CAPITOLO 17
~ANNA~
O, un bacio, lungo come il mio esilio, dolce come la mia vendetta.
Shakespeare
Lunedì mattina mi sveglio presto, ma il mio riflesso fa veramente paura. Tornare in città non è stata una buona idea. Mi servivano almeno tre mesi di vacanza per riprendermi dal malessere chiamato Nathan, o meglio ‘capo’.
Mio malgrado, devo andare a lavorare.
Chissà come si comporterà oggi? Chissà se sarà arrogante e scorbutico come sempre, oppure sarà diverso dopo ciò che è successo? La mia mente va in ebollizione con tutte queste domande.
In più, il fatto di mio padre mi ha tolto il sonno.
Non faccio altro che pensare. Ci sarà mai fine alle mie paranoie? Ho pensato che fosse tutto frutto della mia immaginazione, che non succederà nulla di brutto. Ma, ahimè, vallo a dire al mio cuore stretto in un pugno.
Sospiro, scacciando l’ansia, e cerco di sistemarmi. Indosso un tailleur bianco con una maglia a collo alto nera sotto la giacca. Tacchetti fastidiosi mi rendono più alta di qualche centimetro. Raccolgo i capelli in una coda, prendo la borsa nera ed esco.
Il traffico del lunedì mattina non mi infastidisce. Mi distrae e mi fa mantenere i nervi saldi, prima di entrare nell’edificio.
«Buongiorno a tutti», saluto i colleghi con un sorriso teso.
«Ciao, Anna. Oggi ti mostrerò quello che c’è da fare», dice Matilda disinvolta.
«Arrivo tra pochissimo», aggiunge, girandosi sui tacchi alti e andando nella direzione opposta.
Sospiro e mi avvio verso la mia postazione.
«Tu non hai idea dell’inferno che c’è stato la settimana scorsa!» afferma Nanuk con il viso sconvolto.
«Cos’è successo?» Un brutto presentimento mi attraversa. Cosa avrà mai combinato questa volta il dittatore?
«Il presidente era su tutte le furie e ha licenziato parecchia gente. Quelle poche volte che si faceva vedere da queste parti, sembrava arrabbiato con tutti. È stato davvero crudele. Era sempre torvo, col cellulare in mano e l’aria di chi sta meditando un omicidio.»
“Eppure, i numeri sono sempre in crescita. Sarà successo qualcosa nelle altre filiali?”
«Nessuno osa parlargli, abbiamo persino paura quando lo vediamo arrivare. Quindi stagli alla larga, se non vuoi essere licenziata in tronco!» aggiunge preoccupato.
«Sì, tranquillo. Cercherò di starmene buona con gli occhi sul mio computer. Sarà come se non ci fossi. Non ho assolutamente voglia di incontrarlo, tanto meno di parlargli», dico in fretta.
Mi accomodo alla mia scrivania e accendo il computer. “Veramente pensavo se ne fosse andato. Non riesco a credere a ciò che ha fatto. Perché deve essere sempre così crudele? Per non prendersela con sé stesso, se la prende coi più deboli. È davvero uno stronzo!”
All’improvviso, tutti smettono di parlare. Una sensazione di gelo aleggia nell’aria.
«Buongiorno a tutti!» Esclama Nathan, con aria imperturbabile.
“Come riesce a essere così?”
«Buongiorno, presidente». Dicono tutti.
Nathan mi guarda in silenzio, in piedi sulla porta. Indossa un completo blu navy e una camicia bianca, le scarpe nere. Il cuore inizia a battere velocemente, le guance bruciano. Mi sento strana, come se fossi in apnea.
Nonostante ciò che mi ha fatto, i suoi occhi cupi, fissi su di me, mi mandano il cuore in gola. Cerco di ignorarlo, ma mi sento una marionetta che si muove in base ai suoi atteggiamenti.
Lui continua a guardarmi e tutti, in ufficio, se ne sono accorti. Mi sta mettendo di nuovo in imbarazzo. Mi agito sulla sedia, deglutendo, mentre torchio le mani dall’ansia di essere presa di mira per l’ennesima volta.
Finalmente, sposta lo sguardo altrove e si rivolge ad altri colleghi, dandomi la schiena. Le sue spalle fasciate dalla giacca del completo sono talmente ampie che mi si stringe lo stomaco. Almeno riesco a liberare i polmoni dalla morsa invisibile dell’ansia.
Sbuffo, ripulisco le mani sudate sui pantaloni e mi rimetto al lavoro sui documenti che Matilda mi ha inviato via e-mail. La testa però non riesce a sgombrarsi dai dubbi che l’affollano; i miei genitori hanno ragione.
Dovrei licenziarmi, è la cosa migliore che io possa fare per ottenere un po’ di quiete. Sono giorni che non faccio altro che pensarci, e per quanto mi dolga ammetterlo, interrompere il tirocinio è la cosa più sana che io possa fare per la mia stabilità mentale.
Finisco di preparare i documenti, li invio a Matilda e decido di raggiungerla per comunicare i miei intenti. Mi faccio coraggio facendo dei lunghi respiri e raddrizzando la schiena per sembrare più sicura possibile. Mi avvio nel suo ufficio e busso. «Matilda, scusa».
«Sì, Anna?» dice, mentre smette di scrivere al computer.
Respiro profondamente ed entro. Mi siedo con la borsa sulle ginocchia, la apro e tiro fuori la lettera di dimissioni.
«Matilda, vorrei dare le mie dimissioni.» gliela porgo sopra il tavolo di vetro.
«Perché? Proprio ora che iniziano le settimane dei premi? Cosa succede?» domanda confusa.
«Il fatto è che non riesco e non posso lavorare in questo genere di ambiente. Guardali, guardali tutti!» sbotto.
«Cosa intendi? Che cosa è successo per spingerti a voler lasciare il lavoro?» domanda con le sopracciglia chiare aggrottate.
«No, niente…» «È che sono molto impegnata con gli studi, non posso continuare a seguire questi orari. So della settimana dei premi, e mi avrebbero fatto comodo per i crediti extra, ma sono molto stanca», dico, cercando di farla sembrare credibile.
«Certo...» Matilda mi scruta, sospettosa. «Ad ogni modo, nel contratto è inclusa una clausola che dice che per lasciare il posto di lavoro offerto dall’università servono quindici giorni di preavviso», dice, mentre appoggia la schiena sulla poltrona di pelle nera e raccoglie le braccia al petto.
Aggrotto la fronte. «Perciò sono obbligata a restare per altri quindici giorni? Non si può fare niente? E se non mi presento?» domando nervosa. Mi stanno sudando le mani.
«Se non ti presenti, tutti i tuoi crediti extra si annullano e se farai altre domande di stage, l’azienda sarà tenuta a notificare il tuo comportamento con una nota disciplinare».
“Dovrò vedere Nathan per altri quindici giorni. Ed è l’unica cosa che vorrei evitare”.
Mi sento in gabbia. Cerco di sembrare più tranquilla possibile, anche se il cuore in gola rischia di soffocarmi il respiro. «Allora okay. Altri quindici giorni. Che sarà mai?»
«Bene. Sono contenta di averti ancora qui con noi», annuisce con un sorriso tirato, rilassando le braccia.
Esco, richiamo l’ascensore e mi ci infilo dentro. Ho un disperato bisogno di una boccata d’aria. Devo calmarmi, resistere ancora quindici giorni. Tolgo la giacca del tailleur che mi soffoca.
Questa situazione di merda mi rende nervosa da morire.
Le porte d’acciaio si riaprono sulla hall. Nathan è insieme ai suoi men in black. L’allarme primordiale si accende dentro di me e l’aria nei miei polmoni sparisce. Lo osservo per un istante, rapita da tanta virilità. Anche lui mi guarda, ma per mia fortuna non fa nulla. È la seconda volta in un giorno.
Sembra che ce l’abbia con l’intero mondo, stamattina: occhi gelidi, mascella serrata, le labbra chiuse in una linea dura. È una lastra di ghiaccio. Mi mette i brividi. L’ho visto spesso così, ma questa volta mi sento mancare. Lui si limita a proseguire verso l’ascensore.
Abbasso lo sguardo, insultandomi mentalmente ed esco dalla hall e mi dirigo spedita al parco per metabolizzare la mattinata.
“Non lavorerò più per lui tra quindici giorni, e questo è già una vittoria. Ora, devo solo resistere fino alla scadenza”.
Al mio ritorno, molti sono in pausa pranzo e mi ritrovo sola a lavorare al computer.
Matilda bussa alla porta e mi osserva con le spalle tese. «Anna, il presidente ti vuole nel suo ufficio».
«Vuole me? Perché?» Boccheggio, sgranando gli occhi, le mani iniziano a sudare al ricordo della sera della settimana scorsa e una goccia di sudore scivola fino alla base del collo.
Matilda mi osserva in silenzio per un secondo di troppo: «Non lo so, forse vuole parlarti del licenziamento e delle conseguenze che ne derivano. Comunque sia, devi andare. Subito».
Sbatto le palpebre un paio di volte prima di darmi coraggio e alzarmi. Matilda mi precede fino all’ascensore, lo chiama e si volta verso di me.
«Qualunque sia la tua decisione, sappi che la rispetto. Ma fa’ attenzione, lassù. Il signor Bailey è uno stratega. Cercherà di farti cambiare idea. Non che mi dispiaccia, sia chiaro, ma capisco la tua volontà e, come ho detto, la rispetto. Quindi fatti valere e non permettergli di entrarti in testa».
Mi rivolge un sorriso di circostanza che svanisce subito, come sapesse a cosa sto andando incontro.
“Spero solo di avere le forze per mandarlo a quel paese”.
Il mio cuore tamburella nel petto, impazzito per l’ansia di essere sola con lui. Entro in ascensore e schiaccio il 7, le mani sudano. È come se dentro di me si fosse attivato un campanello d’allarme, sofisticato e primordiale, che mi mette in guardia.
Le scorrevoli si aprono e mi trovo davanti a un enorme portone di vetro con una placca in titanio con su scritto: Bailey. Da fuori, si vede la scrivania a forma di luna e la poltrona nera in pelle, che dà le spalle all’enorme panorama dalle finestre. Le pareti sono di un grigio scuro, quasi ipnotico. Lungo il corridoio ci sono degli enormi quadri colorati su cui spiccano il giallo e il nero. In un angolo a destra ci sono delle poltrone nere con un tavolo di cristallo, gli immancabili men in black leggono delle riviste, fingendo di non avermi vista. Come se non sapessi che lo hanno fatto appena sono uscita.
Deglutisco e busso, decisa ad entrare e affrontarlo una volta per tutte, velocemente, per svignarmela subito, ma qualcosa mi distrae: il diavolo in persona è in piedi a guardare fuori dalla vetrata e mi ignora completamente.
La sua postura è sicura, le spalle larghe e rigide. La sua aura determinata. Ha le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni, che gli fanno un fondoschiena da urlo, le spalle larghe fasciate dalla camicia bianca come se fosse una seconda pelle mostra ogni dettaglio di quanto quest’uomo sia esteticamente perfetto.
Il calore mi pervade collo e viso, ma aggrottando la fronte schiarisco la voce. «Buongiorno signore», faccio un altro passo malfermo sulle gambe che tremano. Questi sentimenti contrastanti non fanno bene al mio stato psicologico. “Ed è per questo che me ne vado”.
Nathan si volta lentamente. Come se fosse un cazzo di divinità, si prende tutto il tempo del mondo per essere al centro dell’universo. I suoi occhi nocciola catturano l’ultimo briciolo di ossigeno, lasciandomi spoglia e impossibilitata di prendere respiro.
La camicia gli fascia il fisico in una maniera dolorosissima. “Non può essere legale, quest’uomo. Una bellezza del genere non dovrebbe esistere. È ingiusta.”
Sfila le mani dalle tasche, i muscoli delle braccia si flettono e mi ci vuole tutto l’autocontrollo del mondo per non urlargli contro: ‘Non devi essere così dannatamente bellissimo se hai un carattere di merda!’
«Buongiorno, signorina Giordania», mi saluta in tono professionale, cosa che mi fa alzare gli occhi al cielo dopo ciò che mi ha fatto, ma mi sforzo e mi trattengo.
Apro appena le braccia, approfittando dei pantaloni per pulire le mani sudaticce. «Voleva vedermi?»
Annuisce, sospirando rumorosamente. «Si sieda», ordina, indicandomi la poltrona nera in pelle di fronte alla scrivania.
“Non fargli vedere che stai soffrendo. Non fargli vedere che sei a pezzi. Non fargli vedere che ti ha segnata”.
Canticchio mentalmente.
Alzo il mento e faccio appello a tutte le mi forze per comunicargli che non lo farò, questa conversazione sta per durare meno di un minuto.
Un ghigno nasce nelle sue labbra, ma lui tenta di nasconderlo. «Come vuole allora», risponde con voce roca.
Il cuore vuole uscire dalla gabbia toracica e l’acidità mi brucia la gola per la rabbia che nutro verso quest’uomo. Lui aggira la scrivania vi si appoggia proprio in centro, incrociando le braccia al petto. In quel modo sembrano cinque volte le mie. Il suo petto, stretto dalla camicia, va su e giù, il respiro calmo. Per quanto faccia male ammetterlo, sono attratta da questo diavolo incantatore.
«Perché sono qui?» domando con le sopracciglia aggrottate. Lascio volutamente trasparire la rabbia, mentre stringo le mani a pugno.
«Sei qui per due semplici motivi», con sguardo da felino mi passa in rassegna da capo a piedi, il volto indecifrabile. Un raggio di sole gli frusta la schiena, rendendolo un angelo nero dai tratti affilati ed estremamente marcati.
«Il motivo numero uno sono le tue dimissioni», piega leggermente la testa a destra, un ciuffo corvino si stacca dalla capigliatura perfetta e gli finisce sulla fronte. Scioglie le braccia e si aggrappa con le mani al bordo del tavolo; le maniche arrotolate mi regalano una visione perfetta delle sue braccia tese e muscolose. Un tatuaggio gli colora il braccio sinistro e scompare oltre la camicia. Non riesco a vedere nulla oltre il nero in contrasto con la sua pelle.
Ho un vuoto allo stomaco. Mi sento morire dalla vergogna e il calore sale maggiormente sulle guance, che suppongo siano già scarlatte. Alzo la testa velocemente, per non fargli vedere che tutta la sua dannatissima aura mi sta intorpidendo i sensi.
«Sì, ho deciso di licenziarmi».
Nathan gonfia il petto e rompe il contatto visivo, spostando lo sguardo alla sua sinistra. Riesco finalmente respirare; essere prigioniera del suo sguardo mi ha fatto dimenticare come si fa. Seguo il suo sguardo. Appoggiati su di una mensola, vicino alla vetrata, ci sono dei trofei e delle foto.
Nella prima ci sono due signori di una certa età e un ragazzo coi capelli neri e gli occhi nocciola che sorride e mostra una medaglia appesa al collo. Nella seconda c’è lo stesso uomo, con lo stesso ragazzo, mentre sorridono. Nella terza ci sono soltanto i due signori. Con loro compare anche una donna dagli occhi verdi e i capelli neri che le arrivano alle spalle. Ha un sorriso molto elegante e osserva l’uomo coi capelli brizzolati. Anche lui ha un sorriso dolce e gli occhi scuri. Presumo siano i suoi genitori.
«Mi dispiace», la frase riecheggia nello studio, mi arriva come un proiettile in pieno petto e ci scava una voragine.
Sgrano gli occhi, ogni fibra del mio essere si ghiaccia sul posto. Apro e richiudo la bocca diverse volte, confusa, ma soprattutto incredula.
«Mi dispiace per ciò che ti ho fatto quella sera», rimarca, catturando il mio sguardo allibito.
«Cosa?» Ho un blackout totale, non riesco a elaborare le sue parole, non voglio farlo: gli aprirei l’accesso a delle porte che voglio tenere ben serrate a chiave.
Lui si scosta dalla scrivania e mi si avvicina, ma senza entrare nel mio spazio vitale. In piedi è enorme, mi tocca sollevare la testa per incontrare il suo sguardo imperturbabile.
«Non volevo ferirti, non volevo spaventarti. Mi rendo conto, però, di avere esagerato. Quindi non posso fare altro se non chiederti scusa», incurva appena le spalle, tenendo quegli occhi unici legati ai miei.
«Beh, l’ha fatto invece», sussurro, in trance. Deglutisco, distogliendo lo sguardo, e aggrotto la fronte: “È una strategia per continuare a torturarmi”.
«Non sono pratico a chiedere scusa, ed è difficile per me pronunciare questa parola, ma credimi quando ti dico che ne sono consapevole, e soprattutto non è stato fatto con brutte intenzioni».
Stringe forte la mascella e un muscolo compare per pochi secondi prima di scomparire.
Sono attonita. Non avrei mai e poi mai pensato che lui potesse chiedermi scusa.
Alzo lo sguardo, mi sta fissando con tale intensità che le mie membra si sciolgono come gelatina. Ha una luce lussuriosa negli occhi, mentre li abbassa sulle mie labbra. Uno spasmo mi frusta in mezzo alle cosce. “Dannazione!”
«Le sue scuse non mi servono a niente, dal momento che ha deciso di prendersela con me per qualsiasi cosa. Non voglio perdonarla», rispondo con le spalle dritte e il tono deciso.
Nathan assottiglia lo sguardo, lo passa sul mio volto, sulle mie labbra, sul mio collo e poi un ringhio basso simile a un verso di animale lascia la sua gola e deglutisce silenziosamente.
Una scossa elettrica mi percorre la spina dorsale e sento il bisogno di stringere le cosce. Tutto in lui mi disorienta.
“Smettila di guardarmi come se mi volessi mangiare, dannazione!”
Sospira, gonfiando il petto, e si lecca le labbra. Lo stomaco mi si serra, tagliandomi il respiro.
Vorrei leccarglielo io. “Maledette labbra morbide e dannatamente perfette”.
Apro appena la bocca, sospirando per liberare le viscere attorcigliate. “Dio, che cosa mi stai facendo?”. Mi tocco la fronte per alleviare il tumulto dei pensieri che mi vorticano in testa.
«Voglio farmi perdonare, in un modo o nell’altro», dice facendo un altro passo verso di me.
Resto immobile, perplessa dalla sua insistenza e il respiro mi si blocca di nuovo in gola. Sembra che sia davvero fermo sul fatto di volermi chiedere scusa. “Non ci cascare, è la sua strategia”
«Non c’è né bisogno».
«Sì, invece, c’è n’è eccome. Ecco perché voglio invitarla a cena fuori», alza il mento, le spalle rilassate e l’espressione sicura.
Spalanco la bocca, incredula, e la richiudo di scatto. So di essere rossa in viso, il calore mi attraversa come onde emesse direttamente dal Sole. «Lei… cosa?»
Un sorriso gli illumina gli occhi nocciola, ma lo maschera leccandosi di nuovo le labbra e raccoglie di nuovo le braccia al petto, facendo una smorfia noncurante. Ho lo stomaco sottosopra e il cuore mi tamburella nel petto.
«Quello che ho detto», dice stringendosi in spalle. «Voglio invitarla a cena, sia per scusarmi che parlare delle sue dimissioni. Tutto qui».
«Lei è fuori di testa…», rido.
«Sono serio, ragazzina. Voglio portarti a cena fuori», la sua voce è bassa, il timbro roco, come se si stesse trattenendo, e io sento ogni fibra, ogni tendine e ogni muscolo non appartenermi più. Mi sciolgo, e mi rendo conto che ho le mutandine bagnate.
Deglutisco, maledicendomi e cerco di sembrare impassibile, ma il suo sguardo si fa più lucido, la serietà che gli appartiene svanisce. Il suo respiro si fa più corto, proprio come il mio, e il cervello mi va in pappa.
Non so cosa fare. Sono confusa e, per quanto odi ammetterlo, anche attratta dal diavolo.
Mi tocco il ponte del naso facendo il punto della situazione. Il mio capo mi bacia con la forza, io do le dimissioni. Il mio capo stronzo, ma estremamente sexy, vuole portarmi a cena, con lui e solo con lui, per scusarsi. No, qui c’è di sicuro qualcosa sotto.
“Gli piace confondermi? Ovvio che sì.”
Lui inarca le sopracciglia, gli occhi stranamente divertiti mentre si morde il labbro inferiore.
Deglutisco, il bassoventre si serra di colpo e mi rapisce l’ultimo respiro. Sussurro: «Non verrò a cena con lei».
Lui si avvicina con passi felpati, lento, e il suo profumo unico mi investe. Siamo talmente vicini che mi basterebbe muovere la mano per toccarlo. Eppure, temo di farlo. Voglio che si allontani, mi sta confondendo.
«Quindi mi stai condannando senza nemmeno darmi la possibilità di fare ammenda?» sussurra, abbassando il volto per guardarmi negli occhi.
Il mio cuore sussulta e perde dei battiti per strada. Apro e richiudo la bocca senza sapere cosa dire.
“Lo sto condannando? Voglio davvero non dargli una possibilità? Non lo so…” deglutisco, facendo qualche passo indietro.
« Ci… ci devo pensare».
Resta imperturbabile, ma annuisce. «Ti invierò un messaggio per l’ora e il luogo e ti manderò il mio autista», si gira e va a sedere sulla sua poltrona della scrivania.
«Non ho detto che accetto!», aggrotto la fronte, riservandogli tutta la rabbia che ho addosso. Non era questo ciò che intendevo. Non spetta a lui decidere, ma a me.
I suoi occhi mi catturano, appoggiando le braccia sopra la scrivania di vetro e incurvandosi appena risponde: «Infatti. Capirò la sua decisione quando farà la sua scelta, se si presenta o meno».
Gli volto le spalle e mi dirigo spedita verso l’uscita con le viscere accaldate come non mai.
«Signorina Giordania…» Mi volto, ha l’espressione imperturbabile e il timbro deciso mentre resta dritto come un cazzo di re sul suo cazzo di trono: «La decisone è sempre stata sua. E dev’esserlo anche stavolta».
“Psicologia inversa del cazzo”, lascio il suo ufficio, precipitandomi nell’ascensore.
Le porte si chiudono, sospiro piegandomi su me stessa per tutte le sensazioni strane che mi ha fatto sentire. Mi passo le mani al volto, disperata e accaldata, e una volta fuori dalla scatola d’acciaio corro nei bagni per rinfrescare la faccia. Forse avrei bisogno di immergermi in una doccia gelata.
❤️🔥SPAZIO AUTRICE❤️🔥
Sì, sì, sì. Questo è totalmente nuovo.
Spero vi piaccia.
Vostra per sempre Kappa_07❤️🔥
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