φύσις

Fùsis: la natura intesa come forza. In filosofia è il principio e la causa di tutte le cose, una forza che regola il Kosmos, il creato.

Aprii gli occhi e la luce mi investì.

Era mattino, alcuni uccellini invernali fuori cinguettavano con allegria.

Rimasi fermo a guardare fuori dalla finestra il cielo limpido che si stagliava all'orizzonte di tanto in tanto era  macchiato da nuvole striate.

Lentamente mi riappropriai di tutti i sensi e la mente riemerse dai sogni con infinito dispiacere.

Alcuni affermano che i sogni siano una visione diversa della realtà, io credo che siano doni che ci sono stati dati per fuggire dalla realtà che a tratti fa troppo male...

Non ricordo cosa sognai di preciso quella notte, ma sono certo che avesse a che fare con tutto quello che avevo provato con Xanthos la sera prima.

Avevo ancora in mente tutto: i discorsi fatti, i suoi occhi, la sua essenza mescolata insieme alla mia, i nostri corpi uniti, la mia pelle accarezzata dalle sue mani gentili, i gemiti, gli affanni, i capelli che gli ricadevano sul viso, la sua voce che donava al mio nome quel valore perso da tempo, i baci roventi, i sussurri, le cose giurate.

Stentavo ancora a crederci che fosse successo: e fosse accaduto solo nel mio sogno?

Tremai per un secondo e mi voltai. Il letto era vuoto e freddo, le lenzuola giacevano ammucchiate e stropicciate, ma su di esse riuscivo ancora a sentire il suo dolce profumo.

Bastò quello a convincermi che fosse stato tutto reale.

Presi quel groviglio di stoffa e ci affondai la faccia dentro.

Le mie narici si riempirono del dolce profumo di mandorle che lo avvolgeva e che era una carezza, per me, sentirlo.

Per Zeus, riusciva quasi a farmi sentire sull'Olimpo.

Mi stiracchiai e mi alzai dal letto. Già avvertivo una certa assenza in me e non era quella dovuta alla mancanza di cibo nel mio stomaco.

Mi sciacquai il volto con dell'acqua fresca e indossai uno dei miei migliori chitoni.

Volevo rendermi presentabile, era da tempo che non mi trovavo così di buon umore, non vedevo l'ora di poter rivedere la fonte della mia gioia e parlare con lui.

Mi sistemai i capelli arruffati, specchiandomi nel riflesso dell'acqua contenuta nella giara della mia stanza e scesi nel salone principale per la colazione.

C'era un gran via vai di servi e ancelle e molti degli omeridi sedevano già ai loro posti con lo sguardo ancora rapito dal sonno.

Qualcuno però mancava all'appello: mi fu riferito che alcuni si erano talmente ubriacati la sera prima da non riuscire più ad alzarsi dal letto.

I festeggiamenti dell'ultima sera delle Antesterie si erano protratti a lungo, c'era chi era andato a letto poco prima del sorgere del sole.

Arrossii un poco a quel pensiero: mentre tutti urlavano nell'ebbrezza del vino e continuavano ad annaffiare le proprie gole con quel brusco liquido scuro, urlando e cantando a squarciagola, io e Xanthos ci eravamo persi in un altro pezzo di vita e non ci eravamo accorti di niente.

Nessun schiamazzo era giunto alle nostre orecchie quella sera e le stelle parevano brillare con la luna solo per noi.

Avrei dato di tutto, in quel momento, perché un dio riavvolgesse il tempo per farmi rivivere di nuovo tutti quei momenti.

Passai in rassegna ogni ragazzo in quella stanza quando lo vidi, lì, al suo posto, nascosto in parte da altri ragazzi.

Teneva lo sguardo basso, qualcuno gli parlava e lui annuiva lentamente, sempre un lieve sorriso dipinto sulle sue labbra.

Sentii il cuore sciogliersi alla vista di quelle stesse labbra che solo la sera prima avevano accarezzato la mia pelle con quella gentilezza ineffabile.

Come se ci fosse stato un filo a legarci, appena i miei occhi si posarono su di lui, Xanthos alzó lo sguardo su di me. I nostri occhi si incontrarono e da lontano scorsi le bellissime sfumature verdi dell'iride, una nuvola di farfalle si levó in me a quella vista.

Mi sorrise. Gli sorrisi.

Feci qualche passo verso di lui, volevo toccarlo, sentirlo di nuovo accanto a me, ma mi arrestai. Mi sentii... Scoperto?

Mi voltai verso Omero, dal suo angolo lontano mi scrutava con sguardo severo. Riuscii quasi a leggere nella sua mente la domanda che severa cercava di mettermi a nudo: dove credi di andare?

Strinsi i pugni, tornai a guardare prima Xanthos e poi Omero.

Chi? Da chi...?

Mi strinsi il cuore con la mano, divenni cupo.

Con lo sguardo chiesi scusa a Xanthos, lasciando trasparire tutta la mia tristezza, e mi diressi verso Omero.

Avrei voluto, ma non potevo.

Pregai che Xanthos non mi odiasse per quella mia decisione. Avrebbe capito... no?

Sospirai, mi sedetti vicino a Omero e cercai di seppellire dentro di me i miei sentimenti.

Omero non doveva sapere, nessuno doveva sapere della nostra relazione. Conoscendolo mi avrebbe vietato di vederlo, forse preoccupato che io potessi allontanarmi da lui.

Doveva avermi sempre sotto il suo attento occhio, la paura che smettessi di scrivere per lui era sempre in agguato, così come io temevo che lui rivelasse la profezia se mi fossi rifiutato di continuare a scrivere per lui.

«Dormito bene?» domandò il vecchio, l'occhio buono puntato nel mio come un falco in attesa della prima mossa falsa della sua preda.

Annuii, strappando un pezzo di pane e seppellendo in me tutti gli eventuali segnali che avrebbero potuto fargli scoprire cosa fosse accaduto la sera prima.

«La festa è durata a lungo» disse «ho cantato alcuni miei brani, poi però sono andato a letto... Sai, la vecchiaia»

«Ti é piaciuto cantare quei brani?» era un modo in codice per chiedergli se avessi fatto un buon lavoro.

Non disse nulla, annuì soltanto, non un grazie, non una parola gentile. Non feci una piega a ciò: ci ero perfettamente abituato: il mio era un lavoro obbligatorio, non un "favore" che gli facevo, anche se lui lo chiamava così.

«Come sta andando con "lo studio" dei miei testi dell'Iliade»

«Sono a buon punto»

«Bene».

Si mise a parlare con altri, mentre io coglievo l'occasione per rivolgere di nuovo lo sguardo su Xanthos.

Lui continuava a tenere il suo sguardo puntato su di me, non aveva mai smesso di fissarmi.

Sentii un fuoco ardere le mie guance, una forza incredibile ammassarsi nei miei arti.

Inclinò la testa di lato, lo vidi ridere e nonostante il baccano riuscii quasi a sentire la sua risata. Forse la conoscevo così bene che la mia mente riusciva a immaginarla senza troppi sforzi.

Mi ricordai improvvisamente di una cosa importante.

Raccolsi tutti il coraggio che avevo, lo trassi specialmente dagli occhi di Xanthos che ancora mi fissavano e dal suo prenne riso impresso sul suo volto, insieme all'affetto più sincero.

«Io...». Omero smise di parlare con gli altri e tornó a squadrarmi. «Vorrei riprendere sotto la mia custodia la formazione di Xanthos».

Omero si incupì. Provai l'ardente tentazione di alzarmi e fuggire, ma rimasi inchiodato lì: era una guerra che dovevo combattere e vincere assolutamente.

«Avevi detto di avergli offerto tutto ciò che sapevi».

Tentennai, mi aggrappai al tavolo:

«E' vero, ma...»

«Ma...?».

Abbassai lo sguardo:

«Lo ammetto, ho sentito te e Faronte discutere quella volta nella tua stanza. Mi dispiace, so che non avrei dovuto immischiarmi nei vostri affari, ma... Mi sono sentito in colpa, ecco. Non trovo giusto che Faronte debba sforzarsi tanto con quel ragazzo. Credo che... Che sia meglio che continui a seguirlo io, con me aveva una resa positiva, sono certo migliorerà, e Faronte non rischierà di stressarsi troppo».

Non disse nulla, mi scrutò a lungo. Iniziai a sospettare che avesse intuito le mie bugie e perciò tremai un poco.

Alla fine il vecchio si mosse, tornando concentrato sulla propria colazione.

«Non è a me che devi chiedere» disse «è Xanthos colui che deve decidere».

Ripresi a respirare normalmente.

Era fatta, io e Xanthos eravamo di nuovo maestro e discepolo.

Nascosi un grosso sorriso vittorioso e mi misi a mangiare.

Xanthos mi stava ancora guardando, la sua espressione era confusa, ma un lieve riso gli increspava un poco le labbra. Aveva intuito che ci fossero buone notizie.

Iniziai a pensare che fosse più bravo a leggere me che i testi. Xanthos era un rapsoda che al posto dei poemi cantava le persone, e con il tempo mi convinsi sempre di più di questa etichetta.

***

L'inverno lasciò spazio al caldo sole di primavera.

Le acque del mare di scaldarono, la fauna si risvegliò e la flora si dipinse di colori vivaci.

Amavo Chio per tutte quelle sfumature che la caratterizzavano.

Ogni periodo dell'anno possedeva un proprio colore: dal giallo del cielo in estate, al blu scuro delle onde in inverno, al rosso dei fiori di primavera e al viola dei fichi maturi in autunno.

Chio viveva di sfumature e gli stranieri sbagliavano a pensare che fosse grigia per via di tutte quelle rocce che la circondavano.

"La rocciosa Chio" era un'isola che la dea Iride aveva prescelto come sua tavola da dipingere.

Chio era il bianco tempio da affrescare, la colonna portante in un vasto mare scuro come il vino e brillante come il miele.

Seppur costretto dalla profezia a rimanere confinato lì per sempre, amavo la mia patria e non avevo intenzione di lasciarla.

Tuttavia... Tuttavia il mondo mi incuriosiva.

Ogni tanto mi perdevo a fantasticare con Xanthos di come fossero fatti i luoghi che ci circondavano e che non avevo mai visto.

Quel poco che avevo viaggiato, da bambino, aveva contribuito a darmi sì un'idea di come fosse fatto il mondo, ma a causa della breve durata del viaggio e dei ricordi sbiaditi dei luoghi visitati, nella mia mente non era presente granché se non brandelli di ricordi, che di certo non mi permettevano di tracciare un ampio quadro di come fossero fatte le altre città, le altre isole e gli altri popoli.

L'Ilio dei miei racconti l'avevo resa come una piccola versione di Chio.

Dal momento che non conoscevo altre città da cui prendere spunto per descriverla, avevo deciso di andare sul sicuro e scrivere di una città che assomigliava a quella che conoscevo bene: sia come sistemi burocratici, che come paesaggi, gerarchie sociali e altro.

Per quanto la mia mente abbondasse di immaginazione, preferivo dare forma a certe cose tramite spunti che avrebbero gettato basi solide a ciò che narravo, o meglio, a ciò che avrebbe narrato Omero.

Ilio, quindi, seppur città non achea, di tradizioni achee ne abbondava eccome

Scoprii in una delle conversazioni su come mi immaginassi il mondo che Xanthos aveva viaggiato parecchio, più di me, ma non che ci volesse molto a superarmi.

Aveva tanti parenti sparsi per tutta la Grecia: zii che abitavano in Beozia, amici del Peloponneso e della Messenia, due dei suoi primi cugini abitavano a Tebe e suo fratello maggiore, dopo aver sposato una donna Ateniese, era andato a vivere nell'Attica con lei.

Aveva visto con i suoi occhi Rodi, Creta, Samo, Mileto, Smirne e addirittura Atene stessa.

Gli chiedevo di raccontarmi cosa avesse visto, gli ponevo domande su domande e talvolta prendevo appunti di ciò che diceva. Appunti che sarebbero serviti ad arricchire quello che scrivevo.

Scherniva spesso con dolcezza quel mio comportamento, la curiosità che smaniosa pretendeva di sapere tutto. Diceva che "Nei miei occhi vivessero le lucciole". Secondo lui, quando qualcosa mi piaceva tanto, i miei occhi prendevano a brillare così intensamente che gli era impossibile resistere e tenere la sua conoscenza solo per lui.

Io gli parlavo del mio mondo, lui del suo, e così ci completavamo alla perfezione.

Due tasselli di un mosaico fatti apposta per combaciare, nonostante i bordi taglienti e non perfetti.

I nostri pomeriggi scorrevano così, uno dopo l'altro, tra musica, lezioni di oratoria, canti, baci furtivi, carezze e sogni ad occhi aperti.

Quando suonava gli tenevo le mani, gli mostravo con gentilezza quali corde della cetra sfiorare, mentre la nostra pelle rimaneva sempre a contatto e il suo profumo inebriava le mie narici.

Alla sera, invece, quando scrivevo per Omero, lui rimaneva di nascosto nella mia stanza a guardarmi, per tanto tempo, gli occhi fissi sullo stilo che faceva su e giù sulla pergamena, almeno fino a quando il sonno vinceva e lo faceva addormentare contro la mia spalla.

Quelle notti passate a scrivere con la dolce melodia del suo respiro profondo contro il mio orecchio erano semplicemente indimenticabili.

Lentamente i tagli sulle mani di Xanthos svanirono, uno a uno. La pelle guarì e lui non se le morse più. Le poche volte in cui tentava di mordersi, di farsi del male, forse per un attacco di rabbia improvviso o per la paura di deludermi, gli prendevo le mani dolcemente fra le mie e gliele baciavo, poi le stringevo e gli impedivo di muoversi fino a quando non si sarebbe calmato.

Xanthos conviveva con il trauma di non essere mai abbastanza, di deludere qualcuno o di ferirlo in qualche strano modo che solo lui sapeva. Aveva paura di farmi scappare ancora e di deludermi, anche se questo non me lo confessò mai, non di propria volontà.

Gli tirai fuori io questa confessione, un pomeriggio, durante una delle nostre solite lezioni.

Ci sapevo fare con le parole e sapevo come far confessare qualcosa a qualcuno, anche se si fosse trattato di un segreto enorme, un peso equivalente a un omicidio o a un tradimento.

Xanthos sbaglió una nota, notai subito sul suo viso un'espressione di pura vergogna, ma non una vergogna qualsiasi, una vergogna nei suoi confronti, un biasimo per aver errato solo una sciocca nota.

Con il tempo avevo imparato anch'io a leggere i moti dell'animo di Xanthos, leggeri e quasi impercettibili solcavano il suo corpo come un'incisione sulla corteccia di un'albero.

A quel piccolo errore, infatti, Xanthos era diventato rigido, il suo sguardo severo fissava lo strumento, causa dei suoi mali interiori, e una riga divideva in due la sua fronte aggrottata.

Si portò una mano alla bocca, ma prima che avesse potuto fare qualsiasi cosa, io gliela avevo già presa e con una stretta salda la avvolgevo.

«Cosa fai?» chiesi.

Non rispose, allora cercai di guardarlo negli occhi, ma mi veniva difficile se lui guardava da tutt'altra parte.

«Xanthos, so che c'è qualcosa che non va» tirai un poco la sua mano verso di me, come per attirare l'attenzione che già sapevo di avere, ma che lui male cercava di  nascondermi. Cercava di nascondere quanto fosse dannatamente interessato a me.

«Non c'è nulla che non va» mormorò, e allora io sospirai.

Detestavo chi cercava di prendermi in giro, ma con lui proprio non ce la facevo ad arrabbiarmi.

«Per favore» la mia voce era ridotta a un lamento, non riuscivo a sopportare che non mi guardasse. I suoi occhi scrutavano il largo e il mio corpo aveva bisogno di essere inondato della loro attenzione.

Come un passero attira l'attenzione della madre per essere nutrito, io cercavo l'attenzione di Xanthos per stare bene, per rifocillarmi di quella perenne luce che lui emanava.

A quel punto mi guardò, probabilmente attratto dal mio tono roco e spento.

«Io... Non riesco a capire...» mormorò. I suoi occhi incontrarono i miei fugaci, ma in un attimo furono di nuovo scostanti. Provai l'impulso di prendergli il volto e con stringermi a guardarlo, ma quello non era amore, era egoismo, e perciò allontanai quell'insana voglia.

«È normale» gli strinsi la mano sottratta ai suoi denti che ancora giaceva fra le mie «ti stai impegnando molto, e sei migliorato, ma non puoi pretendere di capire tutta la tecnica in due sole stagioni, ci vuole molto più tempo e...»

«Non sto parlando di questo» mi interruppe «sto parlando di te».

Lo vidi mordersi la lingua, i suoi rimpianti nascosti riaffiorarono dalle tenebre del suo cuore e divennero visibili sul suo volto.

«Io? Non capisci... Me?».

Scosse la testa, non compressi se fosse un modo per dirmi che mi stessi sbagliando oppure una difesa per tenermi lontano.

Si ostinò a non parlare, sentii un fastidio annodarmi le viscere.

Quella sete di curiosità in me si trasformò in un'arma tagliente, una lancia a doppia punta capace di trafiggere la vittima e chi la scaglia.

Capii che l'unico modo per farlo parlare era farlo esplodere.

Xanthos si teneva tante cose dentro di sé, le raccoglieva fino a quando non ne poteva più e le rilasciava nel mondo esterno come palle di fuoco ardenti.

Trovai il pretesto per farlo parlare: una piccola, innocua, domanda. Mi finsi ferito, incrociai le braccia e gli lasciai andare la mano.

«Non ti fidi di me? E' così?».

Xanthos scattò a guardarmi, sul suo volto era dilagato il terrore e l'agitazione:

«No! Mi fido di te! È solo che... Dannazione! Non mi sento migliorato per niente, continuo a fare errori, a dimenticare i testi per la troppa ansia, sbagliare note e non riesco a completare nemmeno un brano. Di questo passo non arriverò mai a cantare con altri rapsodi, figurarsi per conto mio. Cosa mai potresti pensare tu? Stai avendo una pazienza sconfinata nei miei confronti e nonostante tutto non ti dimostro nemmeno un piccolo segno di miglioramento»

«Aspetta» ero confuso «mi stai dicendo che hai paura di deludermi? Tu credi che mi stai deludendo?».

Non rispose, arrossì un poco.

Avevo fatto centro.

Iniziai a chiedermi se avessi sbagliato tutto con lui. E se avessi tenuto atteggiamenti, durante tutte quelle lezioni, che l'avevano portato a nutrire certi pensieri?

Forse mi ero mostrato deluso, o peggio severo.

Forse non l'avevo messo a proprio agio, forse avevo detto qualcosa di sbagliato che gli era rimasto ben in testa.

È facile sbagliare con le persone. Anche se stai attento a come ci si pone, a come si parla, a come si gestiscono dialoghi, ci sarà sempre qualcuno con cui si sbaglierà.

Non ci si può mettere nelle menti degli altri e accontentare chiunque.

Per fare il bene si fa il male, e non è sempre detto che lo si faccia di proposito.

«Mi dispiace» sospirai e mi alzai in piedi «ho sbagliato tutto con te».

Cercò di alzarsi, di fermarmi e di ribattere, ma lo misi a tacere con un lungo bacio.

Il suo sapore nella mia bocca era più buono del miele appena raccolto.

«Possiamo riprovare, da capo»

«Kleos, non intendevo dire questo» mi cinse un fianco, mi attirò verso di sé e mi lasciò sedere sulle sue gambe «non è colpa tua... È solo una mia paura. Tengo così tanto a te che non voglio deluderti, lo ammetto, ma non voglio che tu cambi con me».

Gli accarezzai i capelli, presi uno dei suoi riccioli dorati e lo tesi fino a farlo diventare una lunga ciocca, poi lo lasciai andare e lo osservai divertito rimbalzare all'indietro e tornare alla sua forma iniziale.

«Dai per scontato che il nuovo metodo di insegnamento sia peggiore di quello che ho utilizzato fin'ora?» gli rivolsi uno sguardo ammiccante, mi era appena venuta un'idea.

Xanthos parve un poco intimorito, cercava una risposta da potermi dare, ma non la trovava.

La lingua greca così densa di parole non lo aiutava a esprimersi.

«Canta» dissi «canta per me».

Mi guardò negli occhi, cercava un indizio di scherno in loro che non trovò. Ero serio più che mai.

«Che cosa dovrei cantare?».

Presi la lira, gliela porsi.

«Inno ad Apollo, la parte su cui ti sei allenato fino a ora»

«Kleos, sai che non l'ho ancora imparat...»

«Lo so, infatti non ti ho chiesto di cantarla per impararla, ti ho chiesto di cantarla per me» gli presi il mento e lo costrinsi ad avvicinarsi. «Canta per me».

Lo vidi stringere lo strumento fra le dita lunghe e affusolate, mentre un'espressione di coraggio si formava sul suo volto.

Sfioró le prime corde, iniziarono a vibrare note nella stanza non più silenziosa.

«Che Apollo e Artemide dunque ci siano propizi» la sua calda voce risuonava con dolcezza nell'aria calda estiva. «e voi tutte siate felici, fanciulle; ricordatevi di me, anche in futuro, ogni volta che un uomo mortale, uno straniero girovago, e vi chiederà: "O fanciulle, chi è per voi il cantore più dolce che frequenti questi luoghi, quello che vi dà più gioia?"».

Gli baciai il collo e appoggiai la testa contro il suo petto. Chiusi gli occhi, mi lasciai rapire dalla bellezza della sua voce. Non ero più il suo maestro, ma il suo amato, e tale dovevo rimanere.

Nyria quando ero piccolo chiedeva ad Afrodite di trovare qualcuno degno del mio buon cuore. E... che dire? La dea l'aveva ascoltata.

«Rispondete che sono io, dite tutte a una voce».

Xanthos non aveva sbagliato nulla, non una nota, non un'incertezza nella sua voce, no un balbettio, non uno scambio di parole.

Mi si scaldò il cuore a sentire uno degli inni che avevo scritto io, il mio inno, cantato dalla sua splendida voce.

Lo strinsi, il mio corpo parve quasi vibrare insieme alle corde.

«"E' un ragazzo che abita nella scoscesa Chio, dagli scuri capelli come il manto della notte e di cui gli occhi sono le sue stelle».

Aprii gli occhi di nuovo, improvvisamente agguantato e riportato a forza sulla terraferma dalle nuvole, da una mano fatta di consapevolezze.

Il testo non faceva così.

Xanthos si fermò, lo strumento ancora stretto fra le sue mani.

Mi guardò, lo guardai.

«So cosa stai per dire e so anche che il testo diceva "E' un cieco che abita nella scoscesa Chio", ma noi sappiamo bene che non è lui il cantore "più dolce" in questione».

Non sapevo cosa dire, aveva lasciato un aeda senza parole.

Quando scrissi l'inno dedicato ad Apollo, decisi di descrivere Omero come un cieco proveniente da Chio. Una σφραγίς, sfraghís, una firma, che avrebbe contribuito ad attribuire il testo a Omero anche nel tempo a seguire.

Mi ero "cancellato" così bene da quelle righe, da  non aver lasciato minima traccia di me in quel brano, come un'ombra che sguscia via e non ha peso.

Se non fossi stato l'autore di quel testo, non mi sarei di certo accorto del cambio di firma con quelle parole.

Era riuscito a cambiare tutta quella strofa con una precisione incredibile sul momento. Aveva inventato un nuovo pezzo dal nulla rispettando addirittura la metrica e la melodia.

Al momento.

Aveva fatto tutto al momento.

«Ti rendi conto che questa è un'abilità che solo gli aedi più esperti hanno, vero?».

Alzò le spalle:

«Forse...»

«Forse?! σάνναρος, sànnaros, sciocco! Hai cantato perfettamente un testo, senza un minimo errore e hai addirittura inventato una parte da zero, sul momento! E tu credi seriamente di potermi deludere? Cane!».

Si mise a ridere:

«Forse, cantare per amore smuove di più il mio animo, chissà...»

«La tua, ψυχή, psyché?».

Mi baciò.

«La mia psyché sei tu».


🌸Angolino della scrittrice iperattiva e con la bava alla bocca🌸

Premetto che questo meme non l'ho fatto io, ma scorrendo le boiate che seguo su Pinterest mi sono imbattuta in questo disegno.

Il primo pensiero è senz'altro stato: OMMIODIO MA QUELLO E' KLEOS!!!

Il secondo è stato: Kleos è palesemente una principessa.

Insomma piange, è rinchiuso in una stanza, piange, attende il suo infausto destino e il principe (azzurro) biondo, piange, canta, piange e soprattutto: HA IL CARATTERE DA CONDOTTIERO COME MULAN (e piange).

MULAN SEI LA MIA FONTE DI ISPIRAZIONE.

Al prossimo angolino!

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