κυνώπις
Kunópis: dalla faccia di cane, sfrontato.
«È indecente» sbottai.
La pagnotta di pane ancora tiepida giaceva spezzata nel palmo della mia mano. Un profumo di olive e miele riempiva le mie narici, ma nemmeno quello riuscii a placare un poco il mio animo.
Sedevo vicino a Pirro, stava sezionando per noia la sua pagnotta in tante piccole briciole. Quando Pirro era nervoso non riusciva mai a stare fermo, ma in quel momento ero troppo furioso per poter notare un crescente nervoso in lui.
Era la prima volta, dopo tempo, che riuscivamo a mettere da parte gli impegni e le crepe del passato, passando del tempo genuino insieme.
La stessa emozione che lo pervadeva l'avrei provata anch'io se non fosse stato per Xanthos e gli ordini di Omero.
Per tutta la mia vita non ho fatto altro che farmi accecare dall'ira, la stessa ira che uccideva le altre emozioni in me. Poi però, quando l'ira se ne andava, mi lasciava una tristezza indelebile e il rimpianto di non aver potuto assaporare altri sentimenti oltre a lei.
Era una presenza che come un fantasma di un'anima infelice mi inseguiva e iniettava in me la stessa sua tristezza.
Bruciava il mio corpo fino a farlo divenire cenere, che a sua volta veniva lavata via dalle poche lacrime che mi concedevo.
A volte desideravo solo perdere la memoria per potermi scordare di tutta quella rabbia destinata a ripresentarsi, ogni volta, sotto diverse spoglie. Una rabbia che non poteva essere manifestata: il destino avrebbe prevalso su di lei e con la sua mano l'avrebbe spenta insieme alla mia vita.
Pirro sospirò e annuì senza un valido motivo, come se avesse già capito tutto quel dolore che mi attanagliava, cosa impossibile considerando che nemmeno io lo comprendevo fino in fondo.
«Come mai non ti piace Xanthos?» chiese, i suoi occhi scuri percorsero i miei. Non riuscivo a comprendere se stessero cercando di rimproverarmi oppure di scavarmi dentro fino a estrarre la parte più debole di me. Come un albero dalla corteccia dura ma dal legno morbido.
«Come fai a sapere il suo nome?!» lo dissi con aggressività e me ne vergognai a tal punto di scusarmi a bassa voce con il capo chino. Volevo solo parlare, non iniziare un interrogatorio, ma qualcosa dentro di me premeva quasi per sapere le risposte il prima possibile, come se fossero state di vitale importanza.
Alzò le spalle:
«Mio padre mi ha parlato di lui» disse. «Non ho capito granché, ma pare essere qualcuno di importante»
«Un principe?»
«Forse» diede un morso al pane «l'unica cosa che posso dire con certezza è che gli omeridi tengono a lui in modo quasi morboso»
«Credimi, l'ho notato».
Con la mente ritornai a qualche istante prima: l'atteggiamento di Omero così gentile nei confronti di quello strano ragazzo, il suo modo di parlargli, di sorridere... Era come se quel ragazzo fosse stato fatto di una terracotta così sottile da poter essere rotta con un solo soffio.
E poi la sua esibizione, tutti quegli errori commessi, nemmeno una risata soffusa da parte degli omeridi, come se non avessero riso della minima imprecisione pochi istanti prima.
Il loro falso modo di approcciarsi in maniera gentile a quel ragazzo, nulla a che vedere con i modi sgarbati tenuti nei confronti degli altri poeti.
Tutto, tutto non mi tornava.
«Kleos» Pirro mi riscosse dai miei ragionamenti, passandomi una mano sulla spalla «so che è difficile per te vedere che gli omeridi apprezzano così tanto qualcun altro oltre a te... Ma, vedi, anche solo il fatto che Omero ti abbia scelto come maestro personale di questo ragazzo è simbolo di profonda stima nei tuoi confronti».
Sussultai. Quindi non aveva capito un accidenti.
«Non sono arrabbiato perché non sono più il "favorito", non trovo giusto che venga trattato così solo per il suo buon nome quando è goffo e non ha certo delle basi solide».
Pirro mi rivolse lo sguardo tipico di chi non se la beve. Alzò un sopracciglio e fece un mezzo sorriso.
«Ti conosco, Kleos. Tu detesti chi cerca di superarti».
Sulle prime avrei voluto rispondergli "No, non mi conosci affatto. Perché non sai quello che mi sta facendo Omero, perché non sei nella mia testa. Perché in questi anni sono cambiato e non sono più il bambino infantile e pieno di speranze che ero una volta. Perché tu sarai anche andato avanti con la tua vita, ma io sono rimasto lì nel punto in cui mi hai sempre visto, anzi, forse sono anche arretrato". Presto però compresi che si trattava di una risposta poco educata e poco gentile. Avevo appena cominciato a recuperare il rapporto con lui, non potevo distruggere tutto di nuovo, non me lo sarei mai perdonato.
Rimasi in silenzio e lo detestai. Pareva essere un silenzio di conferma, come quando non si sa più che cosa ribattere e la si dà vinta "all'avversario" rimanendo zitti.
Di cose da ribattere io ne avevo molte, troppe, ma la maggior parte di quelle mi sembrava inappropriata e d'un tratto anche senza fondamento.
Sospirò, mangiò in un solo boccone il resto della pagnotta e prese a masticare con la bocca mezza deformata.
Il silenzio prevaleva su di noi e in lontananza si udivano le onde infrangersi sulla riva e la schiuma scoppiettare sulla sabbia.
C'era stata una burrasca al largo ed in quei giorni il mare infuriato trascinava con sé alghe e altre cose, come pezzi di legno e corde.
«Promettimi una cosa» Pirro interruppe il silenzio, tornò a guardarmi negli occhi, ma io non ebbi il coraggio di ricambiare e rimasi fisso a scrutare l'orizzonte. Non volevo che scoprisse in me una traccia di dolore che non ero riuscito bene a coprire.
Gli occhi non mentono, non sanno farlo, dagli occhi si possono comprendere più cose di quante se ne possano scoprire a parole, e io lo sapevo bene.
Per quanto mi fossi sforzato di tenere un atteggiamento composto e quasi apatico per tutti quegli anni, una parte di me rimaneva scoperta.
Era come se un telo coprisse il mio corpo, un telo fragile che non bastava per nascondermi tutto. Se tiravo da una parte per coprire un buco se ne scopriva un altro e se tiravo troppo forte c'era il rischio che la stoffa si lacerasse, aprendo nuove voragini.
«Me la prometti una cosa?» Pirro insistette e a quel punto cedetti. Tornai a guardarlo, attento a non incrociare troppo il suo sguardo.
«Dipende sempre da che cosa»
«Comprendo il legame che si è formato fra te e Omero. Insomma, ormai lui ti considera come figlio suo, ma...»
«Ma...?»
«Non voglio che tu sia...»
«Maestro?» Pirro si interruppe, i nostri sguardi schizzarono sulla terza presenza giunta in quel momento.
Xanthos era in piedi a pochi passi da noi, il suo linguaggio del corpo faceva facilmente intuire che fosse nervoso. Il modo in cui le sue gambe si stringevano, le mani incrociate dietro la schiena, il corpo che ciondolava un poco.
Non mi fece pena, anzi, non feci nulla per poterlo mettere a suo agio:
«Cosa vuoi? Ti sei preso già la briga di perseguitarmi persino nei posti dove voglio stare tranquillo?»
«So che sei impegnato e detesto disturbarti, ma Omero mi ha mandato a cercarti».
Non mi piacevano i modi con cui mi trattava. Avevamo sì la stessa età, ma rimanevo comunque il suo maestro e tutta quella confidenza nei miei confronti mi innervosiva.
«Ah sì? E che vorrebbe Omero?».
Lo vidi raccogliere un po' di coraggio e gonfiare il suo petto.
«Che tu iniziassi già da questo pomeriggio a istruirmi».
Il suo sciocco tentativo di apparire più sicuro di sé mosse in me un'onda anomala di fastidio. O forse... Forse era ben altro ad avermi dato fastidio.
Tutti quegli ordini a cui dovevo sottostare, il dovermi mostrare devoto a Omero sempre, in qualsiasi momento.
Lo detestavo.
Detestavo che agli occhi di Xanthos apparissi come il servetto personale del grande poeta, così come detestavo la pena che provava nei miei confronti.
Non avevo bisogno di compassione, di compassione non si vive e nemmeno di lacrime.
Mi alzai di scatto, non potevo tirarmi indietro.
Ogni centimetro del mio corpo desiderava starsene lì, curioso di continuare il discorso con Pirro e di godere ancora un po' della sua compagnia. Cosa dovevo promettergli? Ancora non me l'aveva detto... Quell'ingrato biondo faccia da cane lo aveva interrotto proprio sul punto più importante!
Xanthos rimase impalato a fissarmi mentre mi allontanavo.
«Muoviti!» gli intimai senza voltarmi.
A quel punto si mosse e mi seguii.
***
«No, no e no!» piantai un pugno sul tavolo, devastato.
Ero arrivato al limite della sopportazione. Non ne potevo più.
Seduto su uno sgabello mi massaggiavo la fronte in preda a un dolore acuto. Xanthos, di fronte a me, guardava sconsolata la cetra abbandonata fra le sue braccia, le corde quasi fumanti e roventi sospese fra le sue dita.
La sera si stava avvicinando e le ombre degli oggetti della mia stanza si proiettavano lunghe sul pavimento. Il sole era rosso fuoco e un ottimo odore di buon cibo aleggiava nell'aria, facendo aumentare, oltre che alla mia fame, anche la fretta di finire quella tortura di lezione e mettere le gambe sotto al grosso tavolo della sala da pranzo.
«Posso ritentare...» mormorò con un filo di voce.
Lo fermai alzando una mano e scossi la testa convinto, ero più che rassegnato.
Omero mi aveva nel tempo assegnato incarichi pesanti e commissionato testi complessi, ma la loro difficoltà non fu mai paragonabile a quella di dover formare quel "rapsodo" incapace.
Era un completo disastro: sbagliava le note, si scordava la metrica, le parole, i versi e talvolta addirittura l'ordine di questi ultimi.
C'era di buono però che aveva una bella voce: calda, accogliente, mi ricordava l'estate e la prima luce dell'alba.
Almeno quello...
«Maestro...»
«Finiscila di chiamarmi con quell'appellativo, lo detesto»
«E come dovrei chiamarti?»
«Kleos. Kleos e basta»
«Va bene "Kleos e basta"» fece un mezzo sorriso. Mi sorprese perché quel sorriso non andò a sciogliersi nonostante la mia occhiataccia.
«Non fare lo spiritoso» dissi seccato.
Non ribatté, si strinse solo un poco nelle spalle.
Raccolsi gli spartiti sparsi a terra e li lanciai con poca delicatezza sul mio scrittoio. Ero stanco, demotivato e desideroso solo di un po' di tranquillità. Niente strumenti che nelle mani sbagliate suonano male, parole storpiate, borbottii, giustificazioni continue. Nulla, nulla di tutto quello.
Sospirai: il riposo tanto desiderato non avrei mai potuto averlo. Avevo ancora da terminare alcuni inni dedicati a Poseidone in occasione della sua festa e che Omero avrebbe dovuto cantare insieme ad altri subito dopo l'immolazione delle vittime sacrificali. Senza poi contare anche la continuazione dell'Iliade e di quel maledetto testo.
Si sarebbe prospettata una notte lunga.
«Credi che... Riuscirò a diventare un rapsodo?».
La domanda tagliò l'aria in due come il soldato con il suo nemico. Come una lancia dalla lunga e pesante asta e dalla lama affilata.
Le parole hanno un peso. Non esiste nulla di più reale.
Presi un lungo respiro, non gli risposi e tenni in sospeso la questione che mi aveva trafitto senza alcuna pietà.
Non lo feci per gusto personale, per avere una rivincita su di lui o per torturarlo, la vera risposta era perché non lo sapevo.
Non ero un dio veggente, non vedevo in là nel futuro come Cassandra, e se anche ci avessi visto, come lei, nessuno mi avrebbe creduto.
Era difficile riuscire a stabilire il futuro di quel ragazzo. Definirlo senza speranze lo ritenevo eccessivo, ma anche considerarlo sulla buona strada per diventare un rapsodo era azzardato. Un rapsodo di stirpe omeride, poi...
Non riuscii a sottrarmi da quella domanda, attendeva una risposta e io dovevo dargliela.
Sentii i suoi occhi verdi percorrermi la schiena dall'alto al basso e poi viceversa.
Quando mi voltai a guardarlo, il sole arancione sul punto di tramontare gli illuminava i capelli biondi facendoli risplendere ancora di più. Solo in quel momento mi accorsi di una leggera spruzzata di lentiggini sul suo naso. Come stelle in un cielo privo di nuvole lo abbellivano.
Come mai un occhio esperto come il mio le aveva ignorate fino a quel momento?
«Ci vorrà del lavoro» dissi, ormai sconfitto dalla sua espressione in attesa. «Non posso ancora valutare niente. Tu... Impegnati, va bene?».
Annuì e si alzò in piedi. Era più alto di me, la mia fronte arrivava appena a livello del suo naso.
«Ci lavorerò» si avviò verso la porta.
Rimasi a guardarlo allontanarsi da me. Ne approfittai per guardarlo meglio: la schiena rilassata, le spalle un poco spioventi e le braccia robuste sulle quali ricadevano ribelli alcuni riccioli biondi.
«Xanthos» lo fermai, il mio sguardo fisso sulle sue mani. Gliele presi fra le mie e rigirai sotto il mio occhio attento i numerosi tagli presenti sulle dita, alcuni di quelli stavamo ancora sanguinando. «Cosa ti è successo?».
Sul volto del ragazzo si formò un'espressione di puro imbarazzo. Guardò altrove, ma non levò le mani dalle mie.
Le sue dita erano molto lunghe e affusolate, e le unghie erano ben curate e di forma quasi ovale.
Mi sentivo piccolo accanto a lui, sebbene sapessi di avere più prestigio e potere. La cosa mi creava sempre un certo fastidio, ma sentivo una nuova strana sensazione crescere in me, qualcosa di difficile da descrivere a parole, persino per un aeda.
Ero come una di quelle rocce appuntite di cui Chio vantava il nome. "La rocciosa Chio" dagli scogli quasi acuminati. Ma nel mio caso l'azione dell'acqua stava lentamente levigando tutti quei bordi che ferivano continuamente chi mi circondava.
L'acqua era quella strana sensazione in me. Mi stava lavorando privandomi lentamente dei miei bordi taglienti.
Sarei mai arrivato a essere completamente liscio? E se sì, sarei stato meglio? I miei dolori sarebbero scomparsi tutti? Dal primo all'ultimo?
Lo speravo davvero, e non poter sapere la risposta mi lasciava una crepa nel cuore in mezzo a tutte le voragini che erano già aperte in esso da tempo.
Lasciai andare le sue mani, le raccolse in grembo quasi imbarazzato.
«Colpa delle corde» tornò a guardarmi con un grosso sorriso «sono taglienti e se suonate con veemenza o per tanto tempo ogni tanto mi feriscono».
Non ci credetti, nemmeno per un istante. Mi era capitato di suonare travolto da forti impeti, più di una volta, faceva parte della mia natura, ma non mi ero mai tagliato con una corda, mai.
Non gli feci altri domande, mi allontanai e aprii la porta, prima di andarmene gli rivolsi un ultimo sguardo:
«Se dovesse esserci qualcosa che non va, puoi dirmelo».
Il suo sguardo brillò per un attimo, ma non seppi dire se fosse stato solo un riflesso del sole o fossero davvero i suoi occhi.
«Sì» lo disse convinto, senza ripensamenti. Nella sua voce non erano presenti i suoi soliti dubbi velati o la sua continua insicurezza.
Se solo avesse saputo cantare con quella stessa sicurezza, sarebbe diventato un rapsodo esperto in pochissimi giorni, ne ero certo.
Mentre scendevo le scale per dirigermi nella sala del banchetto, in me si muoveva la strana speranza che lui mi venisse appresso.
Mi voltai. Lui non c'era.
Non seppi definirmi se deluso oppure arrabbiato. Iniziai nuovamente a detestarlo. La corrente del ruscello aveva smesso di levigare quel sasso dai bordi taglienti.
Presi posto al tavolo accanto a Omero e il mio sguardo si perse all'orizzonte. Si soffermò a osservare il paesaggio fuori dalla grossa finestra della sala. Il mare era blu così come il cielo.
Il sole era tramontato già da un bel pezzo.
🌸Angolino della scrittrice iperattiva e con la bava alla bocca🌸
Non so voi, ma io amo i cani... Ho due cagnolini dolcissimi che amo con tutto il mio cuore e con i quali passerei tutto il tempo, ripudiando il genere umano (tipo Diogene il cinico).
Questa cosa, però, non la pensavano anche i greci.
INSENSIBILI.
No, fermi tutti, facciamo un po' di chiarezza: non è che gli antichi greci si divertissero a lanciare giù dai dirupi i cagnolini perché ripudiati, tipo Astianatte giù dalle mura di Troia o i bambini Spartani freschi di parto, ma poco graditi dalle loro famigliole di body builder. Ma, va detto, per quanto animale da compagnia e simbolo di fedeltà, era considerato anche l'emblema della sfrontatezza, dell'impudenza.
Non è infatti un caso che, nelle Opere di Omero (Kleos *COF* *COF* *ECCIU'*), siano spesso presenti insulti che riguardano il mondo canino.
Un esempio potrebbe essere il litigio fra Agamennone e Achille, nel quale Achille dà ad Agamennone del "brutto cane", proprio per sottolineare quanto fosse sfrontato e (aggiunta dell'autrice) una emerita bulacca di vacca grande quanto il Mediterraneo.
Anche Elena, confidando a Priamo i suoi innumerevoli sensi di colpa, si autodefinisce "kunopis", letteralmente "faccia da cane".
Non è di meno un altro grande autore, Esopo, che nelle sue favole utilizza il cane come personaggio negativo, con tanti difetti. Si pensi ad esempio alla favola del cane con l'osso.
L'unico ad aver dimostrato il suo profondo amore per il cane è il filosofo Diogene il cinico. Un grande uomo, onestamente me lo sposerei. Ha dissato un casino di persone nel corso della sua vita da barbone quali Platone e addirittura Alessandro Magno. Viveva in una botte e probabilmente era pure nudista. Quando "AleMagno" si presentò a lui promettendogli di potergli dare qualsiasi cosa, Diogene gli disse letteralmente: "Alé, levate n'attimo dal sole che me fai ombra, li mortacci tua" (tali parole sono riportate in tutti i papiri del mondo).
Lo amo, vi auguro di trovare un Diogene nelle vostre vite.
Al prossimo angolino!
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