1. What am I?
Che cos'è in realtá l'inizio di una storia? Quand'è che davvero tutto comincia?
L'inizio, in genere, è come l'avvio di un motore che continuerà a girare e girare, nel bene e nel male, fin quando qualcuno non toglierà la chiave dal quadro. L'inizio di una storia, della mia storia, ebbe vita a causa di una telefonata. Si, sembra buffo dirlo così, ma nonostante ciò, è vero.
Fu una telefonata ad avviare il susseguirsi di peripezie, fughe, pericoli e scontri che videro come protagonista una giovane di poco più di vent'anni, come se già non ne avessi subite abbastanza di peripezie.
Forse era successo tutto per caso, forse era stato scritto da qualche parte che la mia vita non potesse godere della serenità e dell'agiatezza di cui è disposto ogni essere umano. Forse era il mio ruolo, forse ero lí per questo.
Ero nata per combattere due battaglie completamente differenti. Quella contro il male che ormai dilagava in un società falsa e usurata dalla corruzione, e quella contro i demoni che attaccavano dall'interno dei meandri più bui della mia mente. E questi ultimi erano avvantaggiati, poiché sapevano sempre dove trovarmi, dove mirare e quando sparare.
Iniziò tutto quel pomeriggio. Tutto partì da lí, da quel dannato giorno.
Tornai a casa, priva di alcuno stato d'animo, perché questo ero io allora: un involucro vuoto, privo di anima e di un cuore pulsante.
Questo ero io, da quando ero rimasta orfana, a soli 17 anni.
Un incidente se li portò via.
E io neanche c'ero! Forse, se fossi stata lì con loro, non sarebbe avvenuto, chi lo sa, forse sarebbero ancora qui.
Tanto, non aveva più importanza ormai. Ormai che ero rimasta completamente sola.
Sola...
Passai un anno in collegio, un anno d'inferno, dove trascorsi ogni notte nei pianti, sprofondando il mio volto nel cuscino e inondandolo di lacrime, sperando in cuor mio che tutta quella tortura finisse un giorno.
Passai i giorni rinchiusa in camera, spesso senza neanche mangiare. Non volevo. Non potevo. Mi era stato portato tutto via.
Che senso aveva continuare a vivere?
La ragazzina solare e raggiante di un tempo sparì, lasciando spazio ad una donna fredda, senza anima, dal cuore di ghiaccio, dal carattere ribelle.
La principessa bianca aveva lasciato posto ad una guerriera dal cuore tinto di nero. Nero fuori, nero dentro.
Posai le chiavi di casa sul primo tavolo che mi capitò, e, svogliatamente, tolsi la giacca di jeans, appendendola all'attaccapanni posizionato subito dopo il portone.
Mi gettai sul divano, stanca, esausta, e accesi la TV nella speranza di trovare qualcosa di decentemente interessante. Magari un film di guerra, di violenza, quelli che guardava sempre mio padre insieme a me, quelli che mamma tanto detestava perché secondo lei erano troppo crudi, quelli che rimanevamo a guardare fino a notte fonda. Quei pensieri mi strapparono una lacrima di nostalgia, seguita da un sorriso malinconico. Mi mancavano tanto. Ogni giorno sentivo la loro mancanza. Non c'era momento in cui non la sentissi, non c'era momento in cui non percepissi quel vuoto crescere man mano dentro di me, il quale mi stava divorando ogni giorno di più, e che, dopo tanto tempo, aveva risucchiato ogni briciola di positività da quel cuore che tanto ebbe da soffrire.
Squillò il telefono. Quella telefonata, da cui partì tutto quanto.
Risposi a stento, in quanto non avevo alcuna voglia di parlare con qualcuno in quel momento. Troppa era la voglia di andarmene. Andarmene da tutto e da tutti.
Ma nonostante tutto ebbi la forza di andare avanti, per loro, per me.
Questo mi ripeteva sempre il commissario Skully, grande amico di mio padre.
Grazie a lui ero riuscita ad andare avanti, a vivere, a vivere questa vita inutile.
«Pronto» dissi scocciata e con tono neutro.
«Jodie, stasera é il tuo turno.»
Rivolsi lo sguardo verso l'orologio a muro che mi stava davanti.
«A che ora?»
«Solito orario.»
Riattaccai, e corsi di sopra a farmi una doccia veloce.
Una volta vestita, presi il cellulare di modello antiquato, e mi avviai fuori dalla porta di casa.
Con i lavoretti occasionali ed in nero che facevo ogni tanto, un cellulare nuovo né lo potevo avere, e né tantomeno volevo averlo.
Lavoravo occasionalmente e senza alcun contratto, svolgevo anche le attivitá che convenzionalmente si associano a un uomo, e poi c'era quello, che tra tutti i lavori odiavo di più.
Per far quadrare i conti, e per permettermi di mangiare qualcosa, ero costretta anche a vendere la mia immagine, a vendere il mio pudore, a vendere la mia dignità ballando in quell'edificio pieno di uomini ubriachi che urlavano per qualche passo sensuale e lanciavano banconote da dieci, da venti, e talvolta quelli più ubriachi osavano svuotare la loro tasca lanciando perfino bigliettoni da 100.
"Non può esserci vita più schifosa di questa" ripetevo continuamente a me stessa, non sapendo che di lì a poco sarebbe stata peggio.
Dopo i consuetudinari quindici minuti di cammino, giunsi davanti l'entrata di quell'edificio, e immediatamente la musica talmente alta da perforare i timpani e l'odore di alcol mi andarono incontro, quasi sbattendo prepotentemente sul mio volto e provocandomi quel vuoto e quella malinconia che attanagliavano da sempre me stessa.
Varcai la soglia, superai i soliti ubriaconi di turno con il sedere perennemente incollato sugli sgabelli davanti il bancone, ed entrai in un camerino per cambiarmi e indossare i soliti vestiti da ragazza facile.
"Questa é la situazione. Se ti piace, Okay. Se non ti piace, la porta é da quella parte" mi disse il gestore del Pleasure Paradise, un tale Mr. Collins.
Fui costretta ad accettare quei miseri 400 dollari per sopravvivere mensilmente. Era la mia ultima spiaggia, in quanto non ero in possesso neanche di un diploma. Avevo abbandonato gli studi qualche mese dopo la morte dei miei genitori, non riuscivo ad andare avanti. Prendevo brutti voti, non riuscivo a fissare per bene i concetti nella mente, a scuola tutti i ragazzi iniziavano a bisbigliare fra di loro al mio passaggio, e ciò non faceva altro che peggiorare il mio stato, come una bella pioggia su ciò che era già stato bagnato. E fu anche un vero peccato, perché ero sempre stata una ragazza devota e portata allo studio, come attestavano i puntuali nove e dieci stampati sulle pagelle scolastiche di fine semestre.
Guardandomi allo specchio, osservai quell'immagine riflessa. Non riuscivo più a riconoscermi. Dov'era finita la ragazza dal riso facile? Quella che rideva per una stupida battuta senza senso?
Quegli occhi verdi solari ed espressivi, avevano lasciato posto a due iridi grigie, prive di ogni emozione, solcate da due grosse e pronunciate occhiaie, probabilmente a causa della stanchezza.
Ero stanca. Stanca di tutto. Stanca di ogni cosa che mi era vicina.
La vita per me era un peso.
Sospirai, e ricordai a me stessa che prima o poi sarebbe finito tutto. Prima o poi tutti sarebbero morti, e se non potevo causare io la mia morte, avrei lasciato questo compito a Colui che decide le sorti di tutti gli esseri viventi e non.
Uscii da quella stanza e mi feci spazio tra tutte quelle persone, di ogni età e di ogni tipo.
Salii su quello schifo di cubo che ormai ero costretta a sovrastare da 4 anni, e cominciai a muovermi e ad ancheggiare, fingendo di sorridere per non dare l'impressione di essere a pezzi dentro.
Ma lo ero.
E anche tanto.
La musica rimbombava, e faceva battere il mio cuore a ritmo di essa. Non so se potrei definirla musica. Era uno stridere di strumenti elettronici che non stavano né in cielo né in terra.
Pazienza, dovevo farlo se volevo mangiare.
E così, passai il resto della serata ballando, compiendo movimenti assurdi soltanto per mostrarmi un tantino femminile e sensuale se ero intenzionata a mantenere il "lavoro", che si voglia definirlo così per convenzione.
Finite quelle solite ore, mi diressi in camerino, per togliermi quella roba che avevo addosso, giusto per far riemergere una dignità che aveva subito fin troppi calpestamenti.
Feci per andarmene quando mi ricordai che quel giorno, il direttore Mr. Collins, avrebbe dovuto pagarmi con i 400 dollari che mi spettavano. Perciò, mi recai nel suo "ufficio" e mi posizionai davanti la sua scrivania, nell'intento di attirare la sua attenzione.
«Non ti hanno insegnato a bussare ragazzina?»
Roteai gli occhi al cielo, e tagliai corto, arrivando subito al punto.
«Mi dia i soldi» ordinai con un gesto della mano.
Detto questo, il direttore aprì uno dei tiretti della sua scrivania, rimanendo seduto a fumare il suo sigaro, e ne uscì delle banconote.
Me le porse, io le afferrai.
Feci un passo indietro per lasciare quel posto, ma mi accorsi che i soldi che mi diede erano poco più della metà.
Aggrottai le sopracciglia, e mi voltai verso di lui. Egli rimase impassibile, fumando tranquillamente e contando l'incasso della serata.
«Non sono tutti»
«Si invece»
«Sono 250, me ne spettano 400. Dove sono gli altri 150 dollari?»
«Non li avrai»
A quelle parole mi salì una rabbia allo stato puro. Tuttavia, cercai di trattenermi, per non compiere una rissa. Di nuovo.
«Senta» iniziai, cercando di sembrare calma e per niente adirata.
«Io non me ne andrò di qui finché non avrò tutti i soldi che mi spettano. Io ci campo con questo lavoro»
«Appunto per questo decido io quando avrai i tuoi soldi. Bambolina, qui comando io, e se decido di non pagarti, non ti pago»
Sentivo il desiderio di prenderlo a pugni, ma cercai di controllarmi.
Si alzò dalla sedia e cominciò a passeggiare per la stanza, nel frattempo che una musica soffusa e ovattata riempiva la stanza dalla timida ed incerta luce giallastra, quasi del tutto spoglia se si vogliono escludere la scrivania scura in mogano su cui poggiava un computer, due sedie poste rispettivamente una di fronte all'altra, una libreria accanto la porta e un mobile alla mia sinistra.
Si affacciò alla finestra, posta dietro la scrivania, che dava ad una periferia di New York nel fulcro della sua vita notturna, e parlò.
«Ne hai bisogno?»
«Se non ne avessi avuto bisogno non avrei scelto questo lavoro. Non crede anche lei?»
«Già...»
Pensò fra sé e sé, con lo sguardo rivolto verso il basso, e si avvicinò a me.
Era un uomo di una quarantina d'anni, alto e magro, con i capelli tirati indietro da un'abbondante dose di gel.
Il suo sguardo non prometteva nulla di buono. Nulla di gradevole lampeggiava nello strano luccichio dei suoi occhi.
Si avvicinò ancora di più a me.
«Bene, se vuoi quei soldi, dovrai fare un extra» aggiunse abbassando il tono di voce, e avvicinando lentamente la sua mano alla mia guancia, accompagnato da uno strano ghigno.
Mi scansai violentemente non appena capii le sue intenzioni.
«Non verrò a letto con lei. Piuttosto morirei di fame» sbottai acida prima di andarmene sbattendo la porta.
Finalmente misi piede fuori da quel tormento, e l'aria fresca sfiorò il mio viso, procurandomi intensi brividi di freddo.
Che faccia tosta. Davvero pensava che per 150 dollari avrei venduto il mio corpo? Allora non aveva capito con chi aveva a che fare.
Dopo aver sistemato la giacca di jeans sulle mie spalle per ripararmi dal vento freddo e pungente, mi incamminai verso casa. Non potevo permettermi un'auto. Avevo la patente, sapevo guidare abbastanza bene, ma non sapevo con quali soldi comprarne una. Perciò, ero costretta a camminare.
Dopo quasi venti minuti di cammino, dei passi dietro di me persistevano e si facevano sempre piú decisi e vicini.
All'inizio non avevo paura. Semplicemente pensavo che probabilmente fosse una persona che stava facendo la mia stessa strada.
Dopo aver svoltato nella stradina che portava nel mio quartiere, forse avrebbe preso un'altra via.
Svoltai quasi velocemente per togliermi di dosso quell'orribile sensazione di essere seguita, ma quei passi erano sempre dietro di me.
Cominciai a spaventarmi quando udii i calpestii più vicini a me, e quando mi sentii afferrare il braccio ebbi un sussulto.
«Che diavolo vuoi? Lasciami in pace»
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