31

Il silenzio era diventato assordante, troppo assordante perché potesse essere sopportato un solo istante in più.

Ma quando Xenya spalancò gli occhi e non vide null'altro che bianco, si preoccupò davvero di essere morta. Eppure c'era qualcosa che le diceva di essere viva, e questa voce appena sussurrata si rivelava piuttosto convincente.

Si accorse di essere distesa a pancia in giù, sopra a un letto candido largo almeno il doppio di quello che aveva a Palazzo della Pace. La cosa che la stupì di più fu che il materasso la stava circondando: il suo corpo si trovava a un livello più basso rispetto al resto, quasi fosse stato scavato un approssimativo contorno di una figura umana dentro il morbido materiale.

La testa, ruotata sopra la spalla sinistra, le pulsava: perché era distesa lì, in una specie di bara? Strizzò gli occhi, richiamando i ricordi: era per via dell'intervento.

Dopo l'essere stata drogata dal medico sconosciuto non rammentava più alcunché. Si sforzò di capire cosa fosse successo in seguito, ma a esclusione di un fortissimo dolore che le era rimasto impresso nella mente - senza ricordare né dove né quando l'avesse provato - non le rimaneva nulla.

Fece strisciare le braccia lungo la superficie del letto fino a quando non raggiunsero i lati del suo capo. Voleva alzarsi dal cunicolo ma, non appena premette di poco i palmi sulla schiuma espansa, notò una cosa che bloccò le sue intenzioni: il dorso della sua mano sinistra.

Le nocche non erano più avvolte nella fasciatura, anzi: erano libere e appena screziate dove la pelle nemmeno doveva essere presente. Guardandosi i palmi, invece, vide che erano del tutto liberi dalle mezzelune delle unghie che si era impressa da sola.

Come poteva essere possibile? Era certa che la Kein non volesse attuare una ricostruzione dei tessuti. Girò la testa dall'altro lato per poter guardare la rispettiva mano, scoprendo che persino quella era in pratica risanata.

La cosa ancora più preoccupante però giaceva nell'interno dell'avambraccio destro: la pelle, invece che rosea e pallida come di consueto, aveva assunto un colorito blu a chiazza che occupava anche buona parte della piega del gomito. Mettendo meglio a fuoco, fu in grado di notare un ago conficcato nella sua carne, assicurato con un elastico magnetorestringente perché non potesse essere tolto senza l'apposita chiave. La piccola astina metallica era anche collegata a una cannetta blu scuro: Xenya si chiese se quello fosse solo il colore del liquido estraneo che le stavano immettendo o anche quello intrinseco della plastica del tubicino.

Due domande sorgevano quindi spontanee: quanto tempo era rimasta dentro quello strano letto da convalescente? E soprattutto, cosa le avevano fatto?

Fece forza sulle braccia, noncurante della flebo e decisa ad alzarsi, ma qualcosa non andava: il suo corpo pesava più di quando si era addormentata, ne era certa.

Diede sfogo a tutte quelle poche energie che sentiva di avere dentro ma, proprio prima che riuscisse a sollevarsi, una sirena emise un rumore così acuto da farla ricadere nella silhouette scavata, le mani premute sulle orecchie.

Passi veloci entrarono nell'ambiente che la ragazza non aveva ancora avuto l'occasione di visionare.

«Oddio, è sveglia.» Una Kein sorpresa raggiunse di soppiatto la ragazza. Fece il giro del materasso e la guardò dall'alto, un enorme sorriso che le si apriva sul volto.

La soldatessa levò le proprie mani dai padiglioni auricolari sentendo l'allarme scemare. Alzò cauta il volto sino a incontrare quello del medico.

«Penso... di sì.» La voce le usciva impastata, faticando a staccarsi dalle labbra che le risultavano impossibili da sentire.

«Chiamo il Consigliere Capo. Non si muova» affermò decisa la donna, pronta ad andarsene.

«Ferma...» Sforzandosi, la soldatessa riuscì a bloccarla. «Dove... sono?» Le parole fuoriuscivano lente, assonnate.

«È a Palazzo della Forza, piano trentaduesimo, e ci è rimasta per un totale di quarantuno giorni» affermò meccanica, quasi avesse tenuto il conto lei stessa e, senza aggiungere altro, uscì sbattendo una porta che risultava invisibile per Xenya, il cui campo visivo ancora si limitava al materasso e a null'altro.

L'idea di provare ad alzarsi di nuovo le sfiorò la mente più volte nel tempo d'attesa, ma il solo pensiero di dover udire ancora una volta quella sirena che rimbombava nel suo cranio ancora scombussolato, le faceva rivalutare il rimanere distesa.

'Quarantuno giorni' ripeté tra sé. Per quello le sue ferite erano guarite: il tempo le aveva aiutate.

E il Progetto X? Cos'era successo a Yekson, a Madeline? Avevano tenuto una funzione d'addio per Francis? Qualcuno era andato a trovarla? Cosa le avevano davvero fatto? Perché era stata convalescente per così tanto tempo?

Ma la cascata di domande venne interrotta dall'uscio che si apriva ancora una volta, seguito dall'entrata di passi delicati - non appartenenti a S considerata l'assenza della puzza di fumo come apripista.

Il rumore si avvicinò, sino a posizionarsi alla destra della soldatessa che, con discretezza, alzò la testa: la Kein, di spalle, armeggiava con quello che pareva proprio un quadro elettrico che controllava l'allarme.

In effetti, dopo quarantuno giorni di coma, era inutile lasciare qualcuno a guardia. Sarebbe stato uno spreco di risorse, tanto meglio sfruttare la tecnologia.

«Il Consigliere Capo è impegnato» spiegò la donna, agitata mentre ruotava sul proprio asse per affiancare il letto. Non poteva negarlo: era spaventata dalla reazione che avrebbe potuto avere Xenya e si pentiva moltissimo di ciò che era stata costretta a fare. Ma, come le aveva detto, non aveva avuto scelta. «La aiuto ad alzarsi.» Le sorrise appena.

La ragazza appoggiò ancora una volta il proprio capo sul materasso e attese che il medico che reggeva la chiave magnetica allentasse la guaina per poi sfilarle l'ago dal braccio. La micro ferita si chiuse con una piccola goccia bluastra che, seccandosi subito, tappò il foro d'uscita.

«Cos'è?» chiese la ragazza, lenta, molto spaventata all'idea di sapere cosa le avevano iniettato per tutti quei giorni, tanto che metà del suo arto destro diventasse blu.

«Legante organico-inorganico» spiegò in breve l'altra, dopo aver avvolto il tubo sottile attorno a un apposito gancio sull'asta metallica che sosteneva la sacca. «Ma quando si alzerà, capirà meglio. Ce la fa a tirarsi un po' su?»

Xenya non ne era proprio certa. Però, seppur perplessa, decise di risparmiare le forze che avrebbe speso nel porre altre domande per ripetere il gesto della volta precedente. Attingendo a tutte le energie che aveva in corpo, riuscì ad alzarsi sulle braccia. Appena le fu possibile, la Kein la prese sotto le ascelle e l'aiutò a mettersi in posizione eretta sopra al materasso.

Nel momento in cui allentò la presa, però, la soldatessa si sentì sbilanciare all'indietro ma compensò subito con il piegarsi di poco in avanti e stendendo le braccia per mantenere l'equilibrio.

Preoccupata, la dottoressa le strinse il polso sinistro per sorreggerla - non che servisse molto, comunque.

Nello sforzo di mantenersi il più possibile dritta, la mano destra di Xenya toccò qualcosa di freddo, liscio e solido, seppur non troppo rigido. Si voltò in quella direzione e fu sorpresa da un forte conato.

Alta al massimo come una volta il suo avambraccio e lunga almeno quattro, nera contro l'intorno bianco ottico, spiccava un'ala.

Un'ala.

La fibra di carbonio costituiva la struttura composta da tubi rigidi, cavi e con sezione rettangolare, tra i quali erano tesi degli strati più sottili dello stesso materiale.

In preda a un attacco di panico, Xenya girò la propria testa verso sinistra e vede un'altra protuberanza nera, simmetrica. Ricordava di aver già visto una forma del genere nei pipistrelli che infestavano i frutteti di notte decorando il cielo rossastro con graziose piroette.

Toccò meglio la strana estroflessione di destra con la mano sinistra: magari si trattava solo di una strana visione, doveva esserlo.

Eppure non era così: al tatto era fredda, estranea. La sospinse appena per capire se era davvero collegata al suo corpo come il suo subconscio temeva; magari si trattava di uno scherzo. Ma la preoccupazione era concreta e corretta: nell'istante in cui applicò della pressione, un lieve dolore si fece strada a partire dalla parte destra della sua schiena, subito sotto la rispettiva scapola e poco distante da dove sapeva si trovasse la colonna vertebrale.

Al contrario dei pipistrelli, non c'era più nulla di aggraziato nella selezionata: era diventata un abominio.  

La mente non elaborava più in maniera corretta. La ragazza nemmeno osava guardarsi, aveva gli occhi fissi sulla stanza trapezoidale e bianca, cercando di concentrarsi sugli arredi presenti quali un divano da due posti che affiancava la parete finestrata di destra, un tavolo con sedia davanti e poco distante dal materasso. E nel mezzo tra due porte, una delle quali portava a un bagno, spiccava uno specchio a figura intera appoggiato alla parete. Non appena Xenya vide il proprio riflesso su di esso, smise di percepire il proprio stomaco.

Le avevano davvero impiantato delle ali.

«Dimmi che mi sto sbagliando, che non è vero.» La rabbia, facendo ancora capolino, permetteva alla soldatessa di parlare in modo normale. «Dimmi che non sono diventata un volatile!» sbraitò, divincolandosi dalla presa della dottoressa che ancora le stringeva il polso.

«Riesce a scendere?» chiese invece lei, girando attorno al letto e posizionandosi di fronte alla ragazza. Allungò anche le proprie braccia perché potesse sfruttarle come un appoggio in più.

Nemmeno fosse un infante che doveva muovere i primi passi.

Ma Xenya rifiutò. Non aveva intenzione di darle la soddisfazione di un contatto che potesse illuderla in una sorta di perdono o comprensione; proprio ciò a cui il medico aspirava.

Qualsiasi minaccia fosse stata sottoposta, qualsiasi tortura avesse dovuto subire non poteva giustificare un gesto tale. Cosa l'aveva fatta diventare?

La ragazza si guardò intorno: come avrebbe fatto a scendere? C'era un dislivello non molto alto tra il letto e il pavimento, ma le sue ali ricurve verso il basso avrebbero impattato a terra facendole quasi di sicuro male.

Fece un profondo respiro e scese con una gamba e poi con l'altra, molto più incerta di quando aveva provato i futuristici attrezzi interattivi della sala di allenamento. Più titubante di quanto fosse mai stata.

Non riusciva a interiorizzare: era impossibile ci avessero solo pensato, figuriamoci realizzarlo! Eppure eccola, in procinto di scoppiare in una crisi isterica, mentre cercava di scendere da un materasso.

Come previsto, le punte delle ali toccarono terra, piegandosi, ma il corpo della soldatessa reagì alla scarica del dolore, alzando in automatico le ali e spiegandole verso l'alto. Si riabbassarono poi, in autonomia, sino al punto in cui sfiorarono il terreno.

Forse avrebbe davvero dovuto morire durante l'intervento, sarebbe stato meglio di essere ridotta in uno stato del genere. Aveva paura. Non ne aveva mai avuta tanta prima d'allora, nemmeno quando la lettera di richiamo per il Progetto X le era stata recapitata.

Era l'ignoto a spaventarla e farla sentire male.

I suoi nuovi arti occupavano quasi l'interezza della stanza ed era stato di sicuro a causa di quell'impiccio che era stata lasciata a riprendersi in un letto così particolare: le ali dovevano essere sorrette in qualche maniera senza che la ragazza ci premesse contro il proprio peso corporeo.

«Almeno il legante funziona...» Cercò di sdrammatizzare la Kein, abbozzando un sorriso mentre posizionava delusa le braccia lungo il proprio corpo.

Attratta come da una calamita, la figura di Xenya vestita con la stessa tunica smanicata dell'operazione si avvicinò allo specchio. Il tatuaggio con il codice sulla spalla e le ali si abbinavano. Era divertente e triste in contemporanea vedere come quei mesi l'avessero cambiata.

Non solo nel fisico, nonostante ormai fosse l'aspetto più evidente, ma anche nell'interno. Ghignò nel vedersi e lo sguardo che assunse allo specchio avrebbe fatto paura alla ragazza che esisteva prima del Progetto X.

Forse quella avrebbe pianto, forse avrebbe attaccato la Kein sperando in una via d'uscita, forse avrebbe provato a strapparsi le ali. Ma in quel momento, la nuova Xenya non poteva far altro che congratularsi mentalmente con S: era riuscito nella sua impresa.

Lei si era arresa.

L'anziano aveva scommesso sulla sua vita: ricordava ancora le frasi che si erano scambiati lui e la Kein durante la prima visita. Quella mezz'ora extra spesa incosciente non era per verificare la fertilità della giovane, ma per capire se fosse possibile impiantarle le ali o meno.

Ricordava come nel proprio programma d'allenamento erano sottolineate le altezze e i movimenti. Bill con ogni probabilità non ne sapeva niente, eseguiva gli ordini che gli erano stati dati, ovvero addestrarla perché fosse in grado di sopportare la possibilità di essere un soldato volante.

E ricordava anche Cazik, il capo dell'armeria, scortato fuori dalla palestra in manette per aver detto qualcosa di troppo. In quel preciso istante la soldatessa fu in grado di capire cosa aveva spifferato senza volerlo: l'idea di modificare il corpo umano.

Quanti indizi che le erano stati forniti, quanti indizi che erano andati sprecati. Il tutto perché era troppo concentrata a cercare la verità sui suoi antenati piuttosto che badare alla sua salute come invece si era di continuo raccomandata dall'inizio del Progetto X. Come le avevano raccomandato i suoi genitori prima di essere uccisi.

Sorrise ancora una volta, facendo risultare quel gesto in una smorfia impazzita. Molto simile a quelle degli Strength.

«Cos'è successo?» chiese pacata Xenya, guardando negli occhi la Kein che, nel riflesso, spuntava appena con la testa da dietro l'ala sinistra.

«È stato un intervento davvero complicato. Abbiamo rischiato di perderla un paio di volte e...»

La mano destra della soldatessa si mosse con calma verso l'angolo in alto a sinistra dello specchio e tirandolo verso di sé lo fece cadere a terra, mandandolo in frantumi.

«Ti sembra sia quello che ti ho chiesto?!» sbraitò, voltandosi così in fretta verso la dottoressa da far impattare il nuovo arto contro la parete.

Ma il dolore fisico era nullo contro l'ira che le stava montando dentro.

Puntò il dito contro la Kein. Le unghie, durante quei quaranta giorni, le erano cresciute abbastanza da poter graffiare con successo chiunque. E nonostante le nocche le fossero da poco guarite, non aveva la minima intenzione di risparmiarsi se fosse stato necessario fare a pugni con qualcuno.

Il medico indietreggiò con un'espressione di puro terrore dipinta in volto.

«Non me ne frega niente se mi avete uccisa e poi resuscitata. Proprio niente.» Xenya sorrise, ferma e malvagia. «Voglio sapere cosa mi avete fatto, voglio sentirmelo dire da te.» Scandì bene le parole una a una, avanzando di un passo per incutere più timore.

Non era più il tempo di scherzare.

«Ti abbiamo impiantato delle ali in carbonio» ammise la propria colpa, abbassando lo sguardo mentre iniziava a darle del tu. «E per far sì che potessero diventare parte integrante del tuo corpo, ti è stato iniettato il legante. Grazie a quello i nervi e muscoli artificiali che abbiamo creato in laboratorio e collegato con quelli preesistenti nel tuo corpo, sono diventati un tutt'uno.» Parlava a testa bassa, spaventata nel profondo.

In quell'istante Xenya si risvegliò, rendendosi conto che stava davvero impersonando la belva che S voleva interpretasse: era davvero diventata un mostro; a tal punto di minacciare in modo indiretto chi era solo costretto a eseguire dati ordini.

Il braccio con cui stava affrontando la Kein le cadde addosso al corpo. E le ali, che senza che se ne accorgesse si erano spiegate verso l'alto come accadeva per gli animali con lo scopo di dimostrarsi più grandi e forti, si abbassarono insieme all'arto.

«Sei il migliore esperimento mai effettuato, Xenya» affermò la dottoressa, cercando di riprendere il controllo e la ragazza le permise di farlo. «Sei il prossimo stadio dell'evoluzione umana: sei la prima fata

La parola le rimbombò nella testa. Fata. Avevano ricondotto anche lei a una creatura mitologica.

Quindi ora non era più classificata come donna sana. Era diventata una mutante.

Silenziosi passi accompagnati da pesante fetore si fecero strada nella stanza, fermandosi davanti ai cocci di vetro sparsi nel pavimento.

Xenya allungò il proprio sguardo verso i frammenti dello specchio per vedere la figura di Strength che, giunto nella stanza, cercava di ricostruire l'accaduto.

«Può lasciarci, dottoressa» ordinò tetro l'uomo, calciando senza forza un vetro rotto con la punta della scarpa nera.

La Kein, ben contenta di potersela svignare, non se lo fece ripetere due volte e quasi corse verso l'uscita.

«Le fate sono esseri bellissimi e malvagi, carichi di potere» iniziò il Consigliere Capo, non appena la porta venne richiusa. «E se si imprigiona una fata, lei è costretta a condividere la magia con il suo carceriere. Ebbene, è proprio ciò che accadrà a te.» Anche S aveva lasciato da parte i convenevoli.

Alzò la testa dai frammenti e andò a sedersi sul divano bianco, dando le spalle alle finestre che mostravano un paesaggio più scarno di quando la soldatessa era stata operata: si stava avvicinando l'autunno.

«Non è stata una mia idea...» Sospirò, incrociando le gambe. «All'inizio volevo solo renderti sterile così dopo la tua prematura morte non avrei più avuto alcun problema ma Zabu, uno tra i miei collaboratori più fidati, mi ha dato un'idea migliore: perché non sfruttarti e tenerti legata per sempre all'Ordine?»

Xenya ebbe voglia di sapere a quando risalissero quei suoi malsani pensieri, ma in fondo già sapeva che doveva avere programmato la sua vita subito dopo aver terminato la sepoltura di ciò che rimaneva dei suoi genitori; forse anche prima.

«Esistevano tanti altri modi oltre che impiantarmi delle ali.» Lo guardò stringendo gli occhi, la rabbia ancora che le faceva ribollire il sangue nonostante si sforzasse il più possibile di non reggergli il gioco.

«Oh, no...» Sorrise. «Così sarai un simbolo per tutti. Un mutante buono per liberarci dai mutanti cattivi, una specie di sicario da imitare.»

«Disgustoso» sputò fuori, riluttante. Voleva servirsi di lei per fare propaganda alle sue idee, e il fatto che fosse una Peace, per lui era ancora più importante.

«Necessario, non disgustoso» la corresse, sciogliendo le gambe dal loro incrocio e sporgendosi in avanti per poterla guardare meglio. «E non appena la tua immagine da gloriosa salvatrice fedele all'Ordine si affermerà, giungerà per te il momento di convolare a nozze con mio nipote.»

La serietà con cui l'aveva affermato la spaventava: da quel poco che conosceva il Consigliere Capo, più sembrava convinto di ciò che diceva, più le prospettive erano nere per tutti fuorché lui.

«Perché dovrei?» tuonò Xenya, stupita che potesse anche solo ipotizzare una cosa simile.

«Quindi davvero non sai nulla del tuo retaggio?» Divertito, poggiò le spalle allo schienale del divano. «Quando David me l'ha detto, non volevo crederci.»

«Cosa dovrei sapere?» Chiuse i palmi, cercando di non far intravedere che conosceva già una parte importante del passato della sua famiglia. «Lei ha ucciso i miei genitori!»

«E non solo!» Alzò le braccia, scoppiando a ridere. «Ho sbagliato a lasciar fuggire Ger Peace nel lontano 3443, spacciando la sua mancanza come un'abdicazione: lui e i suoi stupidi elfi hanno causato non pochi problemi. Ma, fortunatamente, non ho commesso lo stesso errore con l'Oligarca Health dato che sono riuscito a toglierlo di mezzo e farlo passare come suicida. Il bello è che le sue cellule erano quasi del tutto prive da interferenze di radiazioni così, clonando i globuli bianchi e inserendoli in un tessuto connettivo, siamo riusciti a creare i proiettili di sangue.

«E non ci siamo limitati a quello: abbiamo mutato alcune basi azotate del suo DNA perché risultasse puro. Sai, volevamo che la reazione nei mutanti fosse il più veloce e intensa possibile. La coincidenza più divertente, però, è stato analizzare il campione del sangue che hai lasciato sul foglio dell'intervento e scoprire che tu possiedi proprio le stesse sequenze genetiche dei globuli modificati. C'è il tuo sangue dentro i proiettili ed è pure dentro l'organismo di tutti i morti per quegli stessi colpi. In pratica sei l'essere più puro della Terra; ironico che tu ora sia diventata una mutante, no?»

Sangue... Proiettili. Le stava tornando in mente qualcosa dell'intervento.

Una sfera viola e... Zenith?! Scacciò ogni idea, ci avrebbe pensato dopo.

«Cosa c'entrerebbe con me la storia dell'invenzione dei proiettili?» Doveva restare concentrata sul confronto con S.

«Proprio niente, mi sono dilungato su una cosa che ho trovato divertente.» Sospirò, ruotando la testa e sorridendo. «Fatto sta, Xenya, che tu sei nipote di entrambi Ger Peace e Herald Health. Sei l'incarnazione di due terzi dell'Ordine di Clock e, quando darai alla luce un figlio con David, lui o lei saranno monarchi assoluti e la mia stirpe vivrà per sempre.»

«Co-com'è possibile?» balbettò, costretta a fare un passo indietro.

Herald Health era Herald Ohbel, colui che aveva scritto la lettera.

Per quello era a conoscenza di così tanti dettagli... Per quello tutti affermavano lei fosse più potente di S.

Due terzi del potere terrestre erano suoi per diritto di nascita.

Una Peace Health, una fata, un soldato, un'amica, una Consigliera, una nullità, un'amante, una ragazza, la salvatrice dell'umanità.

Quanti nomi nuovi che continuavano ad affibbiarle. Ma lei, cos'era in realtà?

«È una storia molto lunga...» L'uomo sorrise, divertito dalla reazione mentre si sgranchiva le spalle per iniziare il racconto. «Si può dire che tua madre Heleanor Health, e tuo padre Kelan Peace seguirono l'astuto consiglio dei loro genitori e si sono sposati. Ma la cara Hele non l'ha fatto di sua spontanea volontà: il suo orientamento sessuale era del tutto diverso. Devi sapere che era fidanzata con una ragazza la cui morte l'ha convinta a portare in grembo un figlio che avrebbe permesso loro di rovesciare il mio regime.»

«Perché avrebbero voluto?»

«Tuo padre, davvero un leader nato al contrario di mio figlio, considerava le mie idee scellerate, suicide. Ho sempre voluto eliminare quella feccia mutante. Come tu stessa sai, sono molto pericolosi: continuano a contagiare il mio popolo e farli diventare bestie come loro. La mia stessa figlia primogenita, la mia bellissima creatura diafana, è stata trasformata in troll in seguito a una scampagnata, e sono stato costretto a ucciderla con le mie mani davanti a tutti per dare loro un esempio.

«Ma il motivo principale per cui tua madre mi odiava, era il suo amore per mia figlia e a causa di quel sentimento cercava vendetta, per quello ha accettato di spodestarmi. Poi è stato il turno di tuo nonno Herald di raggiungere la pace eterna. Aveva quasi trovato una cura per i troll e io non potevo permetterglielo: mia figlia sarebbe morta per niente. Ho dovuto fermarlo, capisci?»

No, non capiva. Ma non poteva reggere ancora gli sconsolati racconti del vecchio.

«Cos'è accaduto durante la rivoluzione verde?» Pose una domanda più specifica.

«Quindi l'hai sentita nominare...» intuì, stringendo gli occhi con fare interrogativo.

«Solo di sfuggita.»

«Ebbene, i tuoi genitori avevano racimolato un seguito piuttosto cospicuo. Erano abbastanza numerosi perché riuscissero a stanare tutti i miei sessanta Consiglieri nei loro rispettivi settori e ucciderne cinquantanove. L'ultimo, appartenente al Settore Due, era stato solo ferito in modo grave, ma non abbastanza perché rinunciasse al suo giuramento. Una volta che i ribelli se ne furono andati verso il luogo sconosciuto dove ora risiedono gli elfi, ha radunato tutte le guardie che ha trovato e le ha spedite verso Palazzo della Forza.

«Là stavo tenendo un incontro per l'inizio della soppressione dei mutanti con la divisione scientifica. Per fortuna i valorosi soldati che tutt'ora compongono il Corpo J di sicurezza dei tre Palazzi sono arrivati prima dei tuoi genitori. E nonostante loro fossero armati, riuscirono a sopraffarli e catturarli. Il resto l'hai vissuto anche tu. E ora, con il Progetto X, riuscirò a concretizzare una volta per tutte il mio ideale di razza pura. E tu sarai la paladina della giustizia che indicherà a tutti la retta via.»

Ricordava ancora i corpi leggeri dei suoi genitori che cadevano dal palco dopo l'iniezione di antimateria inventata apposta per quello scopo: nello stesso istante in cui entrava in circolo, il cuore e tutto l'apparato circolatorio si volatilizzavano, lasciando i due corpi secchi al vento.

«E David che ruolo avrebbe in tutto questo?»

«Non ho ucciso mio figlio e sua moglie per nulla, due settimane dopo il parto. Non l'ho fatto adottare dagli Strange nel tuo stesso settore per nulla: David prenderà il mio posto al potere sino a quando i vostri pargoli non saranno a sufficienza grandi per farlo. E per fortuna che è diventato albino come la mia adorata Roxa, rivedo molto di lei in lui.»

Xenya, nemmeno se si fosse sforzata, non sarebbe mai riuscita a provare compassione per S: lui aveva ucciso sua figlia, lui aveva costretto a fuggire Ger, lui aveva ucciso Herald, lui aveva giustiziato i genitori della ragazza, lui aveva fatto uccidere Francis, lui aveva fatto quasi annegare dei ragazzi del Progetto, lui le aveva impiantato delle ali.

E se fosse stato in grado di provare tutto il rimorso presente nel mondo, per la soldatessa non era ancora abbastanza. Doveva perire delle stesse pene che aveva inflitto non solo a coloro direttamente interessanti, ma anche a chi li conosceva, li stimava, credeva in loro, li amava.

«Lei sta dando per scontato che io appoggi questo piano folle.» Xenya riprese la parola, determinata mentre i nuovi arti ondeggiavano appena a causa di una folata entrata dalla finestra aperta. «Beh, le darò una pessima notizia: non lo farò mai.»

«Non hai altre alternative!» Il Consigliere Capo rise. «Cosa pensi di fare? Tornare al Cinquantatré come se nulla fosse successo? Voi tutti siete di mia proprietà, quel Darkspire ne è stata la prova, e tu più di chiunque altro mi appartieni. Quelle ali saranno la mia garanzia: non puoi levarle, non puoi nemmeno nasconderle sino a quando noi non ti insegneremo a sfruttare questa tua nuova arma. Solo a vederti tutti si spaventerebbero e ti ucciderebbero: sei una mutante ora. Indotta, certo, ma sempre mutante.»

«Lei è pazzo.»

«Oh, no: niente affatto! Sono un visionario.» La convinzione con cui affermava quelle parole era spaventosa. Come poteva anche solo pensarlo, lui che era sopravvissuto alla Terza Guerra?

«La prego di andarsene e non tornare mai più.» Stringendo i denti, Xenya si decise e cacciò il Consigliere Capo.

L'uomo sorrise compiaciuto e si alzò dal divano, lisciandosi l'estremità inferiore della giacca prima di imboccare l'uscio.

«Arrivederci, allora. Ti farò sapere quando effettueremo il comunicato olografico per far sapere a tutti che alla fine l'Oligarchia è tornata grazie a te che ti presterai alla causa... Già.» Annuì tra sé. «Ma prima dovrai imparare a muoverti. Gli allenamenti inizieranno domani.»

Quando la porta si chiuse dietro l'anziana figura di S, con essa si chiusero tutte le aspirazioni di Xenya per una vita migliore fuori dal Progetto X, compresa la sua stessa libertà.

Poco distante dalla sua persona, Xenya notò una sedia in plastica bianca, rigida e con lo schienale a sufficienza stretto perché non interferisse con le ali, fatta eccezione forse per l'attaccatura.

Non poteva nemmeno sedersi sul divano perché farlo le avrebbe rotto o comunque compromesso i telai in fibra di carbonio. Era diventata troppo grande, troppo ingombrante, troppo vistosa.

Era un esperimento, proprio come aveva affermato la Kein.

Si lasciò cadere sulla seduta mentre subiva gli avvenimenti senza più essere in grado di modificarne il corso. Sconsolata, si prese la testa tra le mani: non era più un un essere umano. Era un oggetto da esposizione.

La sua vita
era finita.

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