32. Wishes

«Allora, raccontami tutto. Non sto nella pelle!» lo incitai prendendo posto al tavolo della cucina, e intrecciando le dita così da accentuare la mia attenzione nei suoi confronti. Ero davvero ansiosa di sapere come si era svolto il suo primo giorno, o meglio, la sua prima notte di lavoro.
Aprì le labbra in uno splendido sorriso, ed estrasse dal frigo la nostra colazione, per poi poggiarla sul tavolo e sedersi di fronte a me nel modo in cui soleva fare ogni mattina appena eravamo alzati.
«Be', ecco...» iniziò titubante per poi bloccarsi mentre mi affrettavo ad aprire un pacco di biscotti ed estrarne uno. Lo guardai inarcando un sopracciglio, come per dirgli "allora, ti muovi!?" e lui parve cogliere il messaggio al volo in quanto domandò: «Si, ma da dove comincio?»
«Dall'inizio?» risposi quasi in tono di domanda.

Poco dopo nella stanza riecheggiava il suono delle nostre risate miste alla sua voce che mi accusava di ridicolizzarlo in continuazione. Non era colpa mia se sette ore di sonno non gli bastavano per affrontare la giornata a mente lucida.

«No, sul serio. È andata bene»
«Tutto qui? Santo cielo, io voglio sapere tutto!» mi lamentai quasi come una bambina.
Sbuffò roteando gli occhi, per poi trascinare verso di lui il pacco di biscotti.
«Che vuoi sapere?» domandò con tono scocciato, guardandomi però di sottecchi.
«Beh, cosa hai fatto, com'è l'ambiente...» mi guardai attorno con fare misterioso per poi aggiungere con tono abbastanza sensuale: «...come sono i ballerini»

Rimase in silenzio per un po', guardandomi serio.
«Sai che se continui così non ti dirò un bel niente» disse visibilmente irritato dalla mia battuta.
«Dai James, lo sai che per me esisti solo tu»
E fu esilarante vedere come il sorriso compiaciuto svanì presto dal suo volto non appena aggiunsi una sola parola.
«Forse...»

«Ti sembra divertente?» domandò incrociando le braccia al petto, mentre io mi asciugavo le lacrime formatesi agli angoli degli occhi, e a momenti cadevo dalla sedia.
«Ah, è così?» aggiunse stavolta tentando di nascondere un sorriso traditore che si ostinava ad apparirgli sulle labbra, nonostante tutti i tentativi che facesse pur di apparire serio e irritato.

Dopo qualche minuto, appena la crisi di riso fu placata, iniziò a raccontare l'andamento della serata.
Raccontò che appena fu entrato era rimasto subito confuso dalle mille luci brillanti sparse per il soffitto, stordito dalla musica ad un volume superiore alla soglia del dolore, e stupito dalla quantità di gente che popolava il locale, gente di ogni tipo: dagli adolescenti agli uomini di mezz'età, dal bianco al negro.
Mi disse che venne accolto dal DJ, il quale gli si era presentato con il nome Liam. Gli chiesi di descriverlo fisicamente, ma ovviamente ricevetti un'occhiata stranita che a stento mi fece trattenere le risa. Spiegò che Liam gli aveva subito illustrato cosa doveva fare, e ciò non era altro che ballare e intrattenere la folla. Mi disse poi che fu il turno per tutti i ballerini di esibirsi uno per volta.

«E com'è andata?» domandai totalmente affascinata dal suo racconto, ancora inconsapevole del fatto che ciò non era tutto quello che era accaduto durante la serata.
Mi lanciò un'occhiata piena di malizia, con tanto di sopracciglio inarcato e sorrisetto sornione, per poi incrociare le braccia dietro la nuca e rispondere: «Sapessi quante ragazze applaudivano e urlavano per me»
Fu una fortuna che il tavolo era di dimensioni ridotte, poiché tirargli un calcio sulla gamba fu un gioco da ragazzi.
«Ahi, ma sei scema!» sbraitò facendo un balzo indietro con la sedia.
«Dicono che ballare con una gamba in meno sia difficile»
«Allora io che dovrei fare riguardo le tue continue battute? Dovrei picchiarti anch'io»
«Non credo che tu ci possa riuscire» risposi con aria di importanza.

James mi si avvicinò lentamente, poggiando entrambe le braccia sul tavolo, e sussurrando: «L'ho fatto tante volte»
Non era il tono a preoccuparmi, ma lo sguardo. Io lo guardai interrogativa, aggrottando le sopracciglia. Poi si avvicinò ancora di più e mi diede un bacio che ricambiai a stento, in quanto non capivo assolutamente a cosa si riferisse. Non aveva mai alzato un dito su di me, a parte quella parentesi della notte in albergo. Lí però era diverso, stava avendo un incubo e nell'impeto del risveglio ci andò di mezzo la mia gola, ma appena acquisì coscienza mi chiese subito scusa. Dunque, di cosa parlava?

«Di che parli?» domandai appena si staccò.
«Hai già dimenticato? Eppure pensavo ti piacesse. Una volta hai perfino sanguinato»
Ci misi un solo secondo per capire a cosa si riferiva, e di conseguenza mi portai una mano in fronte.
«Io ci rinuncio. Rinuncio a trattare con te e con la tua mente malata» dichiarai alzandomi dal tavolo e incamminandomi con l'intento di andare in bagno, sotto il suo sguardo divertito.
Per un attimo avevo pensato chissà cosa, e alla fine si riferiva a ben altro.
E poi, io lo sapevo. Sapevo che James non mi avrebbe mai fatto del male, sapevo che non avrebbe mai ferito né fisicamente, né mentalmente le persone a cui teneva, e lui mi faceva capire spesso che io ero una di loro, sia con le parole che con i fatti. Perciò, non avevo di che preoccuparmi.

Questo era ciò che pensavo fino ad allora.

Sarà che la doccia mi aiutava a pensare o portava consiglio, non saprei. Posso soltanto affermare con certezza che mentre fui sotto il getto d'acqua tiepida, mi venne un'idea.
Misi un asciugamano attorno al mio corpo, e scesi le scale, trovandolo disteso sul divano, con le mani dietro la nuca, a guardare una partita di football.

«James» chiamai per attirare la sua attenzione.
«Che c'è?»
«Mi chiedevo se stasera potevo venire anch'io»
«Devi venire, altrimenti buttiamo all'aria tanto lavoro per nulla» affermò sorridendo.
Alzai lo sguardo e le braccia al cielo, esasperata.
«Ma non in quel senso. Lasciamo perdere... Come diavolo ti sei svegliato stamattina?» domandai sedendomi anch'io sul divano.
Si alzò a sedere, posando il telecomando sul tavolino, e mi cinse la vita da dietro, poggiando il mento sulla mia spalla ancora umida.

Sospirò, e poi prese a parlare.
«Succede questo quando una bella ragazza piomba in salotto con un asciugamano che minaccia di caderle dalle membra» terminò stampandomi un bacio sulla guancia rosea.
Istintivamente strinsi il telo bianco in cui ero avvolta, impedendogli così di allentarsi in qualche modo.
«Okay, prima che tu ti faccia venire strane idee, io vado a vestirmi» dichiarai baciandolo affettuosamente e affrettandomi a raggiungere la camera da letto, per indossare qualche abito. Comunque non aveva ancora risposto alla mia domanda.
Volevo andare insieme a lui quella sera, ma non perché fossi gelosa o robe del genere, ma per semplice curiosità. E poi, non vedevo l'ora di passare del tempo insieme ad Olivia, gliel'avevo promesso.

Appena scesi le scale lo trovai davanti la porta, intento ad infilare le chiavi dell'auto in tasca.
«Dove vai?»
«Al supermercato, vuoi venire?»
«Sí» affermai con un sorriso.
«Allora vieni» sorrise maliziosamente.
«Cammina» ordinai con tono duro spingendolo fuori dalla porta per poi chiuderla rumorosamente alle mie spalle.

Ci dirigemmo così in auto, in quell'auto che adesso sapeva un po' di noi, che ci aveva visti insieme mille volte, talvolta arrabbiati e impegnati in una battaglia l'una contro l'altro, talvolta uniti e affiatati.

«James»
«Dimmi pure» rispose in tono gentile.
«Prima, avevo intenzione di porti una domanda, ma non me l'hai permesso per motivi ignoti che soltanto il tuo psicologo di fiducia può conoscere»
Sorrise e mi incitò a continuare.
«Mi porti con te stasera?» domandai senza tante cerimonie. Si, tra i tanti difetti, o forse pregi, del mio carattere c'era anche quello di essere diretta, e di dire una qualche cosa senza fare troppi giri di parole.
«Intendi al club?» domandò quasi come se non si aspettasse affatto quella domanda.
«Si, portami con te»
Ecco che cambiò espressione, la quale assunse le solite sopracciglia aggrottate e lo sguardo cupo.
«Ma come diavolo ti viene in mente? È pieno di ubriaconi, di uomini di ogni tipo. No, niente da fare. Tu non verrai»
Non so se fu il tono a darmi sui nervi oppure la durezza e la fermezza delle parole, tanto che mi trovai inspiegabilmente incazzata.
«Senti James, non cominciare a farmi la paternale. Non sono una bambina, so benissimo badare a me stessa e ti ricordo che ho ucciso un uomo»
E a quelle orribili parole abbassai il tono della voce, e con esso il capo. Nonostante fosse passato un bel po' di tempo, nonostante sapessi che se lo era meritato e che non era colpa mia, quel rimorso faceva male.
«Ma che pensi, che sono un idiota?» il suo tono invece non ne voleva sapere di placarsi.
«Che vuoi dire?»
«Tu vuoi venire con me soltanto perché non ti fidi, perché sei gelosa. L'ho capito sai?»
Veramente non aveva capito un bel niente.
«Senti James, finiscila di sparare cazzate su cazzate. Per prima cosa: io non sono affatto gelosa, altrimenti non ti avrei nemmeno permesso di mettere un piede in quel locale, figuriamoci poi fatti assumere. Secondo, non venirmi a spiegare come funzionano quei locali, io ho passato quattro anni della mia vita a ballare sui cubi, se proprio vuoi saperlo. E inoltre, nonostante tutto questo, e tu lo sai...» specificai «Non sono mai andata a letto con nessuno. Perciò fammi il sacrosanto piacere di chiudere il becco e portarmi lí stasera, perché ho voglia di vedere un'amica»
Terminò così la piccola disputa, in quanto si zittí una volta per tutte fino a quando giungemmo a destinazione.

Scendemmo dall'auto senza neanche guardarci in faccia e filammo dritti nel supermercato, dopo aver preso un carrello.
Vagammo da reparto a reparto, afferrando ciò che era necessario e buttandolo nel carrello, il tutto, ovviamente, senza parlare, se non a monosillabi.

Quando prendemmo il nostro posto nella fila rivolta verso l'unica cassa funzionante in mezzo ad altre dieci, cosa che succede sempre e inesorabilmente quando hai una certa fretta, il mio sguardo cadde verso un bambino che aveva curvato il viso in un'espressione dolcissima. Avrà avuto due, massimo tre anni, ed era davvero carino. Aveva capelli corti scuri, dello stesso colore degli occhi ingenui che scrutavano a fondo il mio viso.
Istintivamente sorrisi anch'io, per poi rivolgere il mio sguardo verso la donna al suo fianco, probabilmente la mamma, che accortasi della situazione, ne approfittò per avvicinarsi.
«È suo figlio?» domandai guardando il piccoletto che intanto si era avvicinato.
«Si, si chiama Vincent» spiegò intanto che mi chinavo verso il bimbo.
«Può prenderlo» mi disse la donna.
«Posso?» domandai insicura, e lei annuí.

Afferrai quella creatura che non arrivava neanche ad un metro di altezza, e lo issai in braccio, mentre il soggetto in questione si stringeva a me in una maniera assolutamente commovente.
«Lei gli piace molto» affermò la mamma sorridendo ampiamente.
«Ha figli?» domandò ancora.
«No» risposi quasi dispiaciuta.
Per un momento, mentre tenevo quel bambino tra le mie braccia, mi balenò in mente il desiderio di avere anch'io una creatura che mi chiamasse mamma, che venisse cresciuta e accudita da me, una creatura con il mio stesso sangue e il cognome di James.
Per la prima volta ebbi il desiderio di sentirmi chiamare mamma. Ed ero certa che quel desiderio non si sarebbe spento molto presto.

Venne il nostro turno alla cassa, perciò riconsegnai il bambino alla madre e salutai cordialmente entrambi.

Una volta infilata la spesa nel bagagliaio, entrammo anche noi in auto, ma stavolta con un'atmosfera diversa a circondarci.

«Ho visto come stringevi quel bambino» disse parlando lentamente e con tono calmo, cosa che contrastava assai con il battibecco avvenuto poco tempo prima.
Chinai il capo, poiché sentii che in quel momento James aveva capito tutto, tutto ciò che mi era passato per la mente nell'attimo in cui quel bambino fu tra le mie braccia.
«Senti Jodie, io non so se...»
«No, James. Non dire niente, non fa niente. Se non sei pronto, non voglio costringere nessuno»
«Non è che non sono pronto, è che mi sembra un passo affrettato. Insomma, siamo due evasi, e in più riusciamo a stento ad andare avanti noi due, pensa un po' se ci fosse un'altra persona da mantenere. Se proprio dobbiamo avere un bambino, non voglio che venga privato di ciò che desidera. Io... non voglio che gli manchi nulla»
In fondo aveva ragione, ma qualcosa mi diceva che dovevo fare un altro tentativo.
«Ad un bambino basta avere l'amore di un padre e di una madre. Nient'altro» sussurrai quasi a me stessa, poiché questo era ciò che io non avevo più da molti anni.

James posò una mano sulla mia coscia, e istintivamente unii quella mano alla mia, per poi guardarci e sorriderci a vicenda.
«Te l'ho già detto Jodie, tu rischi sempre»
Sorrisi ripensando a quella notte in albergo, e alle dolci parole che mi disse.
«E io ti risposi che lo faccio volentieri per te»
Mi sorrise un'altra volta per poi riportare lo sguardo e l'attenzione verso la strada.

Aveva ragione lui, era ancora troppo presto, ma avevo colto in lui la buona fede e la volontà in ciò che diceva. Sapevo che prima o poi avrebbe detto sì, e allora saremmo diventati una famiglia, una vera famiglia. Ma prima di mettere al mondo un'altra vita da amare, dovevamo prima imparare ad amarci a vicenda. La lezione più bella e più facile che avessi mai avuto da imparare.

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