26. Cry
«Non mi sembra ancora vero che abbiamo una casa tutta nostra!» esclamai buttandomi sul morbido divano color panna, eccitata e felice nello stesso tempo all'idea di vivere insieme a James, in una casa nostra, proprio come una coppia normale.
In tutta risposta James si gettò a peso morto sul divano, facendomi rimbalzare da esso.
«Quanta delicatezza...» ironizzai fissandolo con un sopracciglio inarcato.
«Hai visto?» rispose a sua volta sorridendomi divertito.
«Almeno potresti fingere di essere felice?» gli domandai notando il suo disinteresse totale riguardo a ciò che avevo dichiarato poco prima.
«Felice per cosa?» domandò lui, al che il sorriso mi morì lentamente sulle labbra.
«Beh, abbiamo una casa nostra, proprio come tutti quanti» sussurrai abbassando la testa per la vergogna, la vergogna di essermi illusa soltanto per un secondo che a lui potesse importare qualcosa, quando per me invece era una questione di massima importanza.
«Scusa, niente... fai finta che non ho detto nulla» dissi acida più a me stessa che a lui, prima di alzarmi e salire in camera da letto, lasciandolo sul divano, da solo.
«Lui era il primo a volere una casa, e poi alla fine non gliene importa niente...» parlavo da sola salendo le scale, tanta era la rabbia che avvertivo.
«Ma chi me la fa fare!» esclamai sbattendo la porta della camera da letto, per poi buttarmi su di esso.
Una ragazza normale in una situazione come questa probabilmente avrebbe reagito piangendo e piangendo fiumi di lacrime, si sarebbe sfogata stringendo con le unghie un cuscino bagnato dalle tante lacrime versate. Appunto. Una ragazza normale, ordinaria, che crede nel principe azzurro, nell'amore vero, che indossa gonne e tacchi alti, che va matta per i cosmetici, che va fuori di senno non appena incominciano i saldi al centro commerciale, una ragazza dolce e sensibile.
Io non ero nulla di tutto ciò. Io non sono mai stata quella che la gente definisce "una ragazza normale", e pertanto, non reagii piangendo lacrime amare.
Mi sedetti sul letto a rimuginare, con il respiro affannato, il battito accelerato e un'imminente crisi di nervi.
Forse ero io ad esagerare. Forse non era chissà quale grande avvenimento il fatto di aver trovato una casa tutta nostra, in cui vivere insieme la nostra vita, sostenendoci l'un l'altro, una casa in cui addormentarsi tutte le sere abbracciati, e risvegliarsi tutte le mattine ancora stretti l'una nelle braccia dell'altro. Forse le mie erano solo stupide farneticazioni senza senso. Però, guarda caso, quelle che forse per lui erano sciocchezze, per me importavano molto, ma questo James non lo capiva.
Il flusso costante di pensieri venne interrotto da alcuni colpi battuti al legno della porta.
«Vai via!»
«Jodie, ascolta...»
Ma non lo feci finire di parlare che gli urlai contro tutto il fiato che avevo in gola.
«HO DETTO VA' VIA!»
Ma lui, come sempre, decise di fare di testa sua, testardo com'era, ed entrò ugualmente.
Non lo guardai in faccia, non volevo. Non potevo. Mi sarei sciolta come la neve al sole.
Con il capo chino, le lenzuola tra le unghie, la mascella serrata, e lo sguardo assente, sentii il letto affossarsi alla mia sinistra, e subito dopo il contatto della sua mano sulle mie spalle, contatto che mi fece calmare quasi del tutto, e che soltanto per un attimo mi fece venire voglia di dimenticare ciò che era successo, e di gettare il tutto nel dimenticatoio con un bacio.
Quello che mi chiedevo era:
Come diavolo riusciva ad avere tutto quel controllo su di me?
Come riusciva a calmarmi soltanto con un tocco?
Come riusciva a farmi provare così tante emozioni forti?
Io, io che da sempre ero stata un involucro vuoto, privo di anima e di cuore pulsante.
Come riusciva a domare così tanto il mio carattere?
Sotto quel tocco delicato, rilassai i muscoli tesi, allentai la presa delle lenzuola tra le mani, ed espirai chiudendo gli occhi, abbandonandomi a quei brividi che mi pervadevano ogni qual volta che venivo sottoposta ad un suo semplice tocco, come, per esempio, una carezza.
«Mi dispiace Jodie» si scusò con tono afflitto, per poi cercare di abbracciarmi.
Nonostante avessi voglia di stringermi al suo petto, nonostante avessi voglia di bearmi del suo calore e di affondare tra le sue braccia, la parte orgogliosa di me prevalse sulla Jodie che avrebbe voluto perdonare.
Mi scansai violentemente per poi alzarmi dal letto e dirigermi in direzione della porta.
Ma venni bloccata improvvisamente dal suo braccio potente, che, afferrando fermamente il mio polso, mi impediva qualsiasi movimento.
«Lasciami»
«No Jodie, ascoltami» disse per poi tirarmi a se, finendo così sulle sue gambe.
«James, lasciami andare!» dissi ancora una volta dimenandomi dalla sua presa.
Ma più tentavo di liberarmi, e più lui mi teneva stretta impedendomelo.
«Jodie ascolta, ascolta!»
Mi afferrò saldamente il busto con un braccio, tenendomi attaccata a sè, al suo corpo, vietandomi qualsiasi movimento, e soffocando i miei inutili tentativi di fuga.
A quel punto mi arresi, e calmai i miei movimenti, rimanendo così ad ascoltare il battito del mio cuore.
Anche lui allentò la presa non appena vide che mi ero calmata, poggiò la sua testa sulla mia spalla e incominciò a parlare.
«Senti Jodie, lo so che sono un insensibile e ho un carattere di merda ma...»
«Oh, ma davvero? Non ci avrei mai pensato!» lo interruppi esclamando sarcasticamente, e alzandomi dalle sue ginocchia, che fino a poco prima mi tenevano prigioniera.
«Jodie cazzo, lasciami parlare!» esclamò a sua volta alterandosi e scattando in piedi.
«No James, per una volta hai ragione.»
Risposi a tono voltandomi verso di lui e puntandogli il dito contro.
«Hai un carattere di merda, menefreghista e stronzo. Non ti importa nulla di niente e di nessuno. Non ti importa niente di noi, non t'importa niente di me... Non ti è mai importato e s-»
Non riuscii a finire la frase che venni interrotta dalle sue urla, che mi fecero gelare il sangue.
«E tu che cazzo ne sai eh? Che cazzo ne sai?» ripeté urlandomi contro, e avvicinandosi lentamente.
In quel momento avevo davvero paura, per quando risulti brutto dirlo. Ma era così. Quella voce così alta, i pugni serrati con le nocche bianche, le vene che pulsavano in testa, lo sguardo nero e cupo. Avevo paura di James.
Indietreggiai lentamente e con il respiro a mille, e penso che lui si accorse di incutermi timore, in quanto tirò un lungo sospiro per calmarsi, e addolcì la sua espressione, anche se di poco.
«Tu non ci sei nella mia testa...» disse con tono un po' più calmo, ma sempre arrabbiato.
«Se ci fossi, sapresti che di te mi importa...»
Si avvicinò a me, mentre tenevo lo sguardo basso per non incrociare il suo.
«E anche tanto» aggiunse in un sussurro portandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, quando ormai era a pochi centimetri da me.
Tentò di avvicinarsi al mio volto. Per un attimo desiderai ardentemente le sue labbra sulle mie, ma poco prima del contatto, mi balenò in testa la scena di poco prima, mi scansai.
«Se ti fosse importato davvero, avresti risposto: "sí, sono felice". Questa balla valla a raccontare a qualcun altro»
E mi allontanai di qualche passo, dandogli le spalle.
«Ma lo vedi come sei?» di nuovo la sua voce mi rimbombò nelle orecchie. Rimasi ferma ad ascoltare.
«Con te non si può che finire così: litigando. Io cerco di farti capire, ma tu ti ostini a fare di testa tua. Perché? Perché non mi credi?»
A quel punto scoppiai, le parole mi uscirono da sole, senza che lo volessi.
«Perché sei un bugiardo, ecco perché. Perché sei un ipocrita. Fingi di amare le persone ma in realtà non te ne frega niente di loro»
Mi voltai verso di lui per guardarlo in faccia.
«Perché tu le illudi James, come se non avessero anche loro dei sentimenti. Perché, porca puttana, è tutta una menzogna!»
Rimase lì fermo. Mi guardò come se mille lame lo stessero trafiggendo pian piano, nel cuore, e mi pentii all'istante di quello che avevo appena detto. In quel momento desiderai che si aprisse una voragine ai miei piedi, così da sparire per sempre e non ferire più nessuno. James non meritava di sentirsi dire quelle cose. Non lo meritava.
Ad un certo punto, più osservavo la sua espressione, più mi saliva in groppo in gola, e così, vigliaccamente, mi voltai, strizzando gli occhi per scacciare via le lacrime che pian piano mi stavano offuscando la vista.
Rimase in silenzio per qualche minuto, o forse qualche giorno, o forse un'eternità.
Quello che disse dopo, mi fece stare ancor più male. Ma non per le parole. Ma per il tono con cui le disse.
«Quindi questo é tutto ciò che io sono per te?»
Trasalii, persi un battito, o forse dieci.
Sebbene avessi voglia di voltarmi, cingere il suo collo con le braccia, baciarlo e chiedergli perdono fino alla nausea, sebbene avessi voglia di piangere tra le sue braccia, di farmi stringere al suo petto, non riuscii a muovermi. Ero come paralizzata, non riuscivo a compiere alcun movimento, perciò rimasi lì, come una stupida, non accorgendomi che pian piano lo stavo lasciando andare.
«Sai...» sussultai quando lo sentii parlare.
«Forse era meglio se fossi fuggito da solo da quella prigione. Forse era meglio se ti avessi lasciata lì, in mezzo a quattrocento uomini, a marcire e fare la muffa. A quel punto, forse sarei stato felice davvero»
Ecco. Quel rumore. Proprio quello lí.
Il rumore del mio cuore che andava in frantumi, e io potei sentirlo. Mi aveva ferita davvero molto.
Sgranai gli occhi, incredula di ciò che avevo appena sentito. Mi voltai verso di lui, accorgendomi che mi stava osservando con uno sguardo che non lasciava trasparire nessuna emozione.
E a quel punto cedetti, la sua figura si fece sempre più offuscata, finché sentii una lacrima scendere e solcarmi la guancia.
Tutte le certezze che avevo costruito, il muro che avevo sollevato, tutto spazzato via da quelle semplici parole. Parole più taglienti di un pugnale.
Mi cadde il mondo addosso. Mi resi conto solo allora della persona che ero, una persona orribile. Pensavo di essere cambiata, ma la verità è che nessuno può cambiare. "Chi nasce tondo non può morir quadrato" cita un proverbio, e forse io ero destinata a rimanere una persona orribile per tutta la vita.
James si accorse della mia reazione, perciò addolcì la sua espressione, e tentò di avvicinarsi.
«Jodie...» disse in un sospiro.
Mi girai verso il comò e parlai.
«Vattene via»
«Scusa, mi di-»
Non riuscì a finire la parola che nella stanza riecheggiò il tonfo del mio pugno sul legno del mobile.
«Va bene, me ne vado» rispose prima di dirigersi verso la porta e rivolgermi un'ultima occhiata affranta.
E mi lasciai andare. Cominciai a piangere, lasciandomi cadere in ginocchio per terra.
E piansi, piansi per non so quanto tempo.
Piansi tutto il dolore che mi tenevo dentro da anni, e che mi stava divorando sempre di più.
Piansi per tutto il male che mi era stato fatto.
Piansi, e basta.
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