Capitolo 2: Ricordi e promesse
Mirai camminava distrattamente lungo i corridoi. Più camminava e più le sembrava di essere tornata indietro nel tempo. In un passato così vicino eppure così lontano. Un passato in cui tutti erano felici e spensierati, lontani da tutti i problemi che avevano avuto recentemente. Tempi felici, tempi di amicizia, tempi di scoperte e di bravate.
Ragazzi che facevano cose da ragazzi. Solo loro e Yaga sapevano tutte bravate che avevano combinato, tutte le punizioni che si erano beccati. Però erano insieme. Tutti e tre.
Bei tempi, pensò Mirai con un lungo sospiro.
Senza nemmeno essersene accorta si era fermata, come per istinto, davanti ad una camera che sia lei che Satoru conoscevano molto bene.
La stanza numero tre, quella che una volta era la camera di Suguru.
Quando lei e Satoru gli avevano chiesto perché avesse scelto il numero tre lui aveva risposto che era per via della sua data di nascita: il tre febbraio.
Infantile? Probabilmente, ma ai tempi lui ci teneva e, alla fine, chi erano loro per giudicarlo?
Satoru aveva scelto la stanza numero uno come ben ci si sarebbe potuti aspettare da un tipo molto "modesto" e per nulla egocentrico come lui.
Dal canto suo Mirai aveva invece scelto la stanza in base a chi aveva vicino e non in base a strane preferenze numeriche. Per lei una valeva l'altra, così alla fine aveva scelto la numero sette, nell'ala opposta a quella dove stavano i suoi migliori amici.
Quando tornò con i piedi per terra e si accorse di essersi piantata davanti alla stanza si accigliò. Ultimamente era sempre persa nei suoi pensieri e da quando aveva messo piede all'istituto, poche ore prima, lo era ancora di più.
All'improvviso la porta segnata con il numero tre si aprì facendo sussultare sia lei che l'altra persona, entrambe non aspettandosi di ritrovarsi faccia a faccia con qualcun altro.
Dopo la sorpresa iniziale però, Mirai riconobbe il ragazzo davanti a lei. Era cresciuto parecchio da quando lo aveva visto più di un anno e mezzo fa, la pubertà probabilmente iniziava a farsi sentire e a creare la sua magia.
«Megumi-kun?» chiese la ragazza alzando entrambe le sopracciglia le labbra semi aperte per la sorprendente scoperta davanti ai suoi occhi.
«Oh...» fu l'unico suono che uscì inizialmente dalla bocca del ragazzo dai capelli "ad istrice". I suoi occhi blu come le profondità degli oceani si aprirono quando il suo cervello realizzò chi fosse la donna di fronte a lui. «Mirai...-san...?» disse.
La donna si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e indietreggiò leggermente per lasciare spazio al ragazzo che chiuse la porta dietro di se.
Mirai si prese un minuto per osservare il ragazzo che conosceva così bene. Lo aveva praticamente visto crescere, dal momento che dopo la morte di suo padre, Toji Fushiguro, la sua custodia era stata affidata a Gojo, la stessa persona che, tra tutte le altre cose, era stata quella che aveva ucciso suo padre.
«Megumi-kun, sei cresciuto parecchio in questo ultimo anno» gli disse Mirai abbozzando un sorriso che però non scompose la faccia seria del ragazzo.
Megumi fece spallucce, guardandola direttamente negli occhi. C'era stato un tempo, quando era più piccolo, in cui si era preso una cotta per lei proprio per quegli occhi color lavanda che sembravano così delicati quanto taglienti. «Quasi due anni» la corresse. «Te ne sei andata praticamente quasi due fa ormai, la gente cambia» aggiunse per poi incamminarsi nel corridoio vuoto in direzione dell'aula per la lezione.
Uh?! La stava per caso rimproverando? Che caratterino quel ragazzo, pensò Mirai scuotendo la testa e riprendendo a camminare. Tutto questo tempo passato in compagnia di Satoru deve averlo segnato.
Con un leggero sospiro continuò a percorrere il corridoio, cercando la stanza più isolata possibile. L'ultima cosa che voleva era essere scambiata per una studentessa oppure, peggio ancora, essere vicina di stanza di qualche studente adolescente in preda dagli ormoni e dover ascoltare le stupide conversazioni tipiche di quell'età senza pensieri e con "problemi" che sembrano enormi ma in realtà sono nulla in confronto all'entrare la vita adulta.
Si sentiva particolarmente insofferente e polemica quella mattina. Tutta colpa di quell'idiota bendato.
Non trovando nessuna stanza all'interno della struttura principale che la soddisfasse, Mirai decise di uscire all'esterno per passare al vaglio tutte le vecchie dimore usate, ai tempi d'oro dell'istituto e del jujutsu, come vecchi depositi di strumenti. Era certa che alcune di quelle catapecchie fosse stata messa a nuovo e sarebbe stata una soluzione perfetta: lontana dai ragazzini e lontana dai ricordi che la perseguitavano come fantasmi quando percorreva quei vecchi corridoi. Non che restare all'interno delle mura dell'istituto fosse molto meglio, ma almeno non le ricordava in modo così "prepotente" i tempi passati.
Trascinandosi dietro la sua valigia molto minimal, consistente in biancheria intima e qualche vestito casual che non fossero divise da stregoni, si addentrò in uno dei tanti viali alberati fino ad arrivare in una zona abbastanza isolata. Come previsto trovò due strutture rimesse a nuovo. Una delle due aveva la porta chiusa a chiave mentre l'altra era stranamente aperta.
Con un po' di titubanza girò completamente il pomello e la porta si aprì lentamente rivelando la stanza semi vuota. Non che si aspettasse di trovare letti a baldacchino o altro, però quella stanza era veramente vuota. Un piccolo angolo cottura con un bancone e dei fornelli, un frigorifero piuttosto vecchio e un piccolo tavolo con due sedie.
«Bhe, direi che per il momento dovrò accontentarmi di questo» sospirò la donna lasciando la valigia in un angolo per ispezionare il resto delle stanze, composte da un bagno minuscolo in cui a malapena ci entravano sanitari, doccia e lavandino e un'altra stanza che fungeva da camera da letto.
Si sedette sul letto ad una piazza, testando la qualità del materasso. «Sempre meglio di nulla». Disse a bassa voce alzandosi in piedi per poi togliere le lenzuola dal letto. Le avrebbe cambiate con altre pulite, Dio solo sapeva da chissà quanto tempo erano li.
Una volta chiusa la porta di quella che sarebbe stata la sua umile dimora per il tempo a venire, si diresse, con il fagotto di lenzuola polverose tra le braccia, verso l'edificio principale. Gettò le lenzuola tra le cose da lavare e prese un nuovo paio da mettere nella sua stanza, dopodiché si diresse nuovamente nell'ufficio di Yaga.
«Ho bisogno della chiave di quelle vecchie rimesse che avete trasformato in "case"» brontolò Mirai appena mise piede nella stanza. «Tra le altre cose vedo che non abbiamo imparato proprio nulla da dopo l'incidente con Toji Fushiguro... lasciare porte aperte non è forse la scelta migliore»
Yaga si abbassò un poco gli occhiali sul naso prima di guardarla con espressione scocciata. Non sapeva chi fosse peggio tra lei e Satoru. «Deduco che anche a te faceva schifo prendere una delle stanze disponibili, così vuoi startene in una di quelle belle casette in disparte da tutti.» Sospirò ignorando volutamente la provocazione della ragazza, aprendo un cassetto a lato della scrivania e frugando tra le varie cianfrusaglie. «D'accordo, se è quello che vuoi... Ecco le chiavi, sono tutte tue.» disse lanciandole una chiave che lei prese al volo.
«Cosa vuol dire anche tu?» Domandò lei alzando scettica un sopracciglio. «Non importa, grazie per le chiavi, io me ne vado» disse facendo per uscire dalla stanza.
Yaga si alzò in piedi. «Oggi puoi riposarti, domani mi aspetto che tu ti presenti nell'aula delle lezioni alle otto. Puntuale»
Mirai roteò gli occhi esasperata. Per chi l'aveva presa? Il suo nome non era mica Satoru Gojo. «Non sono mica quell'idiota che ti ritrovi come professore dei tuoi studenti» rispose sarcastica uscendo dalla stanza e chiudendo con eccessiva forza la porta dietro di se.
Una volta fuori dall'ufficio di Yaga ripercorse la strada al contrario, salendo gli scalini di pietra e camminando silenziosamente lungo il sentiero in selciato all'ombra degli alti alberi. Quando poi giunse alla sua abitazione si mise all'opera per disfare la valigia sistemandosi meglio che poté e sistemare le sue cose dove trovava spazio.
Si lasciò cadere sul letto con un tonfo sordo e chiuse gli occhi, portandosi il braccio sul viso fino a coprirli. Era stanca e le pulsava la testa per tutta la confusione della giornata.
Stava quasi per addormentarsi quando una voce non molto distante da lei la fece sobbalzare.
«Vedo che predichi bene ma razzoli male»
Mirai si alzò di scatto, le mani strette a pugno si abbassarono non appena vide chi le stava davanti. Per quanto avrebbe voluto prenderlo a pugni, non sarebbe servito a nulla.
«Cosa vuoi? E perché sei in camera mia?» domandò lei scocciata guardando lo stregone bendato che stava appoggiato allo stipite della porta.
Teneva la testa leggermente piegata perché quel perticone era talmente alto che le porte dell'istituto erano troppo basse per lui. «Se mi stai domandando come ho fatto ad entrare la risposta è semplice: hai lasciato la porta non solo aperta, ma addirittura spalancata» rispose tenendo le braccia incrociate al petto. Gli angoli della bocca rivolti verso il basso, come se non riuscisse a sorridere o ad essere il solito sbruffone di fianco a lei.
Non si ricordava di aver lasciato la porta aperta. Doveva essere talmente stanca che iniziava a perdere i colpi.
«Non sei più abituata ai ritmi della vita da stregone. Una giornata senza sonno non è niente. Riparliamone quando avrai provato a stare sveglia tre giorni di fila usando la tua tecnica...» la stuzzicò lui, lanciandole una frecciatina che però servì solo a far innervosire ancora di più Mirai.
«Giusto hai ragione... Sei meglio tu. Perché tu sei il migliore, tu sei il genio, il bambino prodigio che ha cambiato le sorti e l'equilibrio del mondo da quando è nato, "il più forte"» sbottò lei stringendo i pugni finché le nocche delle sue mani diventarono bianche per lo sforzo. «Tu sai fare sempre tutto, mentre gli altri sono solo dei poveri idioti che non sanno fare niente. La sai una cosa? Sei talmente egoista ed egocentrico che non ti sei nemmeno accorto che uno dei tuoi migliori amici stava male mentre tu eri troppo occupato ad essere concentrato su te stesso! Se è successo quello che è successo, è stata soltanto colpa tua» gridò lei uscendo come una furia dalla sua stessa stanza, sbattendo la porta e camminando velocemente lungo i viali senza una meta precisa.
Il cielo quel pomeriggio era grigio. Grigio proprio come l'umore della ragazza che camminava con la testa bassa in preda ai suoi pensieri.
Non sapeva nemmeno lei perché avesse reagito così bruscamente.
C'era un tempo in cui Satoru era il suo migliore amico, il suo confidente. Sembrava stupido, ma quando erano ragazzi si erano ripromessi che sarebbero stati sempre migliori amici. Perché nessuno la capiva meglio di lui. Nessuno, nemmeno Suguru, l'aveva mai ascoltata senza lamentarsi durante i suoi momenti no, i momenti in cui era giù di corda e aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi. Eppure lui lo faceva, senza lamentarsi, senza giudicarla.
Era così abituata ad averlo al suo fianco che forse, ad un certo punto, si erano dati per scontati.
Poi, era successo. Le scelte discutibili di Geto, che però per lui erano così importanti, il dolore che aveva portato nelle loro vite.
La situazione precipitò quando, il ventiquattro dicembre, Mirai si ritrovò sola all'improvviso. Senza il suo amore, senza il suo migliore amico. Era stata delusa da tutti.
Eppure...
Sei sempre il solito idiota, Satoru. Pensò Mirai tirando fuori dalla sua tasca un braccialetto sottile fatto di corda azzurra, sollevandolo in alto sopra la sua testa, in direzione del cielo plumbeo.
Gojo se ne stava appoggiato alla parete di legno della sua casa. Rigirava tra le mani una specie di cordino consumato color viola lavanda, il suo sguardo perso nel vuoto dietro la sua benda nera.
«Nessuno si è mai preso la briga di chiedermi come stessi io. Nessuno si è mai preso la briga di cercare di comprendermi, di comprendere le mie scelte, le mie motivazioni...» mormorò sottovoce, come se pronunciare quelle parole ad alta voce lo aiutasse con quel peso che portava nel cuore. «Nemmeno tu lo hai mai fatto, scema che non sei altro» aggiunse guardando in basso in direzione della sua mano prima di chiudere il palmo a pugno, stringendo il cordino al suo interno. «Nemmeno tu».
Alzò gli occhi verso il cielo nuvoloso e grigio e si rimise entrambe le mani in tasca, i suoi pensieri persi chissà dove.
Eppure, dopo tutto quel tempo, dopo tutto quello che avevano passato, entrambi conservavano ancora quel bracciale che si erano scambiati quando si erano fatti quella stupida promessa tempo addietro. Nessuno dei due veramente pronto a lasciar andare tutto quanto, aggrappandosi saldamente a quei bracciali che conservavano cari nonostante il loro orgoglio.
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