So numb


Non aveva idea di quanto tempo avesse passato a camminare. Forse ore o soltanto minuti.

Sapeva però, che faceva freddo, che lei non aveva un cappotto; che a stento si era ricordata di prendere le All Star accanto alla porta, infilandosele solo quando era vicina all'entrata principale del college.

Si era allontanata da Harvard più di quanto fosse disposta ad ammettere persino a sé stessa. Camminava e basta, stringendosi le braccia attorno al petto per resistere al vento freddo che le spazzava i capelli all'indietro, bruciandole le guance congelate.

La vita a Boston, fuori dall'università, era bella, frenetica al punto giusto, ma lei non aveva abbastanza tempo per preoccuparsene. Non sarebbe riuscita a farlo neanche se avesse voluto.

Forse, e solo forse, doveva considerare abbastanza il riuscire a camminare senza nascondersi in un angolino a piangere come una bambina.

Aveva paura.

Ed era distrutta.

Era stanca. Non ne poteva più ma non sapeva come fare.

Come poteva combattere quelle voci nella sua testa che, con costanza, le dicevano non fosse abbastanza? Come poteva combattere quei demoni che lei stessa alimentava?

Erano sempre lì, pronti a farle del male. A demolirla quando si sentiva più forte, più sicura, un po' meno debole. A minare la sicurezza che faticava a costruirsi attorno e che, solo per pochi istanti, quando era tra le braccia di Percy, sembrava tantissima e, paradossalmente, indistruttibile.

Era stanca, Annabeth, e avrebbe voluto sentire qualcos'altro oltre al freddo e alla paura.

Avrebbe voluto sentire amore. Avrebbe voluto sentire felicità.

Come si era permessa?

Si erano baciati ancora. Ed ancora ed ancora. E Percy l'aveva stretta a sé perché era così che faceva: la guariva ma poi non la teneva abbastanza a lungo da impedirle di distruggersi ancora.

Ma non era colpa sua. Come poteva essere colpa di Percy se lei aveva paura?

Percy la lasciava andare perché ci aveva sperato ogni volta. O forse perché sapeva che, sempre e comunque, lei avrebbe trovato il modo di tornare. Ma lo distruggeva ogni volta. Ogni volta, un piccolo pezzo di lui andava in frantumi e solo per colpa di Annabeth che faceva finta di restare ma poi se ne andava sempre.

E lei ci provava. Lei ci provava davvero a lasciare che quelle braccia, quelle labbra, quel profumo, quegli occhi, diventassero parte dell'armatura che aveva passato anni a costruirsi attorno ma, ogni volta, loro tornavano. Lui tornava e lei scappava sempre perché sapeva difendersi fisicamente ma non mentalmente. Perché non era forte abbastanza per tutto quello e perché, lo sapeva, non si meritava nulla.

Non si meritava Percy. Non si meritava le sue braccia o le sue labbra o il suo profumo o i suoi occhi che, solo poco tempo prima, aveva visto così tristi e distrutti da farle saltare un battito.

Come si era permessa?

Sei mia.

- Basta – mormorò, lanciando uno sguardo al cielo quando un tuono fu così forte da farle valutare la possibilità che persino l'asfalto avesse tremato.

Tutti se ne vanno. Io sono l'unico che è rimasto.

Ed era vero.

Perché lei se ne andava sempre. Percy non c'era. Talia non c'era. Luke non c'era. La sua mamma non c'era. I suoi fratellini non c'erano. La sua matrigna non c'era. Neanche il suo papà c'era.

Ma lui non se ne andava mai. Era sempre lì. Nella sua testa, nel suo cuore che batteva più forte per la paura e il terrore. Nel suo corpo che, quando ci ripensava, tornava a bruciare e pulsare.

Percy le aveva chiesto se avesse voluto essere felice e lei avrebbe voluto gridare "si" a squarciagola. A pieni polmoni fino a che non avessero bruciato. Fino a che non fosse rimasta totalmente a corto d'aria.

Si, certo che voleva essere felice.

Ma non se lo meritava.

Come si era permessa?

- Basta.

Tutti se ne andavano. Ed era per colpa sua. Talia e Luke forse si erano anche stancati di starle attorno, di vederla cadere. E Percy? Percy aveva provato ad esserci ma Annabeth l'aveva respinto così tante volte che, come avrebbe potuto biasimarlo se avesse deciso di non tornare più.

Anche la sua mamma se n'era andata. Con un biglietto scritto su un foglio a quadri strappato da uno dei suoi quaderni rosa. Era andata via una mattina di inizio giugno e, chissà perché, aveva fatto bel tempo tutta la settimana ma in quel momento aveva iniziato a piovere a dirotto.

Forse, il cielo aveva deciso di stare accanto a quella bambina troppo piccola per realizzare che la mamma aveva abbandonato lei e il suo papà.

Il suo papà era andato via. Si era risposato e sembrava tutto perfetto ma poi si era stancato di lei. Non la coccolava più. Non le raccontava più le favole della buonanotte, rimboccandole le coperte e dandole un bacio sulla fronte. Non l'aveva voluta più e, forse, era stato per quel motivo che aveva deciso di darle due fratellini. Un po' di compagnia per lei, aveva pensato all'inizio, realizzando solo dopo che fossero la scusa per occuparsi sempre meno di lei.

E Janette? Lei forse aveva provato a starle vicino ma, chissà perché, Annabeth aveva respinto anche lei. Aveva fatto stancare anche lei. Perché, dopo un po', Janette aveva smesso di sorriderle e di prepararle la colazione.

Solo lui era sempre rimasto al suo fianco, a darle ciò che si meritava per aver mandato tutti via. A farla diventare una donna.

L'ennesimo tuono la fece rabbrividire con un sussulto ed Annabeth guardò in alto, verso il cielo terso di nubi. – Basta. Basta. Smettetela – mormorò, stringendosi le braccia attorno al corpo un po' più forte, proteggendosi dai demoni che non riusciva a sconfiggere.

Lei voleva essere felice così ardentemente che non aveva mai perso la speranza. Lei voleva essere felice per davvero ma come poteva essere felice se non era ancora riuscita a fare i conti col suo passato? Come poteva farcela se continuava a respingere chiunque?

Se continua a respingere persino Percy che non aveva mai smesso di provarci.

Il vento tirò un po' più forte ed Annabeth osservò il cielo che minacciava di far piovere da un momento all'altro. Forse sarebbe dovuta tornare al college. Forse avrebbe dovuto dire a Percy cosa le era successo. Forse avrebbe dovuto provare ad aprirsi ancora una volta e vedere cosa sarebbe successo.

Magari, Percy non le avrebbe fatto del male.

Magari, Percy sarebbe stato al suo fianco, le avrebbe stretto la mano e l'avrebbe aiutata a combattere.

Sei mia.

Tutti se ne vanno.

- Basta.

Come si era permessa?

***

- Cosa vuol dire che è uscita? – tuonò Talia, poggiando il più delicatamente possibile il caffé e la busta marrone che chissà cosa doveva contenere, sulla scrivania.

- Vuol dire che è andava via. Si è divincolata ed è andata via. Ha detto che voleva stare da sola – si giustificò Percy, le spalle inarcate, gli occhi stanchi.

Ma Talia sembrò non avere affatto pietà di quell'immagine. – E tu.. – tuonò, abbassando i toni e respirando più profondamente solo quando Luke si schiarì la gola. – E tu hai pensato bene di lasciarla andare. Sconvolta com'era. Percy, ma che diav..

- IO SONO STANCO, TALIA! – urlò, battendo un pugno al muro accanto a lui, ignorando il dolore sordo. – Io sono stanco, chiaro? Ci ho provato! Ho provato a starle vicino, a spiegarle che si sarebbe potuta fidare, che io per lei ci sarei stato, ma mi respinge sempre! – gridò, dando un pugno al muro per la seconda volta, soffiando fra i denti per la fitta di dolore alle nocche. – Lei può scappare via, può crollare, può piangere. Io non posso farlo? – esclamò, allontanandosi dal muro di qualche passo, impedendosi di colpirlo ancora. – Nessuno si preoccupa di come diavolo sto io? Nessuno si preoccupa di quanto mi abbia fatto paura vederla, due giorni fa, a terra mentre singhiozzava? Nessuna spiegazione! – continuò, sollevando le braccia al cielo. – Solo un:"Percy, vai via" mentre lei continuava a piangere. Ho visto, nei suoi occhi, la paura più cieca ma non ho avuto spiegazioni. Ho dovuto accettare passivamente. Devo resistere perché lei sta male ed ha bisogno di tempo. Perché lei sta male e ha bisogno d'aiuto. – Si puntò un dito contro al petto, furioso. – Io non ho bisogno d'aiuto, eh, Talia? Io sto bene, secondo te? – rise, amaro, ignorando lo sguardo mortificato della ragazza davanti a lui. – La vedo piangere. Mi urla contro che devo andare via, che devo lasciarla andare. Pensi che mi faccia piacere? Pensi che mi piaccia essere cacciato via da una ragazza che mi piace? E mi piace veramente tanto se sono ancora dietro di lei nonostante mi abbia detto di levarmi dai coglioni! – respirò più profondamente, passandosi una mano tra i capelli già di per sé scompigliati. – In modo molto più educato ovviamente. Annabeth non dice parolacce. – Chiuse gli occhi per qualche istante nel tentativo di scacciare via la rabbia ed il terrore che gli facevano tremare le mani. – Anche io sto male, Talia. Io vorrei salvarla ogni volta che la vedo piangere. Vorrei stringerla al petto e dirle che andrà tutto bene, che ci sono io. Che può piangere contro di me ancora una volta, che non c'è bisogno che mi dica niente, a me basta solo sentirla vicino. – Sollevò lo sguardo, cercando le pozze elettriche di Talia fino a che i loro sguardi non si fusero. – Io lo vedo che Annabeth è distrutta, Talia. Lo so. L'ho capito. Ed io voglio salvarla più di ogni altra cosa, ma come fai a salvare qualcuno che non vuole essere salvato?

E dall'istante stesso in cui Talia lo guardò, Percy capì che lei sapeva. Sapeva ogni cosa. Sapeva tutto. Annabeth aveva parlato con lei, si era confessata. Aveva abbassato le difese e, per nulla al mondo, Talia vi avrebbe fatto breccia dicendolo a Percy.

Le sue spalle si piegarono leggermente sotto al peso di quella consapevolezza ed il cuore saltò un battito, mozzandogli il respiro.

Distrutto.

Ancora.

Era distrutto ancora una volta.

- Lei vuole essere salvata, Percy – mormorò Talia lentamente, cercando con insistenza lo sguardo che il ragazzo continuava a tenere puntato sulla punta rovinata delle scarpe. – Solo che pensa di non meritarselo. – Solo quando Talia sganciò la bomba, Percy si decise ad alzare lo sguardo sul suo. – Annabeth è stata.. – si interruppe di colpo, bagnandosi le labbra nervosamente. – Annabeth è stata distrutta in pezzi minuscoli, va bene? – parlava ancora piano, come per assicurarsi che Percy capisse ogni parola al meglio. E lui -cavolo- non aveva intenzione di perdersene nemmeno una. – è convinta di non meritarsi niente di quello che ha perché tutte le persone nella sua vita se ne sono andate. L'hanno abbandonata. L'hanno lasciata sola.

Ed è scappata di casa, saltando di orfanotrio in orfanotrio.

Aveva paura.

- Ha paura che me ne vada anche io – mormorò piano, scuotendo la testa, trattenendo un brivido a quella consapevolezza che l'aveva colpito con la stessa forza di un pugno. – L'hanno lasciata tutti e pensa che sia stata colpa sua. Non vuole che io mi avvicini a lei perché ha paura che poi possa abbandonarla. Respinge per non essere respinta – terminò, stringendo forte i pugni lungo ai fianchi.

Come avevano potuto farle una cosa del genere? Come avevano potuto traumatizzarla così radicalmente al punto da non permetterle più di affezionarsi a qualcuno?

- Ma perché respinge me e non voi d..

Luke si batté la mano sulla fronte, scuotendo la testa sconsolato. – è davvero così idiota? – mormorò, indicando Percy col pollice, guardando Talia accanto a sé. – Ovviamente – esclamò, osservando poi il moro con gli occhi azzurri carichi di sarcasmo ed ironia. – Noi due non le piacciamo come le piaci tu. – Scosse la testa ancora una volta. – Razza di rincoglionito.

Aveva afferrato due coperte e le chiavi del fuoristrada di chissà quale mano di Luke prima di correre via a cercare Annabeth. E la parte peggiore era che non avesse affatto idea da dove partire.

L'ultima volta era al campus e non si era allontanata da troppo tempo. In quel momento era nel cuore di Boston ed era uscita da quasi un'ora. Era un'impresa praticamente impossibile.

Un paio di gocce di pioggia gli bagnarono il vetro dell'auto ed imprecò, tamburellando sul volante quando fu costretto a fermarsi al semaforo.

Annabeth voleva sicuramente stare da sola e, considerato si fosse allontanata da quasi un'ora e fosse a piedi, non poteva poi essere arrivata troppo lontano. Voleva un posto tranquillo, dove poter piangere senza che nessuno la vedesse.

Al campus era andata in giardino e perché avrebbe dovuto cambiare abitudini proprio in quel momento, proprio in città dove, in meno di un'ora a piedi, avrebbe potuto raggiungere il Public Garden?

Quando il semaforo scattò, le ruote sfregarono sull'asfalto ed altre gocce di poggia colpirono il vetro mentre Percy partiva il più veloce possibile, suonando il clacson un paio di volte nel tentativo di poter andare più veloce e superare chiunque gli stesse intralciando la via.

Strinse i pugni forte attorno al volante, passandosi la mano sinistra tra i capelli prima di riprendere il controllo dell'auto, scalando marcia velocemente ed azzardandosi a premere il piede sull'acceleratore un po' più forte in quel momento.

Doveva muoversi.

Non mancava molto al Public Garden ma -cavolo- sembrava che le macchine davanti a lui e le persone che dovevano attraversare si stessero muovendo nella melassa. Erano lenti, ottusi e non avrebbero dovuto muoversi più velocemente considerato stesse per iniziare a piovere?

Un tuono fece tremare i finestrini ed un lampo illuminò il cielo all'orizzonte, spingendolo ad osservare la strada più febbrilmente, attivando i tergicristalli quando ritenne che la pioggia stesse diventando molto più insistente.

Svoltò a destra, frenando poi di colpo quando vide, solo all'ultimo momento, una signora che aveva deciso di attraversare poco più avanti delle strisce pedonali. La maledisse per qualche istante prima di ripartire più velocemente, bruciando l'ennesimo semaforo rosso, attraversando l'incrocio prima che potessero passare altre macchine.

Poteva farcela.

Doveva farcela ed il Public Garden era così vicino.

Sarebbe andato a riprenderla.

L'avrebbe salvata.

Stava sulla punta del sedile, stringendo il voltante così forte tra le dita che, ad un certo punto, aveva anche smesso di sentirsele. Così, magari, sarebbe andato più velocemente o il cuore avrebbe smesso di battere con la stessa forza, ovattandogli le orecchie. E lo stomaco avrebbe cessato di contorcersi in una morsa fastidiosa che gli impediva di respirare come avrebbe dovuto.

Percy Jackson, in quel momento, aveva iniziato ad avere paura de semafori rossi perché, no, non duravano tanto, ma erano comunque secondi che lo separavano da Annabeth e questo non riusciva ad accettarlo, non voleva.

Voleva che sparissero tutti.

Voleva che la pioggia cessasse di cadere. Che il cielo la smettesse di tuonare. Forse, così, avrebbe iniziato a vedere e sentire più chiaramente. Forse sarebbe riuscito a vedere Annabeth che, bellissima, cammina sul marciapiede.

Il cuore saltò di un battito quando vide l'ennesimo semaforo che era appena diventato rosso e lo stomaco si chiuse per il terrore, mozzandogli il respiro. La gola si strinse sotto la presa forte di una mano gelida che -cavolo- era da troppi anni che non sentiva ed assottigliò lo sguardo.

Era stanco di avere paura.

Ignorò i clacson dietro di lui e premette il piede sull'acceleratore un po' più forte, imprecando quando fu costretto a frenare per una macchina che aspettava pazientemente il semaforo. Le gocce di pioggia presero a tamburellare con un po' più forza sul vetro e sbuffò sporgendosi in avanti, oltre il volante, nel tentativo di poter vedere più chiaramente la strada davanti a sé.

- Andiamo – mormorò, ballando sul sedile, stringendo forte il volante tra i pugni mentre il piede tremava sull'acceleratore. – Muoviti, muoviti, muoviti – esalò febbrilmente, imprecando quando scattò il verde e lui, scattando a sinistra, fu nuovamente libero di correre più velocemente.

Lanciò uno sguardo verso il cartello che diceva Public Garden, la freccia che indicava a destra e non perse tempo a girare, lasciando che le gomme stridessero sull'asfalto. Qualcuno imprecò e, forse, se la pioggia non fosse poi stata così insistente, avrebbe anche sentito chiaramente gli sproloqui del passante che aveva quasi investito.

Il Public Garden era lì. Il muro di mattoni rossicci, il cancello grigio spalancato. Era solo dall'altra parte della strada. Era bellissimo. Era così vicino e -forse- lì sarebbe anche riuscito a trovare Annabeth.

Lo stomaco si contorse in una morsa nervosa e si sporse nuovamente oltre il volante, decelerando, socchiudendo le palpebre nel tentativo di individuare Annabeth. I tergicristalli facevano del proprio meglio per schiarirgli la vista ma erano necessari pochi istanti prima che la pioggia torrida potesse nuovamente tornare a bagnare il vetro. Accostò vicino al marciapiede, lasciandosi cadere contro al sedile e passandosi le mani tra i capelli neri che, no, non voleva neanche pensare a quanto fossero scompigliati. Aveva perso il conto di tutte le volte che, per il nervoso durante quella giornata, ci aveva passato le mani in mezzo. Si accarezzò gli occhi stanchi, e si chiese fino a che punto sarebbe stato disposto a spingersi pur di poterla recuperare. Si chiese fino a che punto sarebbe stato in grado di spingersi pur di portare Annabeth a casa.

E poi, dall'altra parte della strada, la vide una testa bionda, poco chiara per la pioggia che bagnava costantemente il vetro. Era lei, con i capelli biondi attaccati alla schiena. Col golfo chiaro che aderiva al corpo ed i jeans aderenti più scuri per colpa della pioggia.

Era lei, dall'altra parte della strada, che sembrava stringersi le braccia attorno al corpo, forse per il freddo, ma continuava a camminare imperterrita verso l'ingresso del parco, ignorando il semaforo rosso per i pedoni e le macchine che correvano per tornare a casa.

Percy scivolò fuori dalla macchina velocemente, sbattendosi lo sportello alle spalle, muovendosi rapido verso di lei. – Annabeth! – gridò, nello stesso istante in cui il rombo di un tuono spezzò l'armonia che era in grado di donare il suo della pioggia e un lampo illuminava il cielo grigio. – Annabeth! – urlò ancora ma la pioggia era forte e batteva con insistenza contro le macchine e contro l'asfalto. Ed Annabeth, con la stessa insistenza, continuava a camminare verso l'ingresso del parco, ignorando il semaforo rosso per i pedoni o le macchine che passavano così veloci e così vicine a lei.

Era lì, che stava per attraversare senza che avesse nessuna apparente intenzione di fermarsi. E le macchine continuavano a passare ed il semaforo era sempre rosso e lei non si fermava.

- Annabeth! – urlò ancora, correndo più velocemente, scostandosi i capelli bagnati da davanti agli occhi, tentando di vederla più chiaramente oltre la coltre di pioggia.

Aveva gridato ma lei non l'aveva sentito e stava per attraversare. E le macchine continuavano a correre, suonavano il clacson per non farla passare ed il semafono era sempre rosso.

Ed Annabeth stava per attraversare in quel momento forse perché, quelle macchine, le stava cercando. Forse perché voleva davvero vederle più da vicino. Non poteva non aver notato il semaforo rosso.

Mise un piede sull'asfalto, sulla prima striscia bianca ed una macchina le sfrecciò davanti, strombazzando il clacson ancora una volta.

Le macchine continuavano a passare ed il semaforo era sempre rosso e lei non aveva nessuna intenzione di fermarsi.

Quella stessa presa gelida, la stessa che aveva deciso di torturarlo in macchina, gli serrò la gola in una morsa ferrea, mozzandogli il respiro ed il cuore, per attimi interminabili, sembrò aver smesso di battere.

Fu in quel momento che Percy iniziò a correre più veloce.


Angolo autrice: 

come promesso, miei fiorellini bellissimi! E questo, lo prometto, è l'ultimo capitolo che vi farà soffrire ahahaha

vi voglio bene<3<3   

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