3. Goodbye freedom
«Si, sono io» risposi sconvolta e spaventata allo stesso tempo.
Avevo spesso compiuto risse, ma la polizia non era mai arrivata a prendermi a casa mia, con una volante per giunta. In quel momento mi accorsi che qualcosa non andava. Capii che ciò che mi aspettava non era una bella cosa.
«Ci segua in commissariato» ordinò con voce ferma, il che mi irritò non poco.
Mutai la mia espressione da scettica, quale era, in un misto tra l'irritato e il confuso aggrottando le sopracciglia, gesto che ripetevo più spesso di quante volte riuscissi ad accorgermene.
«Perché, se posso?» domandai con una nota di irritazione nel tono.
«Le spiegherà tutto il commissario Skully, ma intanto ci faccia il piacere di seguirci.» rispose semplicemente e con risolutezza.
Quel che era certo, è che dovevo mantenere un certo un certo autocontrollo. Mostrarmi eccessivamente ribelle di fronte alle forze dell'ordine, non mi sembrava la più azzeccata delle idee. Tuttavia, in quel momento, soprattutto dopo l'orribile nottata trascorsa, non trovai contegno a sufficienza per tenere la bocca chiusa.
«Davvero? Sentite, io non ho fatto niente, pago le tasse nonostante io non abbia niente da pagare. Se non avete niente da fare, vi prego di non venire a rompermi...» purtroppo, o per fortuna, non riuscii a terminare la frase che la voce del poliziotto si accavallò alla mia.
«Se lei si ritiene con la coscienza a posto, come sostiene, ci segua senza fare tante storie» l'ispettore davanti a me embrava alterato, perciò presi la saggia decisione di tenere il becco chiuso, almeno per una volta.
«Va bene» mi arresi e detto questo afferrai la giacca lanciandogli occhiate furenti e infuocate, e chiusi la porta alle mie spalle per poi incamminarmi verso una Ford della polizia posteggiata appena davanti casa mia. Entrai nella volante, dopo che il poliziotto ebbe aperto lo sportello -come se io avessi disabilità motorie per farlo- mentre sentivo penetrare fin nelle ossa i numerosi sguardi indiscreti e curiosi dei passanti e dei pochi vicini che ancora erano rimasti fedeli alle loro abitazioni di una delle tante periferie di New York abbandonate a se stessa.
* * *
Nemmeno uno straccio di rivista. Complimenti Skully, non ti smentisci mai.
Aveva ragione mio padre quando, amichevolmente, dava a Skully l'appellativo di "uomo più pigro del mondo".
E infatti cominciavo ad annoiarmi a star seduta fissando il pavimento, sovrappensiero. In quei minuti il mio cervello cercava una risposta a quel comportamento così esagerato e impulsivo da parte della polizia. Insomma, nemmeno avessi rapinato una banca! Feci mente locale, ma non trovai una risposta in grado di mettere a tacere il mio interrogativo.
Esclusi immediatamente la rissa in locale della settimana prima, era passato troppo tempo.
Misi da parte anche l'aggressione ad un ragazzo ubriaco che si era preso troppe libertà con me al Pleasure Paradise. Quel tipo avrà avuto con sé chili di roba, era da escludere che fosse andato dalla polizia.
Esclusi anche l'accusa di "minaccia", che ottenne a causa di una piccola disputa con una donna divorziata e inviperita che per qualche oscura ragione si era rifiutata di pagarmi il lavoro di pitturazione che avevo attuato in un paio di stanze della sua casa. Forse, nella rabbia del momento, qualcosa come " ti ammazzo" o "non vivrai a lungo" era fuoriuscito dalle mie labbra. Ma cosa potevo farci se la gente era cattiva? Cosa potevo fare se non tirar fuori gli aculei per proteggermi da un mondo talmente corrotto e affamato di denaro?
«Cooper, il commissario la aspetta»
Udite queste parole, frenai il flusso di pensieri e mi alzai di scatto dalla sedia. Entrai perciò nell'ufficio del commissario, che era per me come un secondo padre. Da quando se n'erano andati i miei genitori, egli mi aveva sempre dato una mano in tutto. E per questo glien'ero stata sempre grata.
Timorosa, bussai alla sua porta. Non appena una voce burbera a me familiare disse poco graziatamente: «Avanti», entrai nella stanza e chiusi la porta alle mie spalle.
«Volevi vedermi?» domandai all'uomo di fronte a me.
Era in piedi, con lo sguardo rivolto verso la finestra, e fissava il caos di una New York mattiniera.
«Siediti»
Non me lo feci ripetere, e mi sedetti sulla morbida sedia in pelle posta davanti la sua scrivania.
Quella sedia aveva visto molte volte una Jodie bambina intenta a girare e girare su se stessa mentre Skully e un vicequestore di nome Michael, padre della Jodie bambina, discutevano seriamente e con grande professionalità di questioni lavorative.
Skully si voltò e prese posto di fronte a me dietro la scrivania piena di scartoffie varie e qualche fotografia.
Abbassò la testa, faceva di tutto pur di non guardarmi negli occhi, e questo mi fece preoccupare molto.
«Dov'eri ieri sera tra mezzanotte e le due?»
A quella semplice frase, sentii il sangue cessare di scorrere nelle vene e gelare. Un brivido di ghiaccio si spanse nel mio petto.
Allora capii perché ero stata convocata.
«É per il cadavere, vero?»
Skully alzò il capo, e mi fissò, con un'espressione tra il dispiaciuto e il compassionevole.
«Jodie, che ti sta prendendo? La settimana scorsa aggressione, l'altra ancora minacce. Che ti passa per la testa? Hai dimenticato forse chi sei?»
Chinai il capo, consapevole che aveva ragione, e che effettivamente stavo diventando un mostro che cercava guerra.
Continuò.
«Ho sempre chiuso un'occhio per te, e questo l'ho fatto per tuo padre» ammise abbassando il tono di voce, e con esso il capo. «Ma stavolta c'è di mezzo un morto, non posso far finta di nulla»
«Come sanno che sono stata io?»
«Jodie, non prendiamoci in giro.»
Si alzò dalla sedia.
«Il corpo era pieno di tue impronte, così come l'arma del delitto, un paletto in acciaio.»
«Lo so, ma é stata legittima difesa. Credimi.»
«Jodie, io ti credo. Se fosse per me potrei anche lasciarti andare ora, ma il giudice non é clemente come me»
Seguì un lungo silenzio frustrante. Tenevo il capo chino, e con esso lo sguardo.
Ruppi l'insopportabile silenzio venutosi a generare porgendogli la domanda che più di tutte mi frullava in testa.
«Mi aspetterà il carcere?»
Tornò a guardare fuori dalla finestra.
«Questo é sicuro. Stiamo parlando di omicidio colposo. Il giudice potrà anche ridurre la pena tenendo in considerazione la legittima difesa, ma resta il fatto che finirai in carcere.»
Mi alzai dalla sedia e porsi i miei polsi, ma Skully li allontanò. Sapeva che non sarei andata da nessuna parte.
«Mi dispiace piccola» ammise con voce tremolante mentre mi stringeva in un caloroso abbraccio, un abbraccio quasi paterno.
«Non preoccuparti. Non é colpa tua. Sono io ad aver sbagliato, ed é giusto che paghi» ammisi con malinconia, ma in fondo sapevo che me lo meritavo. Se solo fossi scappata, se solo avessi tenuto a freno per una volta il mio senso di vendetta, se solo fossi stata più prudente... Nulla di questo sarebbe successo. E adesso, non mi restava altro che rassegnarmi e affrontare la dura realtà che mi aspettava: il carcere. Una realtà fatta da sbarre, docce in comune, pasti razionati, nessun contatto con la vita.
Una realtà di cui avevo tanto sentito parlare, che tanto avevo temuto al solo pensiero che un giorno avesse potuto soltanto sfiorarmi, e che di cui ora dovevo entrare a far parte.
Varcai la porta di quell'ufficio, con il duro e freddo metallo grigio delle manette a sfiorarmi i polsi, e due agenti mi scortarono in una cella del commissariato.
Quando vi entrai, un brivido di ghiaccio colpì il mio cuore, come se quello fosse l'inizio di qualcosa che mi sarei portata dietro per molto tempo. Una sorta di conto da saldare, e avevo cominciato a pagare proprio in quel momento. Una cella buia, spoglia, con poca luce a riempire il tetro ambiente dal colore blu sbiadito.
Strizzai le mie palpebre e una lacrima scivolò da una di esse per scendere giù lungo la guancia, appena la porta massiccia in metallo venne chiusa con un colpo secco e rumoroso.
E lentamente, mi lasciai scivolare per il muro finché non toccai il freddo pavimento in mattonelle con il sedere.
Avvicinai le ginocchia al petto e mi rannicchiai su me stessa, piangendo silenziosamente tutto il mio dolore.
E tuttavia, strano ma vero, speravo ancora in un lieto fine per la mia storia.
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