μετάνοια
Metànoia: cambiamento di opinione, in generale il pentimento.
I giorni passarono e la stagione mutò, l'estate in cui compii vent'anni lasció spazio all'inverno e l'inverno alla primavera. Le lettere di Xanthos si accumulavano sempre di più e divennero una pila davvero consistente.
Le conservavo rilegate con un laccetto di cuoio sul fondo di un baule, ben nascoste dai miei abiti puliti.
Anche se i servi avessero aperto quel baule, non avrebbero trovato le lettere al primo colpo e così gli eventuali ficcanaso.
Ero estremamente geloso delle parole di Xanthos, ma anche impaurito che qualcuno scoprisse il nostro segreto: le parole, gli epiteti e il registro che utilizzavamo non era di certo quello usato da due amici, presto tutti avrebbero compreso che eravamo amanti dannatamente innamorati l'uno dell'altro.
Mi chiesi come l'avrebbe presa Omero se ne fosse venuto a conoscenza. Mi venne quasi da rigettare al solo pensiero e troncai presto la mia immaginazione.
Lui che tanto mi considerava come un suo oggetto personale, se solo avesse scoperto che il mio cuore e la mia anima appartenessero a un altro, mi avrebbe fatto a pezzi, o peggio, avrebbe potuto fare del male a Xanthos.
Non gli avrei mai permesso di torcere al mio amato un solo capello.
Come una madre con i suoi cuccioli lo avrei protetto infischiandomene delle ferite e di tutto il resto. Sarei riuscito a trarre la forza dal suo singolo sguardo, così come ne traevo dalle lettere che mi mandava.
Non c'era sensazione migliore di poter ammirare il timbro di Alicarnasso e sentire il sigillo aprirsi con uno strappo veloce. L'odore della pergamena che quasi si mescolava a quello del metallo della collana che lui mi aveva donato.
Pensare che quella stessa pergamena era stata toccata e lavorata dalla sua morbida pelle, mi faceva impazzire e riusciva a farmi scordare dei miei problemi.
C'era Xanthos in quelle lettere e non vedevo l'ora di poterlo avere con me tutte le volte.
Così le giornate passavano, una dopo l'altra, ad attendere l'arrivo della sua lettera che mi avrebbe aggiornato su tutto: dal suo stato di salute alla guerra.
Non era partito, fortunatamente, il suo patrigno si guardava bene da mandarlo a morire, consapevole che il suo unico figliastro non fosse molto bravo con la spada, ma il Tiranno di Alicarnasso, suo zio, ancora non voleva congedarlo e lasciarlo tornare da me, nella nostra isola felice.
Entrambi non ne capivamo davvero il motivo e ogni lettera che passava in cui mi diceva che non sarebbe tornato, l'odio nei confronti di suo zio aumentò ancora di più.
Mi chiedevo più volte in una giornata quando sarebbe arrivata quella cinquantesima lettera che avrebbe portato indietro il mio amore, e più il numero di lettere aumentava più il mio cuore cercava di trattenere la speranza. Anche se, in una remota parte di me che non volevo accettare, sapevo, e al contempo temevo, che non sarebbe giunto da me subito dopo l'arrivo della cinquantesima lettera.
Così i giorni scorrevano lenti, tra intere mattinate passate al molo in attesa di qualche lettera a pomeriggi dedicati alla stesura del nuovo poema: le avventure di un uomo così intelligente da aver oltraggiato Poseidone viaggiando in lungo e in largo per sette lunghi anni.
Il distruttore di Ilio, Nessuno, signore di Itaca.
A Omero piacque molto la mia nuova idea ed entusiasta pretese che gli consegnassi almeno un canto ogni dieci giorni.
Una cosa abbastanza fattibile, un canto lo scrivevo nella metà dei giorni richiesti.
Ebbi come l'impressione che Omero, negli ultimi tempi, si fosse ammorbidito, o meglio, che mi avesse lasciato andare.
Avevo molta più libertà dal momento che lui era impegnato con Esiodo.
La cosa non mi dispiacque affatto, anzi, iniziai a nutrire una profonda "stima" nei confronti di quel bugiardo: lui si accollava i problemi di quel vecchio orgoglioso, mentre io me la spassavo e tiravo un po' il fiato dai miei innumerevoli impegni.
Ormai Omero aveva occhi solo per lui e la maggior parte del suo tempo lo spendeva in compagnia di quell'uomo.
Non parlai mai con Esiodo se non una singola volta, mentre ero diretto nella stanza di Omero con del nuovo materiale scritto. Lo urtai mentre camminavo con la testa bassa, non l'avevo minimamente visto.
Gli chiesi scusa e feci una sorta di inchino, ci fu un rapido scambio di sguardi che non durò molto. Mi perdonò e continuò per la sua strada, non ci dilungmmo in altri discorsi.
La sua voce era un poco roca e profonda, me lo immaginai cantare con una voce simile e poi raccontare bugie ai suoi ammiratori.
Mi vennero i brividi.
Xanthos mi aveva così tanto terrorizzato sul suo conto da tenermi ben alla larga da lui.
Quando lo raccontai a Xanthos in una lettera, mi rispose che ciò lo rendeva molto più sereno e tranquillo.
Più gli stavo lontano e meno rischi incorrevo.
***
Arrivó una lettera per me la mattina presto di una primavera dal fresco vento e dall'odore floreale.
Con mia sorpresa scoprii che non si trattava di una lettera di Xanthos, ma di Pirro.
Era da tanto che non mi scriveva, il numero delle sue lettere era meno della metà di quello di Xanthos.
Le ultime lettere non parlavano bene della guerra, le sue parole erano dure e lasciavano trasparire tutta la sua frustrazione e, conoscendolo, anche il suo pentimento.
Si scusava tutte le volte di non riuscire a scrivermi più spesso e mi assicurava che leggeva tutte le lettere che gli mandavo.
Lo facevano sentire meno solo, a quanto pare tutti gli amici che si era fatto sul campo di battaglia erano morti.
Presi un grosso respiro e aprii la lettera, il foglio era un poco stropicciato e leggermente sporco di terra, la calligrafia di Pirro saltava subito all'occhio e riuscì a farmi un poco sorridere: mi mancava vederlo scrivere, mi mancava averlo proprio accanto.
Caro amico,
dopo tanto tempo finalmente riesco a scriverti e, fidati, per me questa è una liberazione.
Ormai qui non parlo più con nessuno, instaurare legami per poi vederli morire sul campo di battaglia tra lance, frecce e spade non fa che erodere sempre di più l'interno del mio corpo.
Sono cavo ormai, cavo e solo.
E' terribile, Kleos, terribile. So che non vedrai l'ora di dirmi "te l'avevo detto", ti conosco molto bene, ma ho bisogno di dirtelo a te più di chiunque altro: ho fatto una stupidaggine.
Kleos, tu non sai cosa ho visto con questi miei stupidi occhi! E no, non parlo del sangue, parlo di scene peggiori che ti risparmio, non voglio passarti gli stessi incubi che ormai da notti e notti mi perseguitano.
Non hai idea di quanti uomini io abbia ucciso e di ciò che le mie mani siano riuscite a fare nel corso di questi giorni. Mi vergogno di questo, Kleos, mi sento un mostro.
La guerra non è come la descrivono gli aedi, come la descrive Omero nei suoi poemi. Mi hanno ingannato, mi hanno fatto credere che mi sarei potuto guadagnare la gloria che tu porti nel nome, che sarebbe stata una sfida perfetta per me, invece... Invece è più terribile di quanto sia stata mai descritta dal migliore fra i cantori.
É fatta di tanto sangue Kleos, sangue, lacrime, grida disperate, fame e sete.
Non voglio allarmarti o spaventarti, ma credo sia giusto riferirtelo, non voglio mentirti: qui le cose si stanno mettendo davvero male.
Stiamo perdendo, Kleos, questa é la dura verità. Il nostro esercito è decimato, le razioni di cibo stanno finendo e non riesco a lavarmi da giorni. Il sonno non é mai dolce, le anime di coloro che ho ucciso mi tormentano tutte le volte che la luna sorge e le mie palpebre calano. C'é grande sconforto, qui, i soldati periscono come sassi lanciati nel mare, sassi che toccati una volta da una mano meschina, giacciono per sempre sul fondale e non vengono mai più sfiorati.
Vorrei tanto tornare a casa, amico mio, ma non posso, non posso abbandonare lo scudo, lasciare che il disonore mi divori.
Ho già ferito il mio vecchio padre, non posso portare vergogna alla sua rispettabile figura.
Siamo già in pochi e siamo anche deboli, nessuno si azzarderebbe mai a mollare tutto e ritornarsene in patria.
Abbiamo sentito dire che probabilmente stanno arruolando nuovi alleati, vengono da tutta la Grecia: dall'Anatolia, l'Attica, il Peloponneso, l'Asia Minore e le isole.
Sarebbe una bella notizia poter vedere altri compagni, riuscirebbero a ridarci la forza e la speranza perduta.
Ora devo andare, ho anche esaurito lo spazio, i fogli qui vanno usati con estrema parsimonia.
Abbi cura di te e non struggerti sul mio infausto cammino. L'ho voluto io e ora ne pagherò le conseguenze.
Continua a scrivermi spesso e raccontami di Chio, mi mancate tutti quanti.
Con affetto
Pirro
Abbassai la lettera, un nodo in gola mi impediva quasi di respirare. Quello che riuscivo a vedere era solo una coltre oscura in cui al centro c'era Pirro, irriconoscibile, con i capelli lunghi, il corpo imbrattato di sangue e terra, gli occhi rossi e il fiato impazzito che caldo usciva a nuvole nell'aria gelida di un accampamento vuoto in preda alla fame e alla disperazione.
In quel momento, più di ogni altra cosa, desideravo salpare e andare da Pirro, prenderlo a forza e riportarlo qui, al sicuro.
Non mi importava di riempirlo di vergogna, non mi importava che i suoi compagni l'avrebbero visto come uno sporco traditore, volevo che stesse bene, in salute, nella sua casa natale circondato dall'affetto dei suoi cari.
Lo volevo lì, subito, volevo curare le sue ferite, assicurarmi che mangiasse adeguatamente e che dormisse sereno.
Mi sentivo impazzito, volevo picchiare qualsiasi cosa, sentire il dolore espandersi sulle nocche, volevo che il destino, in qualche modo, sapesse ciò che causava alle persone.
La guerra era così stupida... Gli uomini erano così stupidi.
Ridono tanto quando un bambino fa i capricci per un giocattolo di legno e poi litigano per un pezzo di terra.
Era stupido, e io stesso mi sentii stupido per aver scritto della guerra senza sapere nulla.
L'Iliade mi pareva d'un tratto un fiasco. Come avevo potuto credere che la guerra fosse così? Era irreale, la vera guerra era peggio di qualsiasi altra storia di guerra inventata.
Ciò che mi raccontava Pirro era il pazzo ed enorme mondo di cui io avevo conosciuto solo un pezzo.
Pregai gli dei del cielo affinché proteggessero Pirro, chiesi a mia madre di curarlo dagli incubi con il suo canto e la sua dolce voce, gli occhi rivolti al cielo e le mani congiunte in una posa quasi sofferente.
Sentii un lieve caldo al petto: mi aveva ascoltato, sentivo sempre una tiepida connessione con lei che mi scaldava tutte le volte che mi sentivo perso.
Sospirai, la rabbia svanì come giunse il tepore.
«Grazie, madre».
Mi alzai, riposi con cura la lettera di Pirro insieme alle altre nel cassetto del mio scrittoio. Gli avrei risposto dopo, in quel momento non potevo. Era ormai ora di cena, l'odore del buon cibo aleggiava nell'aria e richiamava il mio appetito.
Non volevo tardare ancora, volevo evitare l'ennesimo battibecco con Omero, l'ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era sentire la sua voce tuonante rimbeccarmi per la mia "disubbidienza".
Scesi, il salone si stava riempendo di persone, Esiodo se ne stava al suo posto, ma ancora mancava Omero.
"Dice tanto di me, ma lui commette i miei stessi errori" pensai infastidito "Ma lui può, perché è Omero, io sono solo il suo sciocco aiutante che lo rende tanto famoso".
Presi posto, scoccai un'occhiata a Esiodo senza farmi notare. Invisibile ero per gli altri e tale dovevo rimanere per lui, specialmente per lui.
Si versò una cospicua quantità di vino nel bicchiere e prese a berlo con foga.
Mi tornò alla mente una delle cose che Xanthos mi scrisse in una delle lettere successive agli avvertimenti su Esiodo: amava bere, eccome anche, a volte cadeva così ubriaco da poter dormire per giorni.
Così accadde quando fu ospite dalla famiglia di Xanthos: bevve vino a volontà fino a perdere completamente ogni canone di pensiero, ogni filtro, ogni opinione.
Iniziò a biascicare parole, a tirare insulti contro chi non gli andava a genio e a dire sconcezze di ogni genere. A vederlo non fu il Tiranno né tanto tantomeno suo padre e Xanthos stesso, furono in parte Sirno (che raccontò la storia a Xanthos) ma soprattutto i servi della casa.
Alcuni di loro avevano rischiato di ricevere anche delle batoste da parte di quello squilibrato ubriacone, ma nessuno di loro aveva avuto il coraggio di lamentarsi con il proprio padrone e alla fine avevano taciuto la cosa.
Fu Xanthos, insieme a Sirno, a tirar fuori di bocca le parole alla servitù.
Dissero che due di loro erano stati percossi con qualche manata e una donna, di cui non venne fatto nome, venne abusata.
Quando lessi quelle cose, mi salì una nausea tremenda, non riuscivo più a guardare quell'uomo se non con disgusto.
Era ripugnante: un ripugnante ubriacone bugiardo, ecco cos'era.
Smisi di guardarlo, nel mio corpo si muoveva il ribrezzo, i miei occhi tornarono a scrutare il vuoto davanti a me.
Servirono pollo, formaggio e pane al miele, divorai tutto in poco tempo, non per fame, per noia.
Ultimamente non ne avevo mai molta, pareva quasi che il mio corpo non avesse più bisogno del sostegno del cibo, poteva andare avanti anche da solo.
Come un dio avevo bisogno solo del nettare e solo quello desideravo con tutto me stesso.
Il mio nettare, il mio Xanthos. Mi mancava poter sentire il suo sapore, le sue labbra dolci come la frutta estiva matura, la sua bocca che riusciva a dissetarmi e farmi scordare dell'esistenza dell'acqua.
Alzai di nuovo lo sguardo: Omero era arrivato, stava ancora mangiando, ogni tanto conversava con Esiodo e gli altri. Era serio, non pareva sorridere e questo mi fu abbastanza strano.
Continuai a osservarli, oramai mi interessavano più loro di tutto il resto.
Esiodo si riempì il bicchiere, Edone parlò con Omero, Omero annuì e disse qualcosa a Edone a denti stretti. A quel punto Edone assunse un'espressione strana, quasi spaventata, parlò con Meino che parlò a Camilio. Esiodo si riempì ancora il bicchiere, bevve, bevve ancora e parlò, parlava un sacco. Sorrideva, rapito dall'ebrezza e si riempì ancora il bicchiere.
A ogni sorso divenivo sempre più preoccupato, il vino che scendeva come una piccola cascata nel bicchiere di quell'essere d'un tratto pareva essere così scuro, quasi nero. Assomigliava al caldo sangue di una ferita aperta e molto profonda.
Omero parlò a Esiodo, che non gli rispose, anzi, si versò ancora, per l'ennesima volta, un altro bicchiere di vino.
Mi guardai attorno, cercai di scorgere altre persone che si fossero accorte di ciò che stava accadendo, del clima che si era formato fra quelle persone.
Non prometteva nulla di buono e io lo sentivo, iniziai ad agitarmi.
Cercai lo sguardo di Omero, ma mi ignorò completamente.
Fui tentato di alzarmi, andare lì, trovare una scusa per assicurarmi che tutto andasse bene, ma quale scusa avrei potuto utilizzare?
Allora mi domandai il perché, perché volessi sapere ciò che stava succedendo.
Non mi importava di Omero, non volevo proteggerlo, lo odiavo anche se ancora una parte di me faticava ad ammettere che mi importava di lui.
Io volevo sapere perché, purtroppo, i problemi di Omero diventavano i miei.
La cena si concluse, arrivó il momento che qualcuno si esibisse e quel giorno toccava proprio a Omero con uno dei nuovi brani del poema che stavo scrivendo.
Mi era stato con il fiato sul collo affinché lo finissi entro quella determinata sera e con tanti sacrifici e sforzi di mente ero riuscito a procurarglielo.
Ero curioso di sentire come l'avrebbe cantato.
La mia mente si era scordata completamente di Esiodo e della sua passione per il vino, ma la cosa durò poco, molto poco.
Fu proprio in quel momento che accadde il delirio, l'inizio di una serie di sventure che mi avrebbero trascinato con loro trattenendomi per le caviglie.
Esiodo rubò la scena a Omero.
No, non fu terribile, fu peggio, molto peggio.
Omero fece per alzarsi, un po' a fatica, colpito dagli acciacchi della vecchiaia, quand'ecco che lui, quel maledetto, gli passò davanti, disinvolto, e si sedette sullo sgabello al centro del salone, lo sgabello che spettava a Omero.
Ci fu un momento di sgomento da parte di tutti: nessuno, mai nella vita, aveva mai osato rubare la scena a qualcun altro, figurarsi al "grande" Omero.
Erano tutti così sconvolti che nessuno osò muoversi, immobili nel loro sconcerto, gli occhi fissi su Esiodo.
Tranquillo si sedette e si prese tutto il tempo necessario per scaldare la voce. Non aveva strumenti, usò il battito delle proprie mani per tenere il ritmo.
Bastava la sua voce a creare una melodia, non aveva bisogno di strumenti e questo, quasi a malincuore, lo trovai sublime.
Per quanto fosse un ignobile bastardo, ci sapeva fare.
Cantò di pace, di amore, di vita.
«Le rondini volano nel cielo, le stelle guidano i cuori dispersi, il vento accarezza chi non ha mai conosciuto l'amore, chi nell'odio ha trovato la sua sconfitta. Lavate il sangue! Non spargetelo! Le ferite si possono rimarginare, le voragini ricoprire, non accentuatele! Siate timonieri dei vostri destini e salvate chi nella nebbia profonda, giorno dopo giorno,si perde. Il fato lo si può creare, ascoltatemi bene! Rivolgete le orecchie al mio canto, lasciatevi guidare, o dispersi! Seguitemi e prestate ascolto alle mie parole, vi porterò dove il sole splende sempre».
Rimasi incantato. Le orecchie rimasero ad ascoltarlo obbedienti, le mani si strinsero fra di loro, quasi per imbrigliare in loro le parole che volavano e leggiadre ricadevano su tutte le nostre teste.
Per tutti gli dei, come ci sapeva fare...
Finita l'esibizione rimase seduto sullo sgabello, tranquillo, il corpo che oscillava leggermente per via di tutto quel vino.
Nessuno osava parlare, muoversi, respirare... O forse... Forse non tutti.
«Tu! Come hai osato?!».
Ci voltammo tutti di scatto, tremai, non avevo mai sentito Omero urlare in quel modo.
Mi rannicchiai, divenni uno scricciolo, avevo paura anche se non ero coinvolto.
Omero avrebbe mai potuto urlarmi contro in quel modo? Con quel grido roco che severo perforava le orecchie e le faceva sanguinare?
Il cuore batteva all'impazzata, gli occhi passavano da Omero a Esiodo in continuazione. Lo sguardo di uno era furioso, l'altro... Sorrideva.
«Oh... Perdonami, era il tuo turno?» il tono di Esiodo era sfottente, mi fece rabbrividire
«Come osi oltraggiarmi in questo modo? Dopo averti invitato nella mia casa! Dopo aver mangiato il mio cibo e aver parlato con Ia mia gente, la mia stirpe! Come osi! Chi sei per poterti permettere di passarmi davanti come se nulla fosse?!»
«Chi sono? Bella domanda...» Esiodo si portò una mano al mento, perso nelle sue riflessioni. In quel momento i suoi occhi ardevano di orgoglio, facevano paura. Non credevo potessero arrivare a essere così. «Oh forse... Forse so chi sono» si alzò, barcollante «io sono Esiodo e sono colui che ti supererà».
La terra cedette sotto ai miei piedi, mi sentii sprofondare. Non ci potevo credere, non potevo credere a quello che aveva detto, così, davanti a tutti.
Gli omeridi erano sconvolti, bisbigliavano tutti e guardavano Esiodo con sguardo orripilato e incredulo.
Nella mia testa le sue parole risuonavano come tuoni: lui era Esiodo, colui che avrebbe superato Omero, che avrebbe superato me.
Ero furioso, nessuno poteva superarmi, nessuno.
Omero scoppiò a ridere, una risata amara, tramante rabbia, non fece che spaventarmi ancora di più.
«Sei arrivato qui solo per dire fesserie davanti alla mia fidata stirpe? Per affermare che mi supererai? Me? Il più grande di tutti i poeti? Fai una cosa: non proferir più altra parola, non c'è nulla di peggiore di affermare il falso con tutta questa leggerezza»
«Il falso?» questa volta fu Esiodo a ridere «Io non affermo il falso, io proclamo verità. Non ci credi? Te lo dimostrerò. Anzi...» sul viso comparve il sorriso più viscido che io avessi mai visto «Dimostramelo tu, grande Omero, dimostrami quanto tu sia bravo, il più bravo. Salperò domani per Calcide d'Eubea, lì mi è stato chiesto di cantare ai giochi funebri del re Anfidamante. La guerra lelantina se l'è portato via, che la sua povera anima trovi presto pace» mise una mano sul cuore e guardò Omero divertito. «Che ne dici, Omero? Grande poeta! Sfidiamoci! Sfidiamoci in una gara di canto e lasciamo che sia un orecchio esterno a decretare il migliore, mostrami quanto tu possa essere migliore di me e battimi! Che aspetti? Oppure... Oppure vuoi arrenderti e lasciare che ti ingiuri?».
Mi sentii male, mi venne quasi da svenire, il cuore mi batteva così forte in petto che pensai presto che si sarebbe presto staccato da me.
La guerra lelantina, la stessa a cui stava partecipando Pirro, alleato dei Calcidesi. La stessa guerra che voleva portarsi via anche il mio amore, la stessa che mi aveva fatto penare e piangere per giorni e notti, notti e giorni.
Quel re morto in battaglia, era il re dei Calcidesi, colui che aveva richiesto alleati in tutta la Grecia, tra cui coloro per cui nutrivo un bene infinito.
Non poteva essere, era tutto un incubo, uno sciocco incubo, mi sarei presto svegliato in una mattina d'estate nel mio letto, madido di sudore, accanto al mio dolce Xanthos e le paure sarebbero tutte passate, mi sarei scordato presto di tutto... Tutto. Tutt-
«Affare fatto» Omero sorrise, si avvicinò a Esiodo e gli strinse la mano.
Era fatta. Omero sarebbe partito per Calcide e avrebbe gareggiato contro Esiodo.
E io, sua fedele ombra, avrei dovuto seguirlo, lasciando Chio.
***
«Non posso!» congiunsi le mani in una preghiera disperata «Ti scongiuro!»
«Non è tempo per le lacrime!» Omero stava sistemando alcuni effetti personali in dei bauli.
Ero nella sua stanza, accasciato al pavimento, un fiume di lacrime imbrattava il mio viso e non riuscivo a fermarmi.
L'avevo raggiunto io stesso, dopo cena, nella sua stanza. E quel che mi disse mi portò a quelle condizioni: stupido e vulnerabile inginocchiato ai suoi piedi.
«Salperai con me per Calcide, ti è chiaro? Scriverai per me, ho bisogno di testi nuovi, freschi, che nessuno abbia mai sentito. Devo vincere! Tu sei l'unico che può far sì che questo accada».
"Devo vincere IO", avrei voluto dire, ma riuscii a trattenermi a stenti.
«Non posso lasciare Chio, la profezia... Io morir...».
Mi prese il viso nella sua mano e strinse, forte, le mie lacrime si mescolarono alla sua pelle rugosa, le guance iniziarono a dolermi in modo mostruoso.
Sorrise, ma era un sorriso tutt'altro che dolce.
«Non dire quella parola, mio amato, tu non morirai».
Mio amato, mi sentii peggio. Il ripudio si fece largo a pugni e calci in me.
Mi aveva già chiamato così tempo fa, quando lo feci infuriare, ma questa volta non c'era Xanthos a proteggermi, ero debole e vulnerabile, esposto ai suoi soprusi .Chi avrebbe potuto mai salvarmi? Nessuno.
«Kleos, non lascerò mai che nessuno ti faccia del male, fidati, starai bene, ci sarò io con te» studiò il mio volto per un attimo e strinse ancora di più la presa. Per essere vecchio ne aveva ancora di forza. «Se siamo distanti il nostro segreto non sarà al sicuro, ma se sarai con me, posso assicurarti che nessuno lo scoprirà mai. Avanti, Kleos, vieni con me, ti proteggerò io».
Non dissi nulla, rimasi immobile, prigioniero della sua volontà e delle sue mani.
«Annuisci» disse secco «ora».
Mi ritrovai a doverlo fare, costretto e senza altre scelte.
Allentò la presa.
«Bravo piccolo Kleos» mi asciugò una lacrima con il pollice, il suo tratto parve rovente sulla mie pelle. «Ora va', prepara i tuoi bagagli, domani mattina, all'alba, partiremo. Buonanotte».
Tornai nella mia stanza, tremante e sconvolto. Non volevo, non volevo lasciare Chio. Sentivo il bisogno di fuggire, prendere il controllo della prima nave e andare ad Alicarnasso, da Xanthos. Solo lui avrebbe saputo trovare delle parole per confortarmi, in quel momento, lui riusciva sempre a farmi bene.
Mi accasciai contro la porta e mi sentii quasi come quella volta in cui baciai Xanthos poco prima di scoprire che era figlio di Apollo. Ero distrutto dentro, non riuscivo nemmeno a distinguere i cocci e non sapevo come aggiustarmi.
Avevo paura e sapevo di non avere vie di scampo.
Il mio segreto non era al sicuro con Omero lontano da me. Aveva ragione, dovevo andare con lui per assicurarmi che lui non aprisse bocca e che nessuno lo scoprisse.
Cosa sarebbe successo se Esiodo ne fosse venuto a conoscenza? Tremavo al solo pensiero.
Qualcuno bussò, mi alzai di scatto dal pavimento e guardai la porta come se fosse sul punto di divorarmi.
Mi feci coraggio, certo che fosse Omero. Probabilmente voleva fare qualche precisazione, lui amava precisare tutto, non voleva essere frainteso da nessuno e avere argomenti contro.
Non fu però Omero a bussare, bensì un servo.
«Vi prego di scusarmi per il disturbo» abbassò il capo «il messaggero è giunto adesso e mi ha chiesto di consegnarvi questa. Vi porge le sue scuse per non avervela consegnata prima, ma era andata persa fra le altre lettere».
Mi porse la lettera, riconobbi subito il timbro di Alicarnasso.
Xanthos! Allora mi aveva scritto!
Ringraziai il servo e chiusi la porta. Nonostante il dolore ero felice: finalmente potevo godermi le parole di Xanthos, mi avrebbe aiutato a superare almeno un poco quel brutto momento.
Quella sarebbe stata la cinquantesima lettera, tenevo il conto ormai da tempo immemore.
Ero emozionato, ancora quella lettera e Xanthos sarebbe ritornato da me.
La aprii, tremante ed emozionato, ma il contenuto non fu affatto ciò che mi aspettavo e già mi ero pregustato.
La lettera numero cinquanta mi distrusse definitivamente:
Lettera numero cinquanta.
Kleos,
non so come dirti tutto questo e ciò mi spezza il cuore. Ho scritto altre centinaia e centinaia di lettere prima di questa perché non riuscivo bene ad esprimermi.
Mi sento meschino e terribilmente in colpa per averti fatto una promessa che non sono riuscito a mantenere.
Mio zio, il Tiranno, è deceduto, il potere è passato al mio patrigno.
E' giunta notizia che i Calcidesi stiano perdendo, il loro re è morto e sono in crisi, stanno cercando altri alleati che possano combattere dalla loro parte.
E' inutile che stia tanto a girarci intorno: sono stato chiamato alle armi e devo partire.
Non ho parole per esprimere il mio dispiacere.
Ti prego, perdonami.
Xanthos
🌸Angolino della scrittrice iperattiva e con la bava alla bocca🌸
Non ho idea di scrivere in questo angolino, so che probabilmente molti di voi mi staranno diando gratuitamente dato che vi facendo sparire personaggi a destra e a manca, MA VI GIURO CHE E' PER LA TRAMA!!!
Perciò abbassate i forconi (sì, anche tu, ti vedo) e non venitemi sotto casa a gridare:
Ah ça ira, ça ira, ça ira! Les aristocrates à la lanterne! Ah ça ira, ça ira, ça ira! Les aristocrates on les pendra!
Perciò abbiate pietà di me, io sono solo un fantasma chill.
Vi lascio TRE MEMAZZI con affetto!
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