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Palazzo della Pace, per quell'evento, era stato riempito di tutte le più strampalate personalità di spicco. Heleanor, anche a distanza di anni, si sarebbe ricordata i volti anonimi di chi si sentiva fuori posto durante quel momento ma che, per la visibilità che poteva donare, non era stato in grado di rifiutare l'invito dell'Oligarca Strength.
Certo era che la maggioranza dei partecipanti si sentiva a disagio per non essere in lutto per l'Oligarca Peace. Gran parte di loro si sentiva addirittura in colpa di essersi aspettata la sua misteriosa scomparsa.
Il piano adibito alla veglia funebre, a specchio con quello in cui Herald Health sarebbe andato a miglior vita due anni dopo, era così pieno di gente che addirittura si faticava - e non poco - a scorgere le gigantografie del volto dell'uomo a ridosso delle tre pareti finestrate.
Ma tutto, per tutti, andava bene.
I coniugi Peace erano stati i primi a raggiungere il luogo prefissato, portando in braccio una bimba dai folti capelli rossi e riuscendo a vedere come, da veglia funebre, l'evento era man mano mutato sino a raggiungere un livello a dir poco mondano.
Le condoglianze si erano raggruppate nei primi minuti, fitte e false, e potevano quasi far credere che Ger fosse davvero morto. Esse, però, avevano in breve lasciato il posto a camerieri in abito bianco che scorrazzavano in lungo e in largo per la sala portando su dei lucidi vassoi diverse varietà di stuzzichini.
Xenya Cass, nei suoi quattro anni di ignoranza, dormiva a seguito di uno strano intruglio somministratole dai genitori e si sbracciava inconsciamente verso il tavolino che reggeva i pericolosissimi voulevant con alcol - giusto per dare un po' di originalità alla festa, aveva detto Matt Strength.
Kelan Peace odiava quel genere di cose e, per quanto abbastanza falso da essere ritenuto un'abile figura politica, non poteva sopportare la vista dell'Oligarca della Forza. Questo si atteggiava dispiaciuto per aver lui stesso cacciato colui che, in quel momento, stava apparendo come un codardo agli occhi di tutto Clock.
Ma sarebbe tornato: lo si sapeva. E Kelan l'avrebbe di certo aiutato; avrebbe solo dovuto convincere sua moglie che, in quel preciso istante, stava osservando le compagne dei Consiglieri. Il giovane uomo ridacchiò: di certo la sua consorte non era in grado di mantenere la copertura che si era imposta.
«Heleanor» l'aveva chiamata, avvicinandosi. «Ho bisogno d'aria.»
La donna si era voltata appena, ritrovandosi faccia a faccia con il marito, mentre ancora stava reggendo la bambina assopita tra le braccia. Aveva annuito appena, senza forse aver capito, e lo aveva guardato allontanarsi, sballottando il capo qua e là alla ricerca del proprio padre nel vano tentativo di riuscire a intrattenersi.
Kelan, nel frattempo, non aveva dato spazio ai ripensamenti della moglie, infilandosi nell'ascensore e lasciando la memoria vagare sino a Ger: l'ex Oligarca era a conoscenza da tempo riguardo al fatto che gli sarebbe stato tolto il potere; ne aveva infatti parlato con il figlio, promettendogli che sarebbe fuggito e che avrebbe dato sue notizie al più presto.
Ma così non era stato.
Giunto al trentatreesimo piano di Palazzo della Pace, l'ultimo, Kelan aveva inspirato a pieni polmoni l'aria carica di solitudine e pace che quell'orrenda festa non gli aveva permesso di respirare per un po'. Senza indugiare oltre, aveva raggiunto il lato sinistro dell'ascensore e in breve stava già percorrendo la scala a chiocciola per raggiungere il tetto: solo allora sarebbe stato in grado di sentirsi bene, con il vento e la notte che lo chiamavano.
L'aria, a quell'altezza, stava sferzando con tale velocità da sparpagliargli i capelli rossi sugli occhi, nascondendo per un istante l'immagine di quegli ipocriti che, qualche piano più sotto, si godevano una buona dose di visibilità fingendosi in lutto.
In quello stesso luogo, Heleanor reggeva saldamente Xenya mentre si muoveva con fatica tra gli ospiti alla ricerca di Herald Health. Sapeva bene che, presto o tardi, sarebbe stato il suo turno di scomparire e lei avrebbe fatto il possibile per non permetterlo. Esasperata, aveva tirato un sospiro prima di issare meglio la bambina tra le braccia e avviarsi verso l'ascensore, sicura su dove avrebbe trovato il marito.
Anche l'acconciatura della donna era stata vittima del vento freddo non appena aveva superato la botola metallica che dava sul piccolo tetto in calcestruzzo. Aveva lanciato un lungo sguardo al marito, sofferente, prima di avvicinarsi sul bordo del largo parapetto e adagiarvi sopra Xenya.
Si era poi avvicinata all'uomo che ancora stava dando le spalle alla propria famiglia, lasciando che il freddo materiale premuto contro la schiena della bambina la risvegliasse. Questa aveva allungato le tozze braccia verso il cielo, sgranchendo le dita come se volesse agguantare una di quelle stelle e portarle sulla Terra.
La bambina si era poi portata le mani al volto, stropicciandosi gli occhi prima di riconoscere il luogo dove si trovava. I suoi genitori stavano parlando fitto, appoggiati con i gomiti sul lato opposto del tetto. Perché si trovavano lì?
La piccola giovane aveva dunque allungato le gambe verso il pavimento scuro ma, una volta appoggiati i piedi sul cemento, la sua vista era stata catturata da un oggetto metallico che le era caduto nel movimento.
Una pistola.
«Mamma, papà?» aveva chiamato piano, alzando solo successivamente gli occhi verso il luogo dove sino a poco prima i due adulti stavano parlando.
Non appena alzò il viso verso di loro, aveva notato che la stavano guardando severi. E, accanto a loro, stava anche l'inconfondibile figura di Francis.
«Cosa...»
Provò a porre una domanda che le si smorzò in gola non appena i suoi occhi verdi corsero verso il basso, a notare come la pistola che prima stava a terra era finita nella stretta della sua mano adulta.
Alzò lo sguardo di nuovo e la vista dei propri genitori, morti e avvolti in una pozza di sangue quasi la accecò.
«Vuoi davvero uccidere anche me?» La profonda voce di Francis la fece sussultare. «Vuoi davvero fingere che non sia mai vissuto?»
Xenya, in un istante di panico, provò a gettare la pistola che ancora era incollata alla sua mano, incastonata con una tale perfezione, così preziosa e in grado di decidere per così tante persone.
Le dita della mano destra però non rispondevano e più la ragazza provava ad allentarle, più esse si accanivano sul fragile grilletto.
Provò dunque a far intervenire la sinistra: tutto pur di sottrarsi al terribile dolore che già aveva provato. Ma l'indice si strinse d'un tratto sulla magica leva e, in un battito di ciglia, il colpo era già dentro lo stomaco di Francis.
E ciò che ne seguì fu solo un urlo, monocorde e infinito.
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Xenya era già seduta quando, svegliandosi di soprassalto, si ritrovò faccia a faccia con gli occhi azzurri di Zeke che oscillavano preoccupati a ritmo con le scosse che il ragazzo le stava dando. Le sue braccia la stavano scuotendo da un po' e la situazione ricordava in parte come Madeline l'aveva strappata dalla connessione mentale qualche tempo addietro.
Resasi conto solo in seguito del contatto che stavano condividendo, la fata indietreggiò. Spaventata dalla vista improvvisa dell'elfo e ancora reduce del panico dovuto all'incubo, strisciò aiutandosi con braccia e gambe lungo il divano posto nei pressi dell'entrata della sua casa fino a che non si trovò a ridosso del bracciolo consunto.
Studiò in velocità l'intorno, sconcertata: no, non era più nel mondo dei sogni e sì, Zehekelion era di fronte a lei, piegato sulle ginocchia al suo stesso livello e scosso in egual misura.
Il ragazzo si raddrizzò, osservando la soldatessa dall'alto della sua statura.
«Stavo provando a tagliare il prato e ti ho sentita urlare...» sussurrò, provando a interrompere quel silenzio angosciante. «Posso sedermi?»
Alla vuota risposta della sua terrorizzata interlocutrice, si appoggiò con delicatezza al bracciolo opposto e riprese a guardarla. Questa, silenziosa, abbassò ancora lo sguardo trovandosi a fissare le sue dita intrecciate e tremanti.
Nel sogno aveva in mano una pistola. Stava forse sparando di nuovo a qualcuno a cui teneva?
«Non penso tu ne voglia parlare» azzardò l'elfo, abbozzando un sorriso che non venne visto. La ragazza scosse appena la testa, avvalorando la sua ipotesi. «Chi lo farebbe, dopotutto?»
Zeke ridacchiò con amarezza, scendendo dal bracciolo e sedendosi poi sulla vera e propria seduta sfondata. Allungò una mano verso Xenya, ripensandoci subito dopo e facendola ricadere sul finto cuoio che li separava.
«Mi dispiace che tu abbia passato dei brutti momenti nel Progetto, ma da ora tutto cambierà.»
Attese un poco prima di riprovare a toccarla con un secondo tentativo che si rivelò quello buono: le dita del giovane non si ritrassero e arrivarono alla meta, ritrovandosi in brevissimo tempo a stringere quella ragazza che al tatto gli risultava gelata.
«Ora tutto cambierà» ripeté, ricordando come dopo i suoi incubi costanti aveva sempre desiderato qualcuno disposto a mostrargli il lato luminoso della vita.
Xenya strinse gli occhi, lasciandosi andare e rilassando le membra tese e stanche. Permise a Zehekelion di avvolgerla con il suo abbraccio ma, proprio mentre la sua fronte acconsentiva ad appoggiarsi alla forte spalla di lui, le prime immagini dell'incubo le tornarono alla mente. I suoi genitori morti, Francis...
Francis. Di nuovo.
Era toccato a lui di nuovo.
Senza nemmeno attendere il tempo necessario per elaborare ciò che il suo subconscio volesse comunicarle, la soldatessa si staccò a velocità della luce dal ragazzo, ritrovandosi in piedi e stravolta quasi più di prima.
Perché doveva sempre sognare la morte di chi aveva lasciato indietro? Perché quegli incubi non potevano lasciarle un sonno che fosse uno in pace?
E perché era sempre l'omicidio di Francis quello che la feriva di più?
La razionalità aveva abbandonato il cervello di Xenya, troppo stanca e raccapricciata per poter ragionare su ciò che il cuore fremeva per comunicare. E proprio per questo si ritrovò a esprimere il pensiero che da giorni la ragazza provava a sotterrare lontano dalla realtà.
«Nonostante tutti, compresa me stessa, continuino a dire che qui le cose cambieranno, io sono sempre la stessa e tutto ciò che è successo non cambierà.»
Tutto d'un fiato, liscio come l'olio. Non una sola incrinatura nella voce o nella postura, non stava piangendo né autocommiserandosi, stava solo raccontando la propria verità.
Zeke la fissava, attonito, ancora seduto sul divano con le braccia sgraziatamente poggiate su di esso, quasi la rottura dell'abbraccio non l'avesse contemplata. Batté un paio di volte le palpebre prima di rispondere.
«Stavo solo cercando di...»
«Non mi importa cosa volevi fare.» Il sussurro dell'elfo venne in facilità sovrastato dall'urlo a malapena contenuto della soldatessa. «Lasciami stare.» L'acidità che emanavano quelle parole era sorprendente.
E indicando con un braccio alla porta lì accanto, tentò di cacciare l'elfo, il quale però non aveva alcuna intenzione di muoversi dalla casa.
«Xenya...» provò a farla ragionare.
«No, vai.» Enfatizzò il concetto accennando ancora all'uscio.
Zeke scosse un poco la testa, scandalizzato.
«E allora me ne andrò io.» Richiamato il braccio lungo il fianco e, assicurandosi che le ali fossero state correttamente richiamate, Xenya uscì dalla porta sbattendosela dietro alle spalle.
Ciò che trovò assurdo, però, fu che il trambusto appena accaduto dentro la casa era pressoché nullo se comparato a ciò che stava accadendo all'esterno.
Gli elfi si muovevano di corsa sotto il cielo terso di quel pomeriggio soleggiato, in una danza impazzita che non aveva nulla a che vedere con la pacatezza che avevano dimostrato fino a qualche ora prima.
Xenya si guardò attorno mentre, proprio nello stesso istante in cui Zehekelion stava uscendo dalla porta, captava una prima frase concitata: «Sono arrivati.»
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