40. The blackmail
«E così, alla fine è riuscito a portarti via, da me»
Quella voce. Pungente quanto calda, dal tono spavaldo che denotava eccessiva sicurezza e pienezza di sé. Una voce quasi dal tratto malizioso ad indicare qualcosa di maniacale, ossessivo oserei dire, come se non potesse permettersi di perdere quella sfida per nessun motivo al mondo.
Quella sfida ero io.
Non ebbi il coraggio sufficiente per voltarmi, perciò mi limitai a strabuzzare gli occhi in silenzio, avvalendomi del fatto che lui fosse alle mie spalle, incapace di vedermi.
Sentii come un vuoto nel mio petto: un battito era venuto a mancare.
Fu questione di un attimo e me lo ritrovai di fronte, comodamente seduto sulla poltrona posta esattamente davanti la mia, con un piede su una gamba, le braccia allargate ad occupare le spalliere di entrambi i posti, e l'espressione del tutto indifferente con lo sguardo puntato verso il vetro, verso la città in frenetico movimento.
Agli occhi di un esterno sarebbe potuto sembrare un normale incontro tra due amici, un appuntamento amichevole come tanti in una gelateria in centro. Ma lui non era mio amico. Non era mai stato un amico.
Un tempo credevo fosse amico di James, ma in realtà mi sbagliavo enormemente. Aveva tradito quello che tutti credevamo fosse il suo migliore amico. E tutto per cosa?
Per una morbosa mania di cui ancora non conoscevo la causa.
Si passò le dita fra il ciuffo castano e si avvicinò al tavolo, poggiando i gomiti su di esso, e parandosi di fronte a me, iniziando a fissarmi con quegli occhi neri profondi come pozzi, creando in me una forte sensazione di disagio.
Allora era proprio vero: le disgrazie non vengono mai da sole.
Non ressi il suo sguardo, perciò ritornai a consumare il mio pasto come se lui non fosse lí, davanti a me, con tutta l'aria di essere intenzionato e determinato a rovinarmi la vita. Quello che ancora mi sfuggiva era il motivo. Perché mai doveva avercela talmente a morte con me e con James?
«Cosa vuoi?» domandai con la freddezza di un tempo, che tuttavia non mi aveva ancora abbandonata del tutto.
Nel frattempo una commessa del bar si avvicinò al nostro tavolo per prendere le ordinazioni del nuovo arrivato, il quale chiese del caffè che non tardò ad arrivare nonostante le numerose persone che affollavano il locale.
Logan bevve dal bicchiere per poi passarsi il dorso della mano sulle labbra.
«Sono venuto qui per domandarti una cosa»
Per poco non lo presi a calci davanti a tutti. Spostai il mio sguardo adirato sulla sua faccia, e serrai la mascella più che potei per non lasciare che delle orribili parole uscissero dalle mie labbra proprio in quel momento e in quel luogo.
«Logan, tu ci hai seguiti fino a Los Angeles. Smettila di fare questi giochi da ragazzino e vai dritto al punto. Non si percorrono migliaia di miglia per chiedere una cosa. Perciò, ripeto la domanda, che diavolo vuoi da me?»
Avvicinò nuovamente il bicchiere alle labbra, indifferente, quasi come se avesse ignorato ciò che gli avevo detto.
«E va bene. Sei in gamba, perciò temo di non poterti fregare molto facilmente» dichiarò poggiando il caffè sul tavolo e rivolgendomi la sua completa attenzione.
«Non mi dilungherò ulteriormente, perciò andrò dritto al punto. Sono venuto qui per chiederti di fare un patto»
«E cosa ti fa pensare che io accetterò?» se pensava che io fossi disposta ad attenermi alle sue condizioni, si sbagliava di grosso.
«Nulla. Io so già che accetterai, perché tieni molto a James, anche se ultimamente state passando un periodo un po' così a causa della sua possessività»
Per poco non mi cadde il cono dalla mano, e, non appena colsi appieno i due messaggi della sua affermazione, come una scarica elettrica mortale, un brivido si espanse nel bel mezzo del petto, e alzai lentamente lo sguardo fino ad incrociare il suo che mi scrutava in fondo, in quanto già consapevole che aveva vinto lui in partenza.
Ciò che aveva detto rivelava due verità: tanto per cominciare, se non avessi accettato il suo patto si sarebbe servito di James per ricattarmi -non sapevo in che modo, e francamente non volevo saperlo affatto- poiché sapeva che io lo amavo più di me stessa; e la seconda deduzione, che mi fece preoccupare più della prima, era la seguente: come faceva a sapere che io e James avevamo litigato per motivi di gelosia?
La risposta a questo punto interrogativo, con un po' di materia grigia, era piú che scontata.
Logan ci stava spiando. Sapeva ogni nostra mossa, ogni movimento, ogni minima cosa che facevamo. Aveva solo aspettato il momento giusto per intervenire, proprio come fanno i grandi predatori con le prede più piccole e indifese.
La tigre si apposta per minuti, a volte ore, ad osservare il piccolo cerbiatto che si abbevera ad una fonte, ignaro dell'orribile destino che lo aspetta. Poi, nel momento in cui il povero cerbiatto è rimasto solo e senza l'ausilio del branco, ecco che la tigre entra in azione, e per il piccolo animale non ci sarà mai un lieto fine.
«Perché Logan? Perché ce l'hai tanto con me? Cristo, cosa ti ho fatto?» sbottai sentendo gli occhi pizzicare al solo pensiero che potesse accadere qualcosa a James, che era tutto ciò che avevo.
«Tu non mi hai fatto proprio niente, anzi, mi dispiace proprio che tu ci sia andata di mezzo»
«Risparmiati i convenevoli. Cosa vuoi allora da James? Siete amici, siete cresciuti insieme, fianco a fianco, come si fa a tradire la fiducia di una persona in questo modo?»
«Amici?!» Logan parve abbandonare l'atteggiamento di indifferenza che aveva mantenuto per tutto il tempo, e si alterò, stando allo sguardo che assunse e al modo in cui serrò improvvisamente il pugno.
«Fino a prova contraria sei stato tu a chiamare la polizia per farci arrestare, James era venuto in buona fede, e parlava di te come se fossi suo fratello. Sei stato tu il bastardo!» non mi seppi trattenere ulteriormente e gli sbraitai in faccia tutto ciò che avevo tenuto dentro per così tanto tempo, e che in fondo speravo, un giorno, di potergli rinfacciare. E finalmente quel giorno era arrivato.
Pareva nervoso, infatti quasi meccanicamente, strinse il bicchiere fra le mani e bevve ancora, muovendosi di continuo e spostando lo sguardo ovunque tranne che su di me.
«Non ti ho ancora detto qual è il patto» cambiò radicalmente discorso, perciò mi gettai a peso morto sulla poltrona liberando un sospiro di frustrazione e di rabbia.
Portai la mano sulla fronte che massaggiai con le dita, in quanto il risultato di tutti quegli inutili giri di parole era soltanto un potenziale mal di testa.
«Se vuoi che James non finisca di nuovo in carcere, dovrai allontanarti da lui»
«Che cosa?!» urlai guardandolo indignata, ma lui rimase indifferente. Proprio come lo era James un tempo.
«No, mai» affermai risolutamente. Niente e nessuno mi avrebbe mai potuto impedire di stare con l'uomo che amavo.
«Ne sei sicura?» domandò, al che rimasi alquanto pensierosa, dato che se non avessi mantenuto fede al patto, Logan avrebbe telefonato la polizia e lo avrebbe fatto arrestare. Non potevo permettermi una tale sconfitta.
«Ti rendi conto che mi stai ricattando?» domandai. Riusciva a capire che ciò che faceva non sarebbe facilmente finito nel dimenticatoio e che probabilmente avremmo escogitato qualcosa per vendicarci? Ma "noi" chi?
Stando alle condizioni del ricatto, fra me e James non ci sarebbe più potuto essere alcun "noi".
«Accetto» risposi infine, rassegnata. L'amore che provavo per James era incomparabile, ed era proprio per questo che non potevo permettere che gli accadesse nulla di spiacevole. La sua felicità veniva prima di tutto, prima della mia. E se, in un primo momento, avesse sofferto per il mio allontanamento, dopo qualche tempo sarebbe tornato tutto normale. Avrebbe trovato qualcun'altra, avrebbe vissuto la sua vita felicemente, anziché dietro delle sbarre di ferro.
Ero fiera della mia scelta. Tuttavia non potei nascondere una lacrima traditrice che scese da un occhio umido e solcò il mio volto.
«Perchè?»
Non rispose. Forse non c'era neanche un motivo, forse era uno psicopatico e basta, ma qualcosa mi diceva che dietro quella decisione così drastica c'era un motivo solido, nonostante all'apparenza potesse sembrare un'azione del tutto meritevole del peggior odio possibile.
«Voglio che provi cosa vuol dire perdere la persona che si ama» gettò fuori quelle parole quasi come veleno, amaramente, e con un puro desiderio di vendetta.
«Cosa? Ma porca troia, quale motivo spinge una persona a fare una cosa simile? Cosa mai ha potuto farti James di così male?» sbottai con le lacrime agli occhi.
«Le condizioni le sai, se vuoi che James ne esca incensurato, rispettale» fu l'ultima cosa che disse, prima di alzarsi e andarsene.
Proprio allora che mi pareva di aver lasciato alle spalle tutte le insidie del passato, ecco che ritornavano tutte a galla peggio di prima.
Era un sortilegio, una condanna con la quale ero costretta a convivere.
Mi presi la testa fra le mani, e dopo qualche secondo che mi presi per ricompormi, mi alzai e con passo deciso uscii fuori dalla gelateria sbattendo la porta, motivo per cui molti dei passanti e della gente nel locale si girò a guardarmi, probabilmente per il tonfo che aveva generato.
Una volta fuori, alzai il cappuccio della felpa e iniziai a camminare, desiderando in cuor mio di non essere mai nata, in quanto la mia vita portava disgrazie a me stessa e a tutti coloro che avevano la sfortuna di stare intorno a me.
E quello che mi faceva più male di tutto, era il pensiero che James avrebbe vissuto provando odio nei miei confronti, perché non avrebbe mai saputo che ciò che facevo, era soltanto per il suo bene, perché lo amavo.
Tuttavia non mi pentii della mia scelta, niente affatto.
E di barare non se ne parlava nemmeno. Logan sapeva che io e James avevamo litigato per la sua gelosia. Sapeva tutto di noi, ci teneva d'occhio, perciò un passo falso, anche il minimo, mi sarebbe costata la libertà di James. Conveniva giocare pulito con lui.
Ma per quale motivo poi? Cosa poteva averlo spinto a vendicarsi di lui in questo modo? Cosa poteva avergli fatto James, che lo considerava un amico, un fratello?
E senza nemmeno accorgermene, tra un pensiero e l'altro, ero già sotto l'uscio di casa.
Alzai il capo sospirando pesantemente e preparandomi psicologicamente alla terribile sventura cui stavo andando incontro.
Dovevo farlo, per il suo bene.
Mi feci coraggio e abbassai la maniglia per poi spingere la porta e trovarmelo davanti, con lo sguardo teneramente pentito, l'espressione teneramente affranta e quasi elemosinante di perdono.
Abbi forza.
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