse non avevano abbastanza fegato da ammettere gli errori del sommo poeta e prendere le mie difese?

Questa seconda supposizione mi ferì, e mi ferì ancora di più il modo di scherzare di quelle persone che avevano assistito al mio dolore.

Ripresi il coraggio e mi sfiorai la testa nel punto dolorante. La mano si tinse di rosso, l'odore del sangue mi fece quasi rigettare.

Nessuno mi guardava più, ero tornato nell'ombra, ma non completamente.

Alzai lo sguardo: Xanthos, dal suo posto, mi guardava spaventato... Preoccupato.

Aveva visto tutto.

***

«Kleos! Come hai fatto a ferirti in questo modo?!».

Nyria mi teneva il capo, tamponava la ferita con un panno umido e tiepido imbevuto di olii medicinali.

Non potevo raccontarle la verità, anche se avrei voluto tanto farlo. Detestavo doverle nascondere tutto il mio dolore, lo sfruttamento di Omero e la sua violenza, ma dovevo farlo per la mia incolumità. L'oracolo di Apollo era sempre dietro l'angolo, in agguato.

«Sono scivolato» dissi, mentre i sensi di colpa si facevano largo a ondate nel mio cuore «è stato un incidente»

«Hai bevuto? Ti sei ubriacato?» Nyria mi prese il volto fra le mani e mi guardò seria. I suoi grandi occhi nocciola perlustravano ogni angolo del mio viso, in cerca di chissà quali indizi che avrebbero potuto smascherarmi.

«No, non preoccuparti. E' stata una mio errore, non ho guardato dove mettevo i piedi mentre scendevo le scale e ho battuto la testa contro un gradino»

«Per Zeus!» sospirò «Hai sempre la testa fra le nuvole e non guardi mai dove metti i piedi, cosa devo fare con te?»

«Mi dispiace, starò più attento».

Mi morsi la lingua per il dolore, il contatto con il panno e la ferita mi creava forti dolori che irrigidivano il mio corpo.

«Fortuna che non hai perso molto sangue... Avresti potuto morire, sai? σχινοκέφαλον, skinokèfalon!».

Sorrisi, e per un attimo mi scordai del dolore: mi aveva appena dato della "testa di cipolla", un insulto ricorrente che Nyria era solita pronunciare quando combinavo qualche guaio.

«Non c'è niente per cui dover sorridere» si lamentò mentre una sottile linea delimitava in due la sua fronte corrugata.

Appoggiò il panno e mi accarezzò il viso con dolcezza. Non riusciva mai a rimanere fredda o arrabbiata nei miei confronti, l'amore che provava per me superava qualsiasi altra emozione.

Mi coricai sul divanetto, ancora un po' intontito, il dolore era quasi del tutto scomparso e l'agitazione aveva abbandonato il mio corpo. Tuttavia, nella mia testa, erano ancora ben presenti quelle scene, l'indifferenza degli altri, la paura e la violenza. Si riversavano tutte sul soffitto illuminato dalle torce accese sotto forma di ombre che lente di muovevano, ricreando ogni istante di quell'incubo.

Sentii nelle orecchie il tonfo secco contro la colonna fredda, il bordo tagliente tra le due scanalature che apriva la mia pelle, le risate e il vociare di chi non si era accorto nulla e gli occhi di chi era accanto a me che mi guardavano come se fossi stato insignificante.

Mi aggrappai alla stoffa del divano, stringendo i denti e gli occhi nel vano tentativo di scordare tutto. Volevo urlare, dire a quegli incubi di finire, di non tormentarmi, di non prendermi e trascinarmi via con loro.

"Basta!" gridavo nella mia testa "Non voglio più rivivere niente! Voglio scordarmi di tutto! Lasciatemi stare! Lasciatemi stare, ho detto!".

Aprii gli occhi. Il mio corpo era madido di sudore, gli arti rigidi e fermi in una posa poco naturale, il fiato corto, il cuore che batteva così forte da sentire i denti tremare.

«Kleos? Kleos?! Kleos!» la variazione del tono della voce di chi mi stava scuotendo un braccio mi fece intuire che si stesse agitando.

Volsi lo sguardo su di lui, la nebbia davanti ai miei occhi non mi permise di inquadrare bene il suo volto, ma fu sufficiente il ciuffo di capelli biondi un po' sfocati per farmi capire chi fosse.

«Xanthos?»

«Per Zeus! Mi hai fatto prendere un colpo! Stai bene?!» il suo urlare non aiutò il mal di testa che stava lentamente crescendo. Mi portai una mano alla testa dolorante e lui comprese il gesto. «Scusa» mormorò «non volevo farti del male»

«Non fa niente» tossii.

Seguitò un momento di silenzio nel quale recuperai la vista.

Mi accorsi che la mano di Xanthos era poggiata ancora sul mio braccio. Era seduto sul bordo del divanetto e non mi guardava, fissava perso un punto sul pavimento davanti a sé.

Cercai di mettermi seduto accanto a lui, ma me lo impedì spingendomi con delicatezza.

Il contatto delle sue grandi mani contro il mio petto contrasse i miei muscoli uno a uno, come se mi stessi pian piano rimpicciolendo.

Il mio cervello non fece in tempo a capire se fosse una reazione positiva o negativa perchè Xanthos attaccò a parlare:

«Ho visto».

Non disse altro, mi bastò quello a capire.

Rimasi in silenzio, non sapevo cosa dire, come poterlo spiegare. Non ero in grado di inventare bugie perché era impossibile negare l'evidenza e Xanthos, per quanto imbranato, non era stupido.

«Io non... Credevo che...»

«E' stato uno impeto di rabbia» lo interruppi mettendomi seduto, questa volta Xanthos non mi fermò e rimase a guardarmi avvilito.

«Kleos, perché continui a mentire?» le sue parole non erano dure, parlava con calma e con dolcezza, ma in me provocarono una crescente nausea.

«Non sto mentendo»

«Invece sì»

«No»

«Sì»

«No»

«Kleos, io lo so».

Il sangue si gelò nelle mie vene.

«Cosa? Cosa sai?» cercai di non far risultare il tono della mia voce spaventato, ma fallii miseramente.

Xanthos non rispose, rimase con le mani congiunte e lo sguardo di nuovo fisso sul pavimento. Sembrava pensieroso. Le dita già massacrate e piene di tagli e croste di sangue si dibattevano fra di loro come pesci attorno a una preda, solo che la preda, in quel caso, era ognuna di loro.

Mi alzai, stizzito, ignorando subito l'improvviso giramento di testa che mi colpii e le gambe molli che a fatica mi reggevano.

Avevo bisogno di aria, di restare solo, ogni istante passato in quella stanza mi stava togliendo il fiato.

Ormai giunto alla soglia, Xanthos parlò ancora:

«Perché scrivi per Omero?».

Buio.

«Perché ti fai sfruttare così?».

Tenebre.

«Perché nascondi il tuo talento sublime?».

Caddi, mi ressi allo stipite della porta per non finire a terra. Xanthos corse in mio soccorso e mi tenne fra le sue braccia. Mi sollevò da terra tenendo un braccio intorno alle mie spalle e l'altro intorno alle ginocchia.

Non credevo avesse così tanta forza in quelle braccia.

Non lo avevo mai avuto così vicino, con l'orecchio premuto contro il suo petto riuscivo a sentire il battito del suo cuore e la sua pelle profumava di mandorle, di dolci mandorle.

Mi pose di nuovo sul divanetto e tornò a sedersi accanto a me, la sua mano stretta intorno alla mia. Era calda come una pagnotta appena sfornata.

Raffioró nella mia mente, dopo tempo, l'immagine di Tassos e delle briciole di pane imprigionate nella sua folta barba scura.

Mi mancava.

Il silenzio troneggiò ancora su di noi. Sentivo la paura annodarmi la gola e qualsiasi organo vitale, le mie viscere erano compresse fra di loro, i muscoli tesi.

Ero stato scoperto, la recita era finita, così come la mia vita.

Non c'era più motivo per cui mentire.

«Come...?» riuscii a dire, la paura che come rovi pungevano e avvolgevano il mio corpo. «Come lo sai? Te l'ha detto qualcuno? Chi è stato? Chi lo sa oltre a te?».

Xanthos posò una mano sulla mia fronte, cercò di calmarmi, ma nulla mi era d'aiuto.

«Nessuno lo sa, l'ho scoperto da solo, non ti agitare».

Feci una risata amara: mi diceva di non agitarmi dopo avermi posto quelle domande? Non aveva minimamente immaginato di potermi provocare tutto quello?

Sospirò, sentii la sua mano stringere di più la mia. Non la levai, seppur il desiderio fosse alto.

«Durante quella lezione, nella tua stanza, ho notato alcuni fogli sulla tua scrivania. E' stato un errore da parte mia e ti chiedo perdono per questo: quando te ne sei andato... Sì, lo ammetto, li ho guardati. Ero curioso, credevo fossero appunti da rapsoda che sarebbero potuti essermi utili, ma in realtà non era così...» strinse ancora di più la mia mano, sentivo una crescente vergogna aumentare in lui «Ho letto alcuni testi dell'Iliade, gli stessi che hanno poi eseguito i rapsodi i giorni a seguire presentandoli come scritti da Omero, gli inni a Poseidone che Omero ha cantato e che aveva definito come suoi. Non potevano essere sciocche coincidenze. Tutti i testi scritti con la tua calligrafia, le tue note e i tuoi perfezionamenti, cantati da altri e spacciati per quelli di Omero? E poi arrivi tu, durante le serate, a cantare testi di tutt'altro genere e mai quelli "del grande poeta"?»

«Ecco perché non mi hai seguito fuori dalla mia stanza, e io che ci avevo pure sperato...» mormorai, ma era più un amaro pensiero rivolto a me stesso.

«Cosa?»

«Niente».

Il silenzio tornò, il dolore fisico e la nausea attenuarono la mia sofferenza interna, li ringraziai insieme alle erbe medicinali che avevo assunto poco prima e che mi avevano sortito un effetto di tranquillità. Fossi stato completamente lucido in quel momento, sono certo che non sarei riuscito a reggere.

Xanthos mi prese il viso fra le mani, un gesto avventato che mi fece strabuzzare gli occhi e mi costrinse a guardarlo nei suoi occhi verdi oliva. Lui, lì, piegato su di me, il viso a poca distanza dal mio, i riccioli d'oro che ricadevano sulla mia fronte.

«Perché?» ribadì, sembrava sul punto di scoppiare a piangere «Perché convivere con tutto questo dolore e tacerlo a tutti?». Sospirò, d'un tratto arrabbiato: «Mi hai detto di dirti se ci fosse stato qualcosa che non andava, non potrebbe essere anche il contrario?» suonava come un rimprovero.

Ora la punta del suo naso sfiorava la mia, le mani erano sempre posate sulle mie guance.

«Io...» dei passi che si avvicinavano mi interruppero.

«Kleos! Stai bene?».

Xanthos scattò seduto, volsi la testa verso la terza voce che aveva parlato.

Pirro si avvicinò al divanetto e mi guardò spaventato:

«Ho saputo da Nyria che ti eri fatto male e mi sono fiondato da te. Come stai ora? La testa? Hai perso tanto sangue?».

Aveva il fiatone e la fronte imperlata di sudore. Aveva corso per venire da me.

«Sto... Sto bene, non preoccuparti».

Pirro tirò un sospiro di sollievo, il suo volto teso si rilassò un poco.

«Grazie, Xanthos, per essere stato con lui. Me ne occupo io adesso» gli fece un sorriso. Fu l'unica volta in cui non vidi Xanthos ricambiarlo.

Si congedò con un cenno del capo e si avviò verso la porta. Lo guardai allontanarsi e i nostri sguardi si incontrarono per l'ultima volta quando lui si voltó a guardarmi per un momento, dopodiché sparì.

Rimasi a fissare il punto dove era scomparso per lunghi attimi, mentre Pirro parlava e io ascoltavo a malapena.

Nella mia testa c'era solo una domanda: se non fosse arrivato Pirro, tra noi, cosa sarebbe successo?


🌸Angolino della scrittrice iperattiva e con la bava alla bocca🌸

Ormai l'espresione "faccia da cane" è diventata uno dei miei insulti preferiti.

Ma vi immaginate? Anziché dire le solite parolacce, stupire il proprio nemico caricando i polmoni e sputandogli subito dopo addosso un bel "FACCIAH DI CANEH!".

Epico, stupendo, meraviglioso, sublime e COLTO!

Nonostante i miei deliri, vi lascio con un bel memazzo. Alterniamo gli angolini "eruditi" con gli angolini delle cagat... I prodotti tipici del mio scarso umorismo che tanto vi fanno ribaltare dalle risate (VERO?!).

Al prossimo angolino!

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