3.
«Correte!», intimai.
Il piano era chiaro. Io avevo azionato la bomba, e adesso avremmo dovuto allontanarci nello spazio con l'astronave rubata.
«Salite!», urlai ai miei compagni. «Dobbiamo scappare.»
Quella era una missione suicida, lo sapevamo. Introdurci nella tana del nemico per fermarlo, che stupida idea era stata la nostra. La parte peggiore però non era stata la morte di un caro compagno, ma bensì il venire a conoscenza della vera identità del nostro nemico. Corti capelli neri, occhi rossi e sorriso malvagio. Era la rappresentazione del cattivo ideale, eppure nessuno fino ad ora aveva mai osato dubitare di lui. Solo io percepivo una natura diversa, ma i suoi modi amichevoli e carismatici avevano sviato i sospetti.
Avevamo passato insieme quasi un mese durante quest'avventura, e prima ancora era stato il consigliere dell'ormai perduta famiglia reale.
Salimmo in fretta sull'astronave. Gli altri si sedettero sui sedili, allacciando le cinture, e io impostai rapidamente la rotta verso il nostro pianeta.
«Ho dimenticato una cosa!», esclamai mentre correvo fuori dalla nave.
I miei compagni si accorsero dopo di quello che avevo fatto, ma ormai era troppo tardi. La porta automatica si richiuse dietro di me e nessun colpo o urlo da parte loro riuscì a fermarla.
La piccola astronave si allontanò rapidamente nello spazio, lasciando dietro di sé una flebile scia luminosa.
Il piano era chiaro. Io avevo azionato la bomba, e adesso loro sarebbero scappati. Il compito di fare da diversivo era mio.
Percorsi a grandi passi i corridoi fino alla centrale di comando. Gli stivali pesavano sui miei piedi e spiccavano sul bianco pavimento illuminato da lampeggianti luci rosse d'allarme.
Lui era lì, seduto sul trono, proprio come l'avevo visto in sogno un mese prima. Nella visione la sua figura era nascosta nell'ombra della finestra e non quindi chiaramente visibile, ma i suoi lineamenti erano ora illuminati.
Sembrava annoiato. Girò appena la testa per guardarmi, distrattamente, come se non gli importasse davvero della mia presenza.
«Sei qui? Perché non sei andata con i tuoi amici?», domandò con finta sorpresa. «Hai intenzione di combattermi?»
Gli scappò una risata e con un rapido movimento si teletrasportò dietro di me, afferrando la gola e sbattendomi contro il muro. Tentai di liberarmi, ma la sua stretta era troppo salda, stavo soffocando.
«Troppo debole.», commentò sprezzante. Mi lasciò cadere al suolo e si avviò verso i comandi. «Avevo intenzione di farvi saltare tutti in aria una volta che vi foste allontanati abbastanza, ma ora che tu sei qui sarà molto più divertente farlo.»
La mia risata riecheggiò tra le pareti di metallo dell'enorme astronave del mio nemico. Usciva rauca dalla gola. Me l'aveva stretta troppo forte e ora iniziava a bruciare, lasciando sul mio collo l'impronta rosa di una mano.
«Perché ridi?», chiese con voce curiosa ma alterata.
«L'ho capita adesso!», esclamai. «Giulietta e Romeo sono un pesce e un gatto!»
Il silenzio che ci fu tra noi, se avessi voluto, avrei potuto allungare una mano e toccarlo.
«Stai per morire e l'unica cosa a cui riesci a pensare è un vecchio e stupido indovinello per bambini?!», scosse la testa, incredulo. «Mi sorprende sempre il tuo modo di comportarti.»
Iniziò anche lui a ridere. «Hai perso tutto, ma comunque sorridi. Non ti ho ancora capita bene.»
«A dire la verità, sei tu quello che sta per perdere tutto. La bomba che ho piazzato tra poco esploderà e qui non è rimasta una sola astronave.», presi una pausa, come per decidere se fosse meglio concludere così il mio discorso, ma ormai non avevo più niente da perdere. «Moriremo entrambi e tu non ti sei mai accorto che per tutto questo tempo hai sempre avuto davanti quello che cercavi.»
Smisi di ridere e lo guardai negli occhi, era impassibile e aspettava una spiegazione.
«Sono io», pronunciai, facendomi improvvisamente seria. «La principessa che stai cercando sono io.»
«Non è possibile...», parlò quasi in un sussurro.
«Tutta la tua vita, tutto ciò che hai fatto, dalla morte dei miei genitori fino a ora. Tutta quanta, tutta ruotava attorno a me.», continuai alzandomi in piedi. «C'eri quasi, davvero, ti mancava davvero poco per avere il potere che hai sempre desiderato. Realizzare i tuoi sogni sarebbe stato così facile se ti fossi accorto prima di me».
Lentamente mi avvicinai all'uomo vestito di nero. «Ma ormai è troppo tardi per continuare a pensarci.»
Silenzio. Mi fissò stupito, nessuno dei due sapeva più cosa dire, in fondo gli avevo solo appena rovinato l'esistenza. Ogni cosa che aveva sempre creduto di sapere su di me si era rivelata un castello di nuvole, proprio come quello che lui stesso aveva realizzato per ingannare noi.
«Proprio adesso che sto per morire mi è venuto in mente», sospirai alzando gli occhi al soffitto, e poi fuori nell'immenso spazio. «Prima o poi tutte le stelle si spengono. Forse diventerò una di loro, mi piacerebbe stare lassù per poi sparire e rinascere.»
Il rumore di un apparecchio che squilla arrivò con forza alle mie orecchie, interrompendo il requiem. Azzardai uno sguardo sul quadrante dei comandi dell'astronave, e vidi un vecchio telefono suonare.
Lanciai un'occhiata all'uomo, ma lui sembrava come bloccato sul posto. Mi alzai e, esitando, arrivai a sollevare la cornetta.
«Pronto?», domandai.
«Che cosa mi sta succedendo?», rispose la mia voce dall'altra parte.
«Ragazzo», chiamò qualcuno distraendomi dai miei pensieri. «Hey, ragazzo. Ci sei?»
«Sì?», accennai distrattamente.
«Sei rimasto lì impalato per un sacco di tempo, pensavo stessi male.», ridacchiò l'uomo.
«Vuoi un altro po' di sabbia?», domandò il cavaliere porgendomi il secchiello.
Eravamo in tre seduti sotto un ombrellone in riva al mare. In cielo il sole brillava, scaldando la sabbia sotto i piedi e la seggiola di plastica sulla quale i miei vestiti si stavano spiacevolmente appiccicando.
Alla mia destra sedeva un signore dai luccicanti abiti dorati. In testa portava un gigantesco cilindro e su un occhio, del colore simile all'argento, aveva un monocolo. Nell'altra metà del tavolino stava un uomo con un armatura completa di elmetto. Non riuscivo proprio a immaginare come riuscisse a sopportare tutto quel caldo lì dentro.
Afferrai il secchiello, passando distrattamente una mano sulla fronte, ripulendola dal sudore. Sparsa sul tavolino bianco si trovava una grande quantità di sabbia colorata, nonostante la spiaggia fosse di un colore normale. A quanto sembrava stavamo giocando a fare le costruzioni con quel materiale. Osservai la creazione che stavo modellando bagnando della polvere arancione e marrone. Era qualcosa che assomigliava vagamente a una piccola casa.
«Stai nella tua metà!», urlò l'uomo al cavaliere, che cercava in tutti i modi di espandere il proprio castello di sabbia su tutto il tavolo.
«Allora tu, tira in dietro i piedi!», replicò l'altro, assestandogli una pedata.
«Tornando al dunque», si rivolse a me l'uomo con il cilindro, dopo aver lanciato un'occhiataccia al suo compare in armatura. «Prima ci stavi dicendo qualcosa di importante.»
«N-non ricordo», balbettai con un filo di imbarazzo.
«Era qualcosa su una chiavetta di perla, se non sbaglio.», mi incalzò lui.
«Sì, me lo ricordo anch'io», accennò il cavaliere riprendendo a costruire il suo palazzo dorato. «Stavi proprio parlando di una chiave che stavi cercando.»
«A cosa mi serviva?», domandai, scavando nella memoria in cerca di quell'informazione.
«Che so, forse per una porta?», commentò ridacchiando.
«Ecco fatto!», esclamò orgoglioso l'uomo, rigirandosi i biondi baffi.
«Cosa hai costruito?», chiese il suo amico.
«Un mucchio di sabbia.», rispose lui fiero.
«Ma quello lo era già», gli feci notare, osservando l'accumulo di polvere argentata davanti a lui. «Tu dovevi costruirci qualcosa.»
«Non è lo stesso di prima!», esclamò irritato. «Questo l'ho fatto io.»
«Ti innervosisci sempre troppo facilmente. Non è colpa sua, non tutti riescono a comprendere quella che chiami arte.», lo rimbeccò il cavaliere.
«Questa me la ricorderò! Lo venderò a un grande museo e ci farò un sacco di soldi. Ragazzo, non venire a lamentarti con me quando sarò ricco! Non vi darò neanche un centesimo.», sbottò lui indignato.
Tornai con lo sguardo alla mia costruzione, accorgendomi solo ora di aver addosso una lunga tunica bianca. I miei piedi nudi stavano scavando nella sabbia, creando un solco sotto la sedia. In esso trovai una conchiglia grande quanto il palmo della mia mano. Con le dita di un piede provai ad afferrarla, fallendo miseramente.
Il rumore del mare dava un senso di tranquillità a quel luogo, tanto che presto iniziai ad annoiarmi di quella pace.
«Cosa c'è lì in fondo?», domandai indicando il fitto bosco di pini ai margini della spiaggia.
«Oh, nessuno lo sa», disse l'uomo, sistemandosi la manica del vestito piena di sabbia. «Maggie è andato ieri a controllare e non è ancora tornato.»
«Chi è Maggie?», volli sapere.
«Non lo so», rispose confuso. «Silver, tu conosci qualcuno che si chiama Maggie?»
«Mai sentito.», negò lui scuotendo la testa.
«Ma lui ha appena detto che ieri Maggie è andato nel bosco e non è più tornato.», insistetti.
«Stavamo parlando di carte se non sbaglio, vero Gold?», lo interrogò il cavaliere.
«No, sono sicuro parlassimo di scacchi.», storse lui il naso.
«Era poker.» rimarcò Silver.
«Io vado a vedere cosa c'è lì.», sentenziai alzandomi in piedi.
«Non rimani qui a mangiare con noi?», chiese Gold. «Abbiamo ancora un po' di tartine avanzate dalla festa di ieri. Ci sono anche quei pasticcini alle more e i lamponi che ti piacciono tanto.»
«Non ho fame.», mentii.
I miei piedi sprofondavano nella calda sabbia, spingendomi ancora di più a voler raggiungere l'ombra dei pini. Mi avvicinai agli scuri alberi e cercai un punto dove infilarmi nel bosco. Sentivo il silenzioso sguardo di Gold e Silver sulle mie spalle.
«Torna in dietro. Quel posto è pericoloso!», ammonì il cavaliere, sperando di vedermi tornare al tavolo con loro.
«Solo un attimo, voglio prima vedere cosa c'è dietro.», gli risposi di rimando.
Scostai gli appuntiti aghi verdi dell'albero e mi ritrovai davanti a un occhio.
Rimasi per qualche secondo come incapace di muovermi. Il grosso organo dall'iride rossa mi studiava, tenendo lo sguardo fisso sul mio viso. Senza pensarci troppo, nel silenzio del momento, mi avvicinai di più a quel bulbo oculare fino quasi a toccarlo con la punta dal naso.
La sua nera pupilla si stringeva sempre di più osservandomi. Mi parve divertente l'idea di vedere fino a quanto si sarebbe potuta spingere prima di doversi dilatare per lo sforzo fatto. Neanche mi resi conto quando arrivai sul punto di appoggiare l'occhio destro al suo.
Ormai non capivo più chi stesse guardando chi o di chi fossero quegli occhi che si stavano guardando così intensamente. Ero come in un sogno, niente sembrava avere il minimo senso.
Infine un dubbio si insinuò nel mio cervello: «Tutto questo è un sogno?».
Angolo autore
Ciao a tutti ☆
Sì, lo so, è un capitolo abbastanza strano e confonde anche me che l'ho scritto.
Sì, questo è davvero il terzo capitolo, non avete sbagliato ad aprire la storia e non ho sbagliato io a scrivere.
Detto questo vorrei chiedere ai miei pochi lettori se per i futuri capitoli andrebbe bene leggere ancora una cosa così confusionaria dai risvolti inquietanti o se preferirebbero qualcosa come una normale avventura che da subito mette in chiaro ciò che accadrà nella storia.
☆Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.☆
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