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«Xenya...»
Un sussurro lontano la costrinse a spalancare gli occhi.
Due iridi violacee le apparvero davanti al viso, ferme e nitide che, data l'incredibile vicinanza, occupavano l'intera visuale della soldatessa.
«Zenith? Non è possibile, tu sei morta...» Ci pensò un istante. «Merda, allora sono morta anch'io.»
Il panico stava ingoiando la soldatessa, ma la sensazione che tanto le turbava la psiche non aveva alcuna ripercussione sul suo fisico: niente tremori, niente sudore freddo. Era solo un sentimento che paralizzava quasi l'interezza della mente, ma così distante da potere essere scambiato come un ricordo lontano: era qualcosa di inspiegabile.
«Magari non è morta nessuna delle due...» L'elfa ghignò, la faccia ancora appiccicata a quella della soldatessa. «Vita e morte sono concetti astratti, magari quella di prima era la morte e ora sei viva. La risposta è solo nel punto di vista.»
«Ma sembri così reale e io...»
«Shh.» Le tappò la bocca con una mano, senza lasciarle tempo di concludere la formulazione della frase. «Non hai pensato che questa possa essere la realtà, mentre quello che hai provato prima fosse finzione?»
La mano di Zenith metteva in collegamento le labbra delle due, ma nessuna sembrava percepire il contatto. Il viso dell'elfa, incorniciato dai lunghi capelli neri, era ancora a minima distanza da quello di Xenya, mentre il cervello di quest'ultima era sul punto di esplodere.
«Cazzo, ho la testa che mi scoppia.» Espresse i propri pensieri come se non fosse dotata di alcun filtro. Sentiva di essere distesa seppur non riusciva a sentire nemmeno la propria pressione su un solido o su una qualsiasi superficie.
«È normale le prime volte.» Zenith sorrise serafica, continuando però a scrutarla indagatrice come se la stesse studiando. «Sia provare dolore, sia imprecare con facilità.»
«Perché?» chiese la soldatessa, desiderosa di capire cosa intendesse con prime volte. Si poteva morire in più occasioni?
«Sei proprio incontentabile!» L'altra ridacchiò. Si allontanò dal viso della nuova arrivata e l'aiutò ad alzarsi in piedi, seppure nell'intorno non fosse presente nulla per potersi definire in posizione eretta o meno.
Intorno alle due era possibile osservare solo un'infinita e liscia distesa viola che abbracciava ogni dimensione dello spazio, compreso il tempo che si percepiva sulla pelle come pulviscolo dello stesso colore. Sembrava di essere rinchiusi in un'enorme sfera, al cui interno non era possibile trovare un riferimento per determinare la propria posizione, il proprio stato.
Zenith non appariva come la stessa persona a cui aveva sparato. Il suo viso era ben delineato, pulito e pareva i suoi piercing fossero stati ripristinati al loro posto originario. Cosa inspiegabile, considerati i pochi giorni trascorsi dalla prova delle armi. Il resto del suo essere era etereo, indefinito se non per la polvere luccicante che mano a mano precipitava sulla sua pelle e che, delineando le sue forme, la rendeva più concreta dando inoltre un'idea della quantità di tempo che stava trascorrendo in quel luogo sconosciuto.
Xenya guardò il proprio corpo notando come risultasse molto più traslucido anche per via delle cui dimensioni reali pressoché invisibili.
Fu allora che alla soldatessa venne in mente di avere già visto Zenith nel mondo violaceo, e ricordava addirittura cos'era accaduto la volta precedente: le aveva mostrato lo smeraldo dell'eclissi. Le aveva detto che la leggenda di nonno Herald era vera. Ma le domande principali che affollavano il cervello confuso della ragazza non riguardavano quell'incontro.
«Dove sono?» domandò Xenya, sbalordita e curiosa di capire dove si trovasse.
«Sei alla Connessione Mentale, almeno ho deciso di chiamarla così, a partire da quel giorno in cui ho capito di cosa si trattasse. La cosa strana è che, adesso, siamo qui entrambe. È la prima volta.» Guardò altrove, quasi per voler prendere nota dell'osservazione.
«Di cosa stai parlando?» La rossa scosse la testa, capendo sempre meno. Era reale o no? Erano morte?
«Questo è un luogo metafisico, Xenya. Qui convogliano tutte le menti che possiedono lo stesso sangue.»
«Non capisco...»
«Ovvio che non capisci, nemmeno io capivo.» L'elfa fece una giravolta sul posto, fluttuando. «Quando, negli ultimi giorni, mi sono fatta quasi affogare da mio fratello per svenire e venire qui, non trovavo altro che te che ripetevi che il Progetto X era pericoloso e che dovevi andartene. Non mi era chiaro, fino a quando non ho ipotizzato che fosse un enorme database che collega le menti uguali.
«Io ti ponevo domande base e tu rispondevi con tranquillità, immobile come un sasso. Ma se iniziavo a fare domande più specifiche su cosa ti stesse accadendo nello stesso istante in cui te lo stavo chiedendo, sembrava andassi in tilt e ripetevi devo andare via dal Progetto X, senza smettere sino a quando non rinvenivo e svenivo di nuovo per scoprire la stessa identica cosa.»
«E perché i nostri cervelli sarebbero uguali?» la interruppe Xenya, ansiosa di saperne di più su quella Connessione Mentale.
«Perché ci scorre nelle vene lo stesso sangue.»
«Ancora io...»
«...non capisci, certo.» Zenith ridacchiò divertita, completando la frase. «Ma è l'unica ipotesi sensata che mi è venuta in mente: quando mi hai sparato il proiettile di sangue, dentro il quale c'era la matrice pressoché purissima proveniente da tuo nonno, siamo state collegate a livello mentale.» Annuì appena, soddisfatta della propria spiegazione. «Quella stessa matrice base di DNA per uno strano scherzo della genetica deve scorrere anche nelle tue vene, l'avrai per forza ereditata da lui. Ma il colpo mi ha inserito nel sangue quel che basta perché diventassimo qualcosa di più di semplici sorelle, quasi la stessa persona in due corpi differenti.»
«Non ha senso!» esclamò la ragazza. Sapeva che il DNA non poteva essere condiviso né essere lo stesso in due individui differenti - Yekson sarebbe stato orgoglioso di lei.
«Sono a conoscenza che va contro ogni dimostrazione scientifica,» disse Zenith, risoluta «ma non ci sono altre possibilità. Quando le persone svengono in condizioni normali, vengono spedite in un loro personale universo creato dal loro solo subconscio; circa come quando dormono. Ma noi, che siamo state collegate dal sangue, precipitiamo in un luogo comune: questo. Il mio subconscio qui diventa anche tuo e viceversa. Ci scambiamo informazioni perché condividiamo lo stesso DNA dei globuli bianchi, per qualche motivo.»
Come poteva essere? I globuli bianchi di Xenya non potevano essere gli stessi di Zenith. Lei stessa aveva detto che i proiettili di sangue contenevano quello di Ger, e i geni del nonno paterno non potevano certo coincidere del tutto con quelli della ragazza.
E poi, anche ammesso che la soldatessa avesse ereditato la stessa, esatta sequenza di DNA dell'ex Oligarca, com'era possibile che l'intero sangue dell'elfa si fosse modificato? Le venne da sospirare, ma non riuscì a farlo.
«A tanti mutanti sono stati sparati proiettili di sangue» notò la soldatessa, cercando una spiegazione più sensate di una semplice supposizione. «Perché non sono qui?»
«Perché le loro menti non sono utilizzabili: gli altri sono morti.» L'espressione imperscrutabile di Zenith rendeva molto più complicato capire se stesse dicendo la verità o meno.
Ne seguì un momento di ragionamento: se aveva affermato che gli altri erano morti...
«Quindi tu sei viva?» chiese la soldatessa.
«Ovvio, e anche tu.»
«È una notizia fottutamente fantastica.» Xenya cercò di aprirsi in un sorriso, senza però capire se ci fosse riuscita o meno.
«Attenta al linguaggio...» l'ammonì l'altra, facendole un lento occhiolino.
«Scusa, non riesco.» Si premette sulla bocca un arto trasparente sul quale iniziava ad apparire della polvere violetta. «Mi stanno operando a qualcosa e ho paura che mi facciano fuori.»
«Pensavo non avessi paura» ridacchiò Zenith. «Pensavo fossi pronta per morire, una roba del genere.»
«Perché?»
«Vedi, venendo qui spesso ho imparato che le informazioni che mi può dare un'altra persona si aggiornano solo ogni qualvolta la persona sviene. Ma entrando quando non ci sei, posso sentire le tue emozioni in tempo reale, i tuoi pensieri solo toccandoti. In caso tu sia fuori dalla Connessione Mentale, tutto il tuo corpo è vivido. Ora che siamo entrambe svenute, siamo trasparenti o quasi, e se ti tocco non provo niente.» Sorrise, orgogliosa della propria scoperta. «In ogni caso, mi dispiace per... Francisco.»
«Francis» la corresse Xenya.
«Okay, devo ancora migliorare qualcosa.» L'altra rise, alzando le mani impastate di pulviscolo viola.
«Comunque anche a me è capitato...» La soldatessa richiamò i propri ricordi. «Ero svenuta e ti ho vista, immobile come hai detto di avermi vista tu» tentò di raccontarle cos'era accaduto.
«Uh, interessante. Sarà di sicuro da appurare non appena ci vedremo...» minimizzò l'elfa.
«Ma hai parlato di mio nonno.» Provò a ottenere più informazioni. «Se il sangue di Ger è dentro i proiettili, lo hanno clonato? E se è vivo come mi è stato detto, perché non è qui?»
Zenith la squadrò e, in poco tempo, il volto le si illuminò con un sorriso sincero.
«Quindi ancora non lo sai...»
Boom.
«Merda, merda, merda!» Un'esclamazione improvvisa fece ruotare di nuovo gli occhi a Xenya verso la parete finestrata di Palazzo della Salute, oscurata da numerose tapparelle. «Anestetico, anestetico! Fermate tutto! Anestetico!»
La soldatessa era certa di non stare più sognando, ammesso quello di prima fosse stato un semplice sogno. Aveva ricominciato a vedere e tutto appariva molto reale, non più dentro un'enorme sfera viola. Ma, anche quella volta, non ricordava pressoché nulla dell'incontro con Zenith.
Era prona sul lettino operatorio, la testa ruotata sopra la spalla sinistra e immobile. Non riusciva a ruotare i bulbi oculari per capire cosa stesse succedendo sul retro del proprio corpo, ma una cosa era certa: le stavano procurando un dolore inimmaginabile.
La fitta lancinante alla schiena la fece urlare. Ma dalla bocca sigillata non uscì alcun suono: era ancora paralizzata ma, proprio come avevano spiegato in precedenza, vigile.
Le imprecazioni da parte dell'equipe di medici si susseguirono mentre osservavano come il liquido blu nella sacca stesse scendendo in velocità.
Se stava diminuendo in quella maniera, era ovvio che il cuore della paziente stesse battendo all'impazzata per portare in circolo il maggior quantitativo di legante organico-inorganico, come piaceva chiamarlo all'inventore.
«Avevo detto che reggeva come un mulo mutato.» Lo stesso anestesista dell'inizio si precipitò nei pressi del lettino e prese con la pila a controllare ancora la reattività delle pupille. «Non pensavo anche che smaltisse così in fretta.»
«Razza di stupido, muoviti! Sta consumando il legante!» L'addetto alla sacca blu notte corse a prepararne un'altra e attaccarla all'asta metallica creando un fastidiosissimo fruscio di plastica che non smetteva di rimbombare dentro la scatola cranica della paziente.
«Falle la prolungata! Ci penseremo dopo!» tuonò la Kein, molto vicina alla fonte di dolore di Xenya, appena sulla sinistra della spina dorsale.
«La prolungata?» ripeté l'anestesista, sbalordito. «Sei sicura?» domandò.
L'anestesia prolungata avrebbe potuto farla dormire per mesi, forse anche solo giorni considerato come aveva smaltito il miscuglio che aveva in precedenza preparato. Il gas nervino contenuto nella bombola posizionata nell'angolo della sala operatoria non l'avrebbe fatta solo svenire, ma l'avrebbe indotta in uno stato di coma cerebrale.
«Non chiedermelo! Fallo e basta, sente dolore!» La voce irata della Kein suonava come un rigido comando, di certo non come una supplica. Forse, se il medico addetto agli anestetici non avesse eseguito gli ordini, la prolungata sarebbe spettata a lui.
«Non le avevi dato...» cercò di prendere tempo lui. Seppur notoriamente un idiota, il dottore era competente nella sua parte di scienza ed era evidente che quella bombola sotto pressione colorata di nero e addobbata con numerosi pittogrammi cresimi - i cui significati facevano raggelare - doveva essere utilizzata solo in casi estremi.
«Sì, le pastiglie,» sibilò la Kein, arrabbiata e in ansia «ma siamo d'accordo che qualche manciata di ormoni antidolorifici non aiutano affatto contro delle operazioni del genere? Sarebbero dovuti tornare d'aiuto dopo l'intervento, non durante.»
Nessun'altra voce osò contraddire la donna a capo del gruppo e, in breve tempo, il medico si accostò alla paziente e le appiccicò sopra le vie aeree una ventosa in silicone scuro che aderì alla perfezione alla cute del viso della ragazza.
L'anestesista ruotò con lentezza una valvola e, mentre il gas nervino fuoriusciva da un fine tubicino trasparente, pregò di non essere giustiziato per aver eseguito l'ordine. Se il soggetto fosse morto, la colpa sarebbe ricaduta su di lui.
La piccola nube cremisi si infilò svelta nei polmoni di Xenya che ormai non sapeva se fosse peggio il dolore che stava provando o l'idea di inspirare un gas che lo stesso dottore era riluttante nel fornirle.
In ogni caso, non aveva più scelta: non controllava il proprio respiro, sentiva solo l'odore più acre che avesse mai annusato diventare parte di lei, ma il dolore non diminuiva.
L'urlo mentale che non riusciva a fare fuoriuscire dalla propria gola la stava martoriando ed era piuttosto certa di essere sul punto di svenire solo a causa del male che le era stato impartito.
Tutto ciò che era in grado di fare si limitava a guardare ferma davanti a sé, senza nemmeno poter sbattere le palpebre. Vedeva la mascherina scura dilatarle le narici, la cannetta collegata alla bombola continuare a immettere piccoli grumi rossastri dentro i suoi polmoni.
I suoi occhi vedevano, ma il solo ragionare le risultava impossibile. La paralisi aveva avuto effetti anche sul cervello, isolandone le zone collegate alla memoria: se in quell'istante le avessero chiesto l'età, anche se avesse avuto la possibilità di parlare, non avrebbe potuto fornire una risposta.
E se il procedimento per la prolungata non veniva svolto a regola d'arte, danni cerebrali del genere si sarebbero perpetrati nel corso di tutta la vita della ragazza. Non avrebbe potuto parlare, non avrebbe potuto ricordare nulla.
«Bene, sessanta secondi passati. Vai con la scarica.» La Kein era dietro la testa della ragazza mentre ordinava all'anestesista di completare la procedura.
L'uomo deglutì e poggiò una punta metallica su una tempia della ragazza per poi poggiarne una seconda in mezzo agli occhi.
'Zenith', a lei rivolse la sua ultima preghiera in un istante di lucidità 'fa' in modo che ci rivedremo, prima o poi.'
«Ora.»
E in brevissimo tempo un forte flusso di corrente elettrica attraversò il cervello di Xenya, iniziando a muoverle il corpo tumultuosamente.
La cosa, però, non era prevista: stava avendo una sorta di attacco epilettico. Gli occhi le si rivoltarono ancora una volta mentre tremava addosso al lettino operatorio, scuotendo con sé anche tutti gli attrezzi chirurgici che i medici le avevano appoggiato addosso che caddero sul pavimento producendo un assordante tintinnio.
«Defibrillatore!» urlò l'anestesista in panico, buttando a terra i due diodi.
Un dottore si avvicinò, brandendo due piastre metalliche.
«È storta!» esclamò questo.
«Non possiamo girarla. Perderebbe troppo sangue e anche il legante. Mettilo al massimo e prega che funzioni dalla schiena.» La Kein fu categorica. Manteneva il controllo anche nella situazione più provante, al contrario del suoi colleghi.
Le fredde piastre le vennero posate sui lati della gabbia toracica e, con una preghiera silenziosa, vennero azionate. Una volta, due. Con intensità gradualmente maggiore.
Stavano perdendo Xenya.
«No, no, ancora!» urlò la Kein, perdendo le staffe e rovesciando con un colpo del braccio l'intero carrellino contenente gli strumenti sterili necessari per l'intervento.
Tre, quattro: la persona al defibrillatore ripeteva la stessa operazione in continuazione sperando di spingere l'organismo di Xenya a reagire al gas nervino in maniera positiva, ossia andando in coma.
Cinque, sei: le mani di ogni dottore tremavano e sudavano, più di tutte quelle appartenenti all'anestesista.
Sette, otto: il tremore stava scemando eppure la contrazione eccessiva ancora continuava.
Nove: il corpo della soldatessa si era fermato; la respirazione si stava regolarizzando, la discesa di legante era di nuovo nella media.
I dottori si guardarono l'un l'altro, ansiosi.
«Non l'abbiamo persa» affermò trionfante, seppur stanco, il medico che si era occupato della defibrillazione. «È in prolungata» disse in un sussurro.
Tutti tirarono un sospiro di sollievo: almeno avrebbero potuto completare il lavoro. Il problema ora risiedeva nel post intervento: Xenya, se si fosse mai risvegliata dal coma, si sarebbe ricordata almeno il proprio nome? Avevano forse compromesso quello che era diventato l'esperimento più importante della Terra?
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