τάλαντον
Tàlanton: il talento era una moneta greca, la più preziosa fra tutte. Il suo peso si aggirava all'incirca verso i ventisei chili. L'espressione "avere talento", deriva proprio da qui: chi in antichità possedeva uno o più talenti era considerato molto ricco. Secondo calcoli un poco approssimati, un talento oggi avrebbe il valore di circa 600'000 euro. Se volete regalarmi un talento siete liberi di farlo, grazie <3
Omero era una leggenda.
All'epoca nessuno poteva definirlo in altro modo.
Omero era da sempre stato misterioso per me. Tutti non facevano che parlare di lui con orgoglio bruciante in petto e lo sguardo fiero. Tuttavia era difficile per me comprendere appieno il perché della loro così alta ammirazione nei suoi confronti.
Erano sei anni che ero al mondo in quella casa e mai avevo visto Omero con i miei occhi, era solo un continuo sentirlo nominare, sempre, ovunque, così tante volte che ormai avevo iniziato a ritenere che il vino abbondasse troppo in tavola e che gli omeridi avrebbero dovuto iniziare a bere più acqua.
Omero per me non esisteva. Era solo una figura mitica che viveva nelle loro menti. Era impossibile che qualcuno possedesse così tanta fama in quella casa senza essere lì presente, nemmeno per un millesimo di secondo.
Un giorno posi a Nyria le mie domande, nella speranza che lei mi rispondesse con ciò che io volevo sentire: no, hai ragione, Omero non esiste.
Nyria sedeva al telaio a filare, io scribacchiavo su un pezzetto di pergamena qualche strofa di un inno ad Artemide che mi era stato commissionato dal mio maestro.
Appena le posi la domanda che mi pesava per la mente lei levò lo sguardo dal telaio e lo rivolse a me. Nei suoi occhi c'era sempre quella traccia indelebile di tenerezza che tutte le volte mi avvolgeva il cuore e mi faceva sentire amato.
Sorrise e io non capii perché lo fece.
D'un tratto mi pentii di averle rivelato i miei dubbi. Mi sentivo uno sciocco: avevo davvero posto quella domanda?
«Oh Kleos, adoro la tua perenne voglia di mettere in dubbio le cose per poi verificarle da te. Ma, credimi, Omero esiste. Eccome se esiste! L'ho conosciuto io stessa».
Feci cadere lo stilo sulla pergamena, iniziai a scrutarla.
«Ma com'è possibile che una persona non venga a far visita alla sua famiglia? Dopo più di sei anni? Non gli manca la sua patria?».
Mentre lo dicevo una consapevolezza si fece strada in me: mia madre aveva impiegato quattro anni per presentarsi a me sotto forma di luce e da quel giorno non si era mai più presentata a me, nemmeno come un lieve bagliore, quindi perché avrebbe dovuto farlo Omero?
Nyria sospirò, congiunse le mani in grembo e si morse il labbro inferiore.
«Sì, a Omero manca la sua patria. E' lui ad aver creato gli omeridi, è lui l'esponente maggiore, ma è anche il poeta più conteso dagli aristocratici ed è in perenne viaggio».
Il pensiero di mia madre non abbandonava la mia mente, iniziai a mordicchiarmi un'unghia per il nervosismo.
A parer mio, se una persona prova davvero affetto nei confronti dei suoi cari, tornerebbe correndo da loro alla prima occasione, ma questo non lo dissi. Capii che nei miei pensieri, nelle mie parole, c'era anche l'amarezza di dover ammettere a me stesso che la situazione con mia madre era molto simile, se non uguale, a quella di Omero e la sua famiglia.
Omero aveva dato vita al gruppo degli omeridi e aveva costruito quella casa con le sue stesse braccia e ora era libero di mostrare il suo talento a tutta la Grecia, Calliope aveva dato vita a me e ancor prima di me altri e ora era libera di starsene sull'Elicona a invasare poeti e a cantare insieme ad Apollo.
Non c'erano molte differenze fra i due e io lo sapevo bene, per quanto lo detestassi.
Nyria sembrò percepire i miei pensieri e mi diede un abbraccio. Quando mi abbracciava i pensieri volavano lontano e io tornavo felice alla mia vita da bambino.
«Che sia beata colei che Afrodite aurea sceglierà come erede del tuo buon cuore» mi accarezzò una guancia e tornò al suo lavoro.
Continuai a pensare a ciò che Nyria mi disse in continuazione, almeno fino a quando, rileggendo, mi resi conto di aver trasformato l'inno per la dea Artemide in un inno per la dea Afrodite.
Mi augurai che Artemide non mi scagliasse contro maledizioni per averla in qualche modo messa da parte.
Il mio maestro non se la prese troppo per il "cambio" improvviso di ispirazione, sebbene avesse chiesto un inno ad Artemide apposta per la festa sacra dedicata a lei e che si sarebbe tenuta in città da lì a pochi giorni.
Da quando iniziai anch'io a frequentare le lezioni in quella casa, dopo la mia esibizione che andò a rivelare le mie origini divine, notai negli omeridi un radicale cambiamento nel modo di trattarmi.
Prima non mi degnavano di uno sguardo, facevano finta quasi che non esistessi e al mio passaggio, se non mi scansavo, avrebbero potuto tranquillamente tramortirmi e trascinarmi per metri e metri prima di accorgersi di me. Da quell'episodio, invece, avevo notato come gli sguardi di quelle persone colassero sul mio corpo come miele su un pezzo di pane.
Iniziarono addirittura a invitarmi, di tanto in tanto, al loro tavolo durante i pasti e qualche volta mi lasciavano esibire dopo cena insieme ad altri omeridi.
Nessun bambino di età inferiore ai dieci anni, prima di me, aveva mai preso parte a un'esibizione fianco a fianco dei migliori poeti di quella casa.
Iniziai a sentirmi importante, ma una parte di me si sentiva anche un poco violata.
Non che gli omeridi avessero cattive intenzioni nei miei confronti, ma da bambino, da bambino che non aveva mai ricevuto così tante attenzioni prima di allora, mi pareva tutto troppo strano e privo di senso.
Poi però mi ricordavo della mia discendenza e della mia bravura in quell'arte e le mie insicurezze svanivano.
Partecipavo regolarmente alle lezioni insieme a Pirro. Il suo maestro, un uomo scorbutico sulla quarantina d'anni, ci inculcava lezioni su lezioni di oratoria, musica, canto e retorica.
Ma Pirro era lento, o meglio, io ero veloce a imparare e ben presto il nostro maestro ritenne opportuno separarci.
Passai quindi nelle sapienti mani di Tassos, il maestro incaricato di insegnare ai ragazzi più grandi, che allora avevano il doppio dei miei anni.
Tassos vedeva in me una fonte inesauribile di curiosità ed energia. Volle a tutti i costi creare lezioni private tutte per me solo per sentirmi cantare e comporre testi al momento, da lui definiti sublimi.
«Kleos, hai la benché più minima idea di ciò che le parole possono fare?».
Sedevamo ai piedi di un olivo, io con la lira in mano, lui con una pagnotta ancora calda da forno mezza morsicata.
A quella domanda non seppi che rispondere, anzi, di risposte ne avevo fin troppe, ma non sapevo quale fra quelle scegliere.
Davanti alla mia esitazione, Tassos sorrise e con lo sguardo percorse la linea dell'orizzonte che si congiungeva al mare, come un perfetto matrimonio tra il cielo e l'acqua.
«Possono incantare le persone, farle sentire importanti, ma anche distruggerle e ferirle peggio di una spada. Quello che subì l'eroe Ettore ce l'hai ben presente?»
«L'eroe che le leggende parlate descrivono come protettore dell'antica Ilio?»
«Esattamente, ne abbiamo parlato qualche giorno fa. Ecco, Ettore, non solo ha dovuto sopportare la morte dolente inflitta da Achille, ma ha anche affrontato faccia a faccia le parole della moglie disperata e consapevole di diventare vedova. Puoi immaginare il dolore che quell'uomo ha dovuto subire?».
Rimasi immobile, non riuscivo ben a comprendere dove Tassos volesse andare a parare. Non scossi la testa né annuii.
«Le parole che la moglie di Ettore, Andromaca, per quanto dolci erano anche dure. Lo implorò di rimanere al suo fianco e di non fronteggiare Achille. Gli disse che lei ormai aveva perso tutto, i fratelli, il padre e la madre. Tutto ciò che le restava, oltre al suo bambino, era lui. Lo accusò di non amarla definendosi sciagurata». Mangiò un pezzo di pane e lo masticò a lungo, prima di ritornare a parlare. «Ettore si è così ritrovato a dover convivere con il peso delle parole di sua moglie, entrambi consapevoli che lui non avrebbe mai più fatto ritorno, se non come anima. Capisci quello che intendo?».
Annuii lentamente, anche se non ero completamente certo di aver afferrato il concetto così appieno. A volte Tassos dava i numeri e diceva cose un po' fuori contesto che non tutti ben capivano, ma io mi sforzavo tutte le volte di capirlo fino in fondo e questo a lui piaceva.
«Kleos, hai un grande dono, promettimi che non lo userai per ferire qualcuno. La gente soffre per le parole, sono taglienti. Promettimi che utilizzerai il tuo dono solo per fare del bene, per aiutare chi ti circonda e per illuminare con la tua luce brillante il buio che prima o poi sovvrasterà tutti».
Mi appoggiai meglio al tronco dell'albero, posando la lira a terra.
«Lo prometto».
Sorrise e non appena lo fece una delle prime farfalle primaverili volteggiò due e tre volte nell'aria prima di posarsi su un ciuffo dei miei capelli neri.
«Un'anima è venuta a trovarti» osservò Tassos, indicando l'insetto con l'indice
«Un'anima?» ripetei io, certo di aver compreso male.
Tassos annuì convinto e con un lieve tocco fece levare la farfalla in aria fino a quando non volò lontano, sparendo dalla vista di entrambi.
«ψυχή significa sia anima che farfalla» disse
«Come mai?» chiesi.
Finì il pezzo di mane e si alzò in piedi, spolverando la tunica con le mani.
«Te lo dirò domani, intanto tu pensaci questa notte, va bene?».
Annuii e lo guardai allontanarsi fino a sparire, proprio come aveva fatto quella farfalla dalle ali bianche come il latte più puro.
Rimasi all'ombra di quell'ulivo a rifletterci fino a quando non divenne sera, mi arresi e rientrai in casa.
Nyria mi vide pensieroso e mi chiese premurosa se stessi bene. Mi sfiorò la fronte per accertarsi che non avessi la febbre. Ma di febbre non ne avevo, né stavo male. Era la sete di conoscenza a rendermi "malato".
Non seppi mai la risposta, Tassos l'indomani non si risvegliò. A soli trent'anni spirò nel sonno. Si diceva fosse malato da tempo.
Io, in un certo senso, pensai sempre che lui sapesse bene il giorno in cui sarebbe morto e aveva deciso di tenermi in sospeso e farmi conoscere quella maledetta risposta solo tempo dopo, appositamente.
Non riuscii mai a scordare l'immagine di quell'uomo e di quelle briciole di pane incastrate fra i peli della sua barba scura, anche se nei miei sogni non venne mai a farmi visita.
***
Presi una decisione: scrivere la storia di Ettore, così come Tassos me l'aveva raccontata. Volevo rinchiudere quel brandello della sua anima scampata all'Ade nelle parole che descrivevano il dolore di Ettore dall'elmo ondeggiante e della sua povera moglie Andromaca.
Tra il dolore di marito e moglie, segretamente, ci mischiai il mio.
Non riuscivo a sopportare la vista del mio nuovo maestro senza pensare per un breve istante alla figura snella di Tassos, seduto su uno sgabello con le gambe incrociate e gli occhi vispi che brillavano ogni volta che aprivo bocca.
Con Tassos io ero speciale, e non perché ero il figlio di una Musa, ma per i miei pensieri e la mia bravura.
Quando moriva un membro di quella grande stirpe, gli omeridi celebravano i funerali con gare di canto, banchetti e giochi sportivi in onore del defunto.
I parenti più stretti lasciavano sulla pira, prima di bruciare il corpo, fiori secchi e lo strumento che era solito a suonare, cosicché nell'Ade potesse averlo sempre con sé e distinguersi dalle altre anime per essere un poeta.
Tassos non aveva parenti se non solo una figlia di otto anni, avuta da una moglie morta di parto.
Al funerale di suo padre Creia non pianse una singola lacrima. Lasciò sulla pira accanto al corpo lavato e avvolto con cura in bendaggi dalle ancelle la cetra del padre e la guardò bruciare, da lontano, con occhi spenti.
Per il resto del giorno Creia scomparve, nessuno si chiese dove fosse andata a cacciarsi.
L'unico a degnarsi di cercarla fui io. Condividevamo lo stesso dolore, Tassos per me era una sorta di padre.
La ritrovai, dopo averla cercata per un bel po', seduta a gambe incrociate sotto il grosso tavolo della sala del banchetto.
Piangeva, fu la prima volta che la vidi piangere quel giorno.
«Posso restare qui con te?» le chiesi, ma lei scosse la testa, continuando a stillare dolci e tiepide lacrime dai suoi occhi neri come la notte.
Non avevo mai interagito con un essere femminile che non fosse Nyria o qualche ancella. Le bambine della casa degli omeridi non avevano diritto di partecipare alle lezioni e avevano un'educazione speciale a loro dedicata.
Mangiavano e dormivano in altre sale rispetto alla nostra e anche nei momenti di svago se ne stavano sempre per i fatti loro.
Conoscevo i loro nomi solo per sentito dire.
«Perché no? Io voglio starti vicino»
«E io non ti voglio» ringhiò «mio padre era tutto quello che mi restava e ora Ade se l'è preso. Non ho bisogno del moccioso figlio di Calliope per tirarmi su il morale».
Mi stupii. Quindi anche le ragazzine, sebbene non mi avessero mai rivolto la parola, sapevano chi fossi?
«Anch'io non ho più nessuno» sospirai «so come ci si sente a ritrovarsi scaraventati su questa terra e dover avanzare da soli, che sia su una strada sterrata o nel fango».
Non riuscii a scorgere il volto di Creia, era nascosto da numerosi ricci di un castano identico a quello del suo ormai padre defunto.
Mentre mi allontanavo da lei ormai rassegnato, dentro di me mi resi conto che non potevo comprenderla appieno: io avevo un futuro luminoso davanti, lei si sarebbe ritrovata, fra qualche anno, a dover sposare un uomo forse molto più vecchio di lei e a fare figli su figli.
Prima che potessi uscire dalla sala, Creia mi chiamò per nome e mi arrestai.
Adorai il modo in cui pronunciò Kleos: con l'accento ben marcato e quel filo di voce sussurrato. Mi implorò di restare e mi fece spazio accanto a sé invitandomi a sedere con un gesto della mano.
Aveva cambiato idea in fretta.
Rimanemmo a parlare fino a notte inoltrata, non solo dei bei momenti passati con Tassos, ma anche delle nostre passioni e dei nostri sogni.
Scoprii che amava ballare e che sognava di lavorare come danzatrice nei corti più prestigiose al fianco di Omero.
Anche lei venerava quell'uomo misterioso, mentre ne parlava le lacrime scomparvero per poco dal suo volto.
Mi domandai di nuovo come fosse possibile che quella figura a me ignota suscitasse tutta quella ammirazione.
Ormai la luna risplendeva alta nel cielo per mano di Artemide saettatrice. Poco prima di tornare ognuno nelle proprie stanze, Creia fece qualcosa di inaspettato: mi baciò. Fu il mio primo bacio.
Le mie labbra premute contro le sue, le sue mani strette intorno alle mie scapole, il profumo di fiori che riempiva le mie narici, forse di quelli stessi fiori che aveva gettato sulla pira accesa di suo padre. Non riuscii mai a levarmi dalla testa quel momento.
Tornato a letto rimasi con gli occhi spalancati nel buio, la mia mente che rielaborava quegli attimi istante dopo istante.
Ero confuso, ma di una sola cosa ero certo: quel bacio mi era stato rubato e non mi era piaciuto per niente.
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