5 | Apparentemente senza cuore •
Ethan
Quando apro gli occhi mi ritrovo catapultato in un letto che non è il mio, ma la conferma di non essere nella mia stanza me la dà quel fastidioso rosa da cui sono circondato.
La testa mi pulsa, come se qualcuno mi stesse colpendo ripetutamente al capo, mentre la sensazione di disidratazione intensa mi suggerisce che sono nel pieno di un dopo sbornia.
Mi massaggio con insistenza le tempie, sperando di ricordare qualcosa della sera precedente. Rammento solo dei piccoli frammenti, ma nulla che mi faccia capire come sono finito nel mondo degli unicorni. Unicorni rosa. Ah no, quella era Barbie.
Se resto in questa stanza ancora per pochi minuti, sono sicuro che la nausea aumenterà a tal punto da rimettere tutto l'alcool che ho ingerito.
Mi alzo lentamente dal letto per non dare il via ai giramenti di testa, si trovano proprio dietro l'angolo e non vedono l'ora di uscire fuori solo per ricordarmi che sono un coglione.
Cerco i i vestiti della sera precedente, li trovo sparsi qua e là per la camera, alla camicia bianca di seta mancano persino dei bottoni. Deve essere stata una scopata selvaggia, peccato che non me la ricordi.
Mi immobilizzo con la mano tra la zip dei pantaloni, quando la ragazza sdraiata sul letto, coperta solo da un lenzuolo rosa, si muove. Non ho proprio voglia di entrare nella parte del bravo ragazzo e fingere che l'avrei richiamata.
Solitamente non do spiegazioni alle ragazze con cui vado a letto. Non mi interessa cosa provano o cosa vogliono, per me sono solo uno sfogo fisico. La mia reputazione mi precede e, la maggior parte di loro, sanno bene a cosa vanno incontro quando decidono di concedersi a me.
Il suo respiro è profondo, lo capisco dal torace che si solleva e si abbassa lentamente. Riprendo a muovermi solamente quando sono sicuro che sta dormendo. Tiro su la zip dei jeans e lascio la camicia aperta, visto che non posso fare altrimenti.
Mi affaccio dalla finestra della camera mentre saltello per indossare le scarpe e, realizzo con stupore, che si trova al piano terra.
Nella mia mente si era già formato un piccolo film, dove Spiderman mi poteva pulire le scarpe, ma è stato infranto dalla visione dell'esterno. Mi basterà fare sfigatoman e scavalcare il cornicione della finestra per ritrovarmi direttamente sulla strada.
Sono abituato a scappare in questo modo, tendo ad evitare il genere umano finché non bevo il primo caffè della giornata. Non che sia più facile sopportare gli altri, ma sicuramente mi dona più tolleranza verso il prossimo.
Non ci impiego molto a ritrovarmi sull'asfalto e, la prima cosa che faccio, è quella di cercare le mie sigarette nella giacca in pelle. Ne porto una tra le labbra e l'accendo, lascio che il fumo mi riempia i polmoni e infine lo sputo fuori, quasi disgustato.
Fumare senza aver ingerito nulla è davvero sgradevole, il sapore amaro della nicotina mi riempie la bocca, impastandola ulteriormente. Mi guardo intorno un po' disorientato, l'unica mia intenzione al momento è trovare la mia macchina e svignarmela da lì.
L'app sul cellulare, la mia salvezza, mi dice che la macchina si trova a 200 metri. Mentre sto camminando per raggiungerla, mi arriva un messaggio da Josh, uno dei miei amici più stretti.
Tra un ora al Garden cafè.
È urgente.
D'accordo.
Salgo sulla mia macchina, afferro i miei ray-ban neri che si trovano nel portaoggetti e li indosso, in momenti come questi sono indispensabili.
Guido fino a casa con calma, nelle condizioni in cui mi trovo preferisco evitare la velocità che utilizzo normalmente. Posteggio la macchina al solito posto, sotto il portico, vicino a quelle dei miei genitori. Vuol dire che sono in casa. Strano.
Mi faccio coraggio e scendo dall'automobile, quando la mattina mia mamma si trova in casa è in vena di chiacchierare, al contrario di mio padre che tende a starsene nel suo. Mi fiondo in cucina, dove trovo quest'ultimo intento a leggere il giornale.
«Buongiorno» dico con la voce ancora arrochita dal sonno.
Mio padre, il rettore John Miles dell'università di San Diego, abbassa per un breve istante il giornale sotto il naso e mi squadra da capo a piedi con i suoi profondi occhi marroni.
Fa un minuscolo movimento col capo, quasi impercettibile. Se non lo stessi guardando con la stessa intensità con cui lui guarda me, probabilmente non me ne sarei nemmeno accorto. Poi, con la sua solita indifferenza, torna a dare la sua attenzione alla rivista.
Per mia fortuna Anita, una ragazza sui trent'anni di origine filippina, ha già preparato il caffè. Lavora per noi da circa un anno, esattamente da quando mamma ha deciso di aumentare i suoi viaggi all'estero per beneficienza; come se prima non ne facesse abbastanza.
Il ticchettio dei tacchi sul pavimento risuona nel silenzio dell'abitazione. Comincio a fare il countdown nella mia mente, solitamente ci impiega tre secondi ad attraversare la sala per raggiungere la cucina. Tre, mi verso il caffè, mentre quel rumore fastidioso si fa sempre più vicino, due, avvicino la tazza alle labbra ed è troppo vicino, uno...
«Tesoro! Ma dove sei stato?!»
Ed eccola lì, Nathalie Miles. Talmente interessata a suo figlio che, mentre gli parla, tiene lo sguardo incollato allo schermo luminoso del suo cellulare. Non so come abbia fatto a vedermi, una leggenda narra che abbia un occhio invisibile sulla fronte.
È una donna tutta d'un pezzo, vestita in modo impeccabile già dalle prime ore del mattino. Nel suo look sono sempre presenti i tacchi alti, penso persino che ci vada a dormire con quei trampoli. I capelli biondi sono sempre pettinati in una piega ondulata, fatta rigorosamente dal suo parrucchiere di fiducia.
I suoi occhi sono dello stesso colore dei miei e le donano un'aria dolce di una madre mai presente. La signora Miles ha sempre preferito mettere davanti i suoi infiniti viaggi, cene ed eventi di beneficienza, piuttosto che passare del tempo con il suo unico figlio.
Ricordo come se fosse ieri, quando da bambino mi addormentavo piangendo perché non mi importava dei giochi che possedevo, o della casa enorme con la piscina, o delle mille tate che avevo a disposizione; io volevo solo la mia mamma.
Mio padre non è migliore di lei, se ne sta per la maggior parte del tempo chiuso in università, nel suo ufficio. È per questo che la maggior parte delle volte sono da solo. Qualche domestica in giro per casa, sì, giusto per pulire sul pulito una casa poco frequentata.
Mia madre, Nathalie, è maniaca della pulizia e dell'ordine. Le poche volte che è presente controlla ogni minima cosa. Verifica perfino che i libri siano posizionati in ordine alfabetico e cronologico nella libreria.
«Fatti miei» rispondo secco, con un'alzata di spalle.
Mia madre solleva per la prima volta lo sguardo verso di me, gli angoli delle labbra piene di gloss si abbassano leggermente e le creano un'aria triste. Si ricompone subito, come è solita fare, e si avvicina a me per posare le mani sulla camicia aperta.
«Cos'è successo alla camicia?»
«Fatti miei» rispondo nuovamente, allontanandomi da lei con un movimento fulmineo.
«Non rispondere così a tua madre» mi rimprovera papà John, senza staccare gli occhi dalla sua rivista.
Non perdo tempo a replicare, mi appoggio al mobile della cucina e sorseggio il mio caffè, finché non lo finisco.
«Questa sera siamo ad una cena di beneficenza» mia madre si appoggia con eleganza alla penisola.
«Che novità» dico con tono tagliente, mentre poso la tazza nel lavandino accanto a me, «fate prima ad avvisarmi quando ci siete»
Esco dalla cucina, mentre il mio nome esce più volte dalle sue labbra per vibrare in tutta la casa.
L'unica certezza che ho nella vita è che i miei genitori non erano pronti ad avere un figlio. Quando sono arrivato io, mia madre aveva solamente vent'anni ed è stata costretta ad abbandonare gli studi, mentre mio padre ventisei ed era nel pieno della sua carriera.
Non lo hanno mai ammesso, ma si sono ritrovati in una vita che non volevano. Spesso penso che non si sopportino e che stiano insieme solo per dare l'immagine della famiglia perfetta.
Butto il cellulare sul letto e mi dirigo nel bagno della mia camera. Devo assolutamente fare una doccia fredda per riprendermi.
Il silenzio mi circonda, il solo rumore che sento è lo scroscio dell'acqua. Mi scorre su tutto il corpo, abbassando notevolmente la temperatura corporea. Mi insapono velocemente, cercando di eliminare la sensazione di sporco che avverto.
Il bagnoschiuma agrumato mi riempie le narici, finché l'acqua non lo spazza via. Quando esco dalla doccia i brividi di freddo durano poco, perché le temperature a San Diego in questi giorni sono insopportabili.
Indosso i boxer, una maglietta a maniche corte e dei pantaloncini della tuta. Pettino i capelli bagnati con le mani e li lascio asciugare da soli.
Esco dalla mia stanza mentre indosso gli occhiali da sole per nascondere le occhiaie, e non solo. Sono la mia barriera contro il mondo e mi permettono di nascondere le emozioni che i miei occhi fanno trasparire. Le lenti sono così scure che le persone non possono vederci attraverso, nessuno può superare il muro che mi sono costruito per anni.
Mi muovo con movimenti silenziosi, in modo da non attirare l'attenzione dei miei genitori. Non ho proprio voglia di subirmi i loro sensi di colpa, da una parte penso sia giusto che essi li divorino, dall'altra non me ne frega un cazzo.
Una volta in auto, mi sbrigo ad allontanarmi dal viale di casa mia per raggiungere la destinazione che mi ha dato Josh. Il Garden cafè è un piccolo bar nel cuore della città. Si chiama così perché al suo interno sono presenti diversi tipi di piante e fiori, una parete è persino ricoperta da piante pendenti.
È arredato in uno stile moderno e particolare, in alcuni punti ci sono delle poltrone sospese al posto delle classiche sedie. I tavolini, invece, sono tutti di colore diverso e creano un'arcobaleno all'interno del locale; al centro di essi è presente un bouquet fresco ogni mattina.
Posteggio la macchina al primo parcheggio libero che trovo. La via centrale è sempre affollata da turisti che fotografano ogni dettaglio, anche il più insignificante. Io li evito come la peste, sono sempre alla ricerca di informazioni da parte degli abitanti, quando ormai basterebbe guardare su google.
Appena varco la soglia del Garden cafè, il profumo dei frangipane misto al caffè mi investe in pieno. Il locale è piccolo e questo mi permette di individuare subito i miei amici. Stanno discutendo, uno dei due gesticola con le mani mentre parla, ma da questa distanza non riesco a capire cosa dicono.
Jared è il primo a vedermi, si zittisce all'istante e fa un minimo movimento col capo come segno di saluto, facendo voltare anche Josh nella mia direzione.
«Ciao ragazzi» mi stravacco sulla poltrona sospesa, guardando Josh attraverso le lenti scure.
«Guarda che qui li puoi togliere gli occhiali» mi prende in giro Jared.
«Meglio di no» taglio corto, per poi alzare la mano verso la cameriera e attirare in questo modo la sua attenzione.
Un'idea carina che ha avuto il proprietario, che contraddistingue questo piccolo bar, è il nome delle bevande. Prendono il nome da piante e fiori.
«Ciao Ethan» mi saluta, sbattendo varie volte le ciglia impiastrate di mascara, «come stai?»
La sua voce mellinflua mi attraversa i timpani, creandomi un nervosismo tale da farmi prudere i palmi delle mani.
«Vorrei un Asperum, grazie.» taglio corto, senza neanche guardarla.
L'Asperum è il classico caffè americano senza zucchero, hanno dato il nome di questa pianta perché le sue foglie hanno un odore forte e aspro.
«Voi ragazzi siete a posto così?» rivolge il suo sguardo deluso ai miei amici che si limitano ad annuire e sorridere.
«Però potresti essere più gentile» dice Jared, una volta che si è allontanata.
«Sei tu quello gentile, Jar» mi passo una mano tra i capelli, per poi puntare lo sguardo su Josh, «Cosa c'è di così urgente?»
Lo sguardo del mio amico si fa sempre più cupo e capisco che qualcosa lo preoccupa.
«Dopo che te ne sei andato dalla festa, ieri sera, si è presentato Alec» finisce la frase fissandomi intensamente con i suoi occhi verde smeraldo, come se potesse disintegrare la mia barriera.
Fa un lungo sorso del suo caffè al caramello. Al Garden cafè è conosciuto più semplicemente come Katsura, un albero che quando perde le foglie rilascia un profumo simile al caramello.
«Cosa voleva quell'idiota?» sputo fuori, disgustato.
«Schiaffi» risponde infastidito Jared, al posto di Josh.
I capelli color miele gli arrivano alle spalle e, con movimenti esperti, li lega in modo scompigliato.
«Dov'è finita la tua gentilezza?» dico, sollevando le sopracciglia con fare curioso.
«Con lui non esiste» puntualizza, sistemandosi meglio sullo sgabello giallo.
I suoi occhi chiari hanno delle sfumature marroni vicino alla pupilla, sono più freddi dell'Antartide al momento e so bene il motivo.
«Comunque» interviene Josh, «Voleva avvisarti che Aaron ti vuole alla sua festa domani sera»
Aaron Black. Dovevo immaginarlo.
È il capo di un gruppo pericoloso a cui abbiamo fatto parte fino a qualche mese fa.
Aaron entra ed esce dal carcere come se fosse il suo hobby preferito. Anche quando si trova dietro le sbarre ha la capacità di far avvertire la sua presenza; mi ricorda costantemente che lui è lì, proprio un passo avanti a me.
Non avevo bisogno di soldi quando ho iniziato a far parte della sua banda, insieme a Josh e Jared, mi ero unito a lui per pura stupidità. Non è passato molto tempo, ma quello che ho vissuto mi ha reso una persona più matura e consapevole. Quando entri in certi giri è difficile uscirne, ma al tempo ancora non ne ero a conoscenza.
Se qualcuno della banda provava a mettersi contro Aaron, o solamente faceva capire di volerne uscire, questo spariva e non si sapeva più nulla. Io ho commesso errori peggiori nei suoi confronti, non c'è giorno in cui non mi chiedo cosa gli abbia fatto prendere la decisione di non uccidermi. O meglio, non uccidere tutti e tre.
«Ethan» mi richiama Josh, «hai capito cosa ho detto?»
Sollevo gli occhiali da sole sulla fronte, in modo da essere abbastanza chiaro anche espressivamente.
«Non me ne frega un cazzo, Josh» la cameriera mi appoggia il caffè sul tavolo ed io mi allungo con il busto per guardare oltre il suo braccio, verso il mio amico, «non ci andrò»
Josh appoggia i gomiti sul tavolo azzurro e si passa nervosamente le mani sul viso. Jared, invece, si limita a scuotere il capo.
«Sai di cosa è capace se non lo assecondi!» continua Josh.
Oltre la sua spalla intravedo una chioma bionda che riconosco subito. I capelli ondeggiano, seguendo i movimenti che fa con la testa a destra e sinistra. Sta chiaramente cercando qualcuno.
Poi, succede. Una collisione visiva che non ho mai avuto con nessuna prima d'ora. Il suo corpo mi riconosce ancor prima della sua mente, perché si irrigidisce non appena i suoi occhi si posano su di me. Ho la sensazione che il suo sguardo si intrappoli tra la retina e il cuore, provocandomi scariche elettriche così forti da farmi credere che forse ce l'ho davvero, un cuore.
Il colore delle sue iridi è simile al ghiaccio, ma in questo momento sarebbe stata capace di darmi fuoco in un batter di ciglia.
Josh continua a parlare, ma io non lo sto più ascoltando. La sua voce sembra lontana, ovattata. La ragazza misteriosa riprende a muoversi e, con passi lunghi e veloci, si dirige verso il bagno.
«Arrivo subito» affermo di getto, alzandomi di scatto dalla poltrona.
«Stavamo parlando» si lamenta Josh, serrando la mascella.
«Posso andare in bagno?»
«Certo» borbotta lui, riprendendo tra le mani il suo caffè.
Le mie gambe si muovono da sole verso la porta bianca della toilette. Non so cosa mi spinge ad avvicinarmi a lei, ogni volta che la vedo, ma succede tutto in modo spontaneo.
Non è come le altre. Non cerca approvazione da parte mia, non tenta neanche per sbaglio di sedurmi, anzi, mi sfida, mi risponde a tono e mi tiene testa. Non le serve parlare, i suoi occhi lo fanno già da soli e si sanno esprimere molto bene. Forse sono queste sue qualità che mi incuriosiscono.
Apro lentamente la porta e la trovo di schiena. So che mi ha sentito arrivare, ma non sembra per nulla sorpresa. Si sta lavando le mani, sento il rumore del sapone che si strofina tra le dita.
«Cosa vuoi, Ethan?» la sua voce è glaciale, non mi degna nemmeno di uno sguardo.
«Allora conosci il mio nome» sollevo un angolo della bocca, creando un mezzo sorriso, soddisfatto.
I suoi occhi si sollevano lentamente e mi fissano attraverso lo specchio. Senza staccare le sue iridi dalle mie, afferra con veemenza i pezzi di carta per asciugarsi le mani. Le strofina con forza, come se volesse staccarsi le dita. Più la guardo fare e più mi chiedo cosa le faccia nascere tutta questa rabbia.
«Diciamo che Kim parla troppo»
Faccio un passo in avanti e lei si gira per buttare la carta nel cestino.
«Come la conosci?» piego il viso di lato, aspettando curioso una sua risposta.
«È la mia migliore amica» marca le parole con forza, prima di continuare, «quindi ti pregherei di non fare l'idiota con me»
La sua espressione si fa sempre più seria, non accenna nemmeno ad un mezzo sorriso ed è come se la mia presenza la infastidisse.
«Non faccio l'idiota con te»
Interrompe per la prima volta il discorso che i nostri occhi stanno facendo, per girare di poco il viso verso la spalla e sogghignare.
«Meglio così» dice ad un tratto.
Si avvicina alla porta d'uscita ed io mi affretto a bloccarle il passaggio.
«Posso almeno sapere come ti chiami, amica di Kim?»
«No» scandisce bene la sua risposta che, formata da solo due lettere, riesce a lasciarmi di stucco. Se ne accorge e ne approfitta per sorpassarmi.
Resto imbambolato per qualche secondo, prima di passarmi la mano tra i capelli ed uscire anche io dal bagno.
«Ethan!» una voce fastidiosamente squillante mi stravolge, facendomi puntare lo sguardo verso l'entrata del locale.
Trovo Kimberly, indossa una gonna di jeans talmente corta che, se si fosse abbassata, avrei sicuramente visto il colore delle sue mutandine; mentre il top le strizza il seno quasi inesistente. Dietro di lei sgorgo la chioma rossa della sua amica, penso si chiami Lillie.
«Non mi hai più richiamata» sporge il labbro inferiore, mettendo su un finto broncio.
«Scusami, bambolina, ho avuto da fare» dico, cercando di essere il più convincente possibile, ma sono così abituato a ripetere questa frase che ormai sono diventato un maestro.
Con la coda dell'occhio vedo la ragazza che tanto mi incuriosisce, parlare con i miei amici. Ha atteggiamenti affettuosi principalmente verso Josh, gli circonda le spalle con un braccio, mentre lui le accarezza un fianco. Sembra diversa, ride e parla con Jared come se lo conoscesse da una vita.
«Ethan?» Kim richiama la mia attenzione, facendomi voltare nuovamente nella sua direzione.
«Kim, guarda, c'è Diana» la distrae la rossa, indicando con l'indice verso la ragazza bionda.
Diana.
Kim si impossessa del mio braccio, lo stringe con così tanta forza da farmi credere che lo voglia spezzare in due. Mi strattona verso il tavolo azzurro ed io la seguo in silenzio.
«Non sei in punizione tu?» sento dire dal mio amico Josh, quando siamo abbastanza vicini.
«Sta' zitto» lo minaccia lei, assottigliando gli occhi in due piccole fessure.
«Tu eri in punizione ogni due per te» lo prende in giro Jar, facendo ridere con gusto Diana, la ragazza bionda.
Appena ne ho l'occasione, mi libero dalla morsa di Kim per sedermi comodamente sulla poltrona sospesa. La risata di Diana muore nell'esatto momento in cui entro nella sua visuale. Afferro il caffè e lo porto alle labbra, mostrando in pieno la mia solita indifferenza.
«Ethan» mi chiama Josh, attirando tutta la mia attenzione, «lei è la mia sorellina»
Per poco non mi strozzo con il caffè che sto bevendo.
«Tua sorella?» chiedo, tra un colpo di tosse e l'altro.
«Non si assomigliano per niente, vero?» dice Kim, sedendosi sulle mie gambe.
Certo, accomodati pure!
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato. Josh fa un ghigno divertito, è l'unico che riesce a riconoscere le mie espressioni attraverso le lenti nere.
«Direi di no» rispondo con un timbro di voce neutra, come se la cosa non mi toccasse affatto.
«Bene, ragazze, noi dobbiamo prendere il caffè e andare» dice Lillie, salvandomi senza nemmeno saperlo.
«Hai ragione, Lillie» le dà corda Diana, prima di rivolgersi verso Jared con un enorme sorriso luminoso, «mi ha fatto piacere rivederti»
«Anche a me, piccola Dì»
Josh gli dà uno schiaffo sulla nuca, guardandolo in modo minaccioso.
«Lascia stare mia sorella»
«Ahia!» si lamenta lui, accarezzandosi il punto in cui è stato colpito, «La conosco da quando è piccola, è come se fosse mia sorella»
Diana scoppia a ridere con gusto, una di quelle risate che ti trapassa i timpani per arrivarti al cuore.
«Jar, lascialo stare, lo sai che è un gelosone» dice lei, dando un piccolo buffetto sulla guancia di suo fratello.
«Vai, prima che chiami zio Finn» borbotta il mio amico.
Lei solleva le mani in segno di resa, prima di allontanarsi con Lillie al seguito.
«Prometti che ci vediamo una di queste sere?» Kim mi prende il mento tra le dita, costringendomi a guardarla negli occhi.
«Certo»
Mi stampa un bacio sulla guancia e si allontana con una camminata felina, seducente. Sicuramente è fastidiosa, ma sa come attirare l'attenzione di un uomo su di lei.
«Certo» mi imita Jared, «come no»
«E invece sì, non è così male» dico, con un'alzata di spalle.
•Angolo Hopeless•
Ci ho messo un po' a pubblicare questo capitolo... ci tengo molto
a Ethan e non volevo che apparisse superficiale e odioso.
È il suo primo pov,
ma spero di avervi dato delle risposte del perché di alcuni suoi atteggiamenti,
sia presenti che futuri.
Ethan Miles ha un mondo dentro
di sé, pian piano imparerete
a conoscerlo.
Che sensazioni vi ha dato? 🥰
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