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Era tutto troppo, troppo per una singola giornata.
La morte di Francis.
L'ascensione di David.
E ora, come se non bastasse, l'intervento di Xenya.
Per non parlare del litigio con Madeline e il tentativo amatoriale di amputazione mani.
Un'intera vita normale non sarebbe bastata per sperimentare anche una sola giornata di Xenya.
E nonostante tutto, l'empatia a livello negativo di S l'aveva costretta ad accettare quella dannata operazione, come l'aveva definita Yekson non appena la ragazza gli aveva comunicato cosa stesse per accadere.
I due soldati del Cinquantatré erano chiusi dentro la stanza del ragazzo a scambiarsi frasi di incoraggiamento reciproco: lei sarebbe stata in pericolo di vita mentre lui sarebbe stato del tutto solo; ma sapevano come tirarsi su di morale a vicenda.
«Beh, ti verrò a trovare!» disse lui, tutto speranzoso nel suo sorriso mentre si alzava dal proprio letto. «Pensa positivo: finita questa giornata, ti basterà eliminare ventiquattro ore dalla memoria per poter stare meglio. Finito oggi, i problemi più grandi saranno spariti.»
«Sì, ammesso che io mi svegli dopo l'operazione.» Sbuffò. «Ma sei sicuro fossero ventiquattro le ore? Non erano ventidue in totale?»
«X, diamine. Dovresti sapere che prima della guerra erano dodici prima di mezzogiorno e...»
«Lo so, lo so.» Ridacchiò malvagia, interrompendolo e poggiandogli una mano sulla spalla. «Volevo solo farti arrabbiare un poco.»
«Spero con tutto il cuore non ti succeda niente.» La indicò con sguardo accusatorio senza però sottrarsi dal contatto fisico. «Ma se ti tagliassero la lingua non potrei definirmi insoddisfatto.»
La soldatessa gli sorrise e, con enorme cautela, abbassò la mano dal braccio dell'amico per estrarre dalla tasca dei propri pantaloni la lettera di nonno Herald che, in precedenza, aveva prelevato dalla sua stanza. La passò a Yekson, attenta a guardarlo negli occhi fino a quando non avesse capito l'intento della ragazza.
Lui afferrò il concetto al volo: non aveva mai letto le parole scritte, ma riconobbe subito la carta ingiallita e sapeva quanto fosse importante per Xenya. Presa con delicatezza tra le mani, chiuse la lettera dentro il cassetto del proprio comodino, pronto a riconsegnarla all'amica non appena l'avesse rivista.
Conclusa l'operazione, si voltò verso la compagna e insieme suggellarono quella silenziosa promessa con un ennesimo sorriso.
«Divertiti a essere tagliuzzata!» Yekson rise.
«E tu divertiti a stare da solo!»
La soldatessa si congedò poi con una linguaccia e uscì nel corridoio del sesto piano, dove Madeline la stava aspettando per scortarla a Palazzo della Salute. La donna aveva fatto un'eccezione all'ordine di accompagnarla direttamente al luogo adibito all'operazione perché sapeva che Yekson, per la selezionata, era divenuto l'ultimo appiglio prima del baratro.
La Direttrice le fece un sorriso compassionevole: anche lei era preoccupata per l'incolumità di Xenya; ma in fondo sapeva che se S aveva dei progetti per portarla dalla sua parte, avrebbe di sicuro tentato quelli prima di ricorrere all'omicidio. La ragazza era di certo più utile come burattino vivo che come martire morto.
Respirare a pieni polmoni era la chiave per la già precaria salute mentale di Xenya: non fece null'altro per tutto il tragitto, concentrandosi più sui propri polmoni che sui lugubri pensieri che le affollavano la testa. Come si era ripromessa poco tempo prima, il proprio dolore sarebbe diventato l'arma letale contro ogni nuova avversità.
Non aveva paura di morire. Sapeva di meritarlo: tutti lo meritavano. Già per il fatto di esistere si era destinati a una fine, e cosa cambiava se questa arrivava prima o dopo una certa età? Certo, cambiavano le azioni che una persona poteva compiere. Ma erano queste sufficienti perché la morte venisse annullata? No.
Per questo bisognava cercare di fare il possibile prima che il fatidico momento sopraggiungesse. E Xenya, nel cuore, sentiva di aver fatto quanto poteva: aveva confortato i propri compagni, aveva aiutato David a trovare la propria strada - seppur sbagliata -, aveva cercato di salvare Zenith, aveva combattuto delle ingiustizie e credeva anche di essere stata l'apripista per le donne nel Consiglio di Clock.
Forse il suo dovere non era stato compiuto del tutto, ma se era destinato a compiersi o sarebbe sopravvissuta lei stessa, oppure gli ideali sarebbero vissuti in qualcun altro.
Se doveva incontrare qualcuno oltre la vita, lei era pronta. Non sentiva rimpianto nella sua anima, sapeva che chi lasciava indietro sarebbe stato in grado di proseguire la sua opera. Yekson dopotutto sognava una vita pericolosa, no? Forse ce l'avrebbe avuta.
Non avrebbe versato più una lacrima.
E mentre usciva dall'ascensore per entrare nel sedicesimo piano di Palazzo della Salute, l'unica parola che trovava per descrivere il proprio stato d'animo era, quasi per ironia, pace.
«Signorina Xenya, da quanto tempo» La Kein scherzò. Aveva i capelli legati e inseriti in una cuffia in plastica trasparente. «Prego, da questa parte.»
Indossava un lungo camice bianco e la mascherina elastica era attaccata solo a un orecchio senza ostruirle la bocca o il naso.
Appena la soldatessa entrò, fu condotta dalla dottoressa a sinistra, verso uno stanzino delle stesse dimensioni dell'ambulatorio privato all'ultimo piano. Durante questo breve tragitto, la Direttrice aveva seguito le altre due donne in silenzio.
Prima di entrare in quella che era una vera e propria anticamera della sala operatoria, la soldatessa si voltò per rivolgere un ultimo sguardo a Madeline e si scambiarono un sorriso, sincero e senza forzature. Entrambe erano pronte per ciò che sarebbe accaduto.
La porta si chiuse e dentro lo stanzino rimasero solo la Kein, Xenya e i ricordi di quest'ultima.
Su una delle quattro pareti scarne, apparivano due appendiabiti, su uno dei quali era appesa una gruccia che a sua volta sorreggeva una tunica bianca.
«Le darò una mano a cambiarsi e indossare la veste per l'operazione.»
E così avvenne: gli abiti neri dell'uniforme - con tanta difficoltà indossati per via delle fasciature - vennero appesi sull'appendiabiti vuoto mentre il camicione le venne messo addosso dal medico. Sotto quel sottile tessuto che se spiegazzato dava l'idea di un foglio di carta, Xenya era messa a nudo di tutto ciò che la proteggeva, a partire dagli abiti sino alla tenacia.
Sentiva di non avere più niente.
La dottoressa allacciò la mascherina dietro l'altro orecchio e indossò dei guanti in lattice sterili presenti sopra a un minuscolo tavolino.
E in poco tempo, una seconda porta presente sul lato opposto del piccolo locale venne aperta, rivelando un enorme salone pieno di altre persone sconosciute che indossavano le stesse protezioni della Kein, fatta eccezione per degli strani bracciali metallici fissati ai polsi, utilizzati per evitare un qualsiasi tremito delle mani nel momento meno opportuno.
Tutti i presenti chinarono appena il capo in segno di saluto mentre la paziente, a piedi scalzi, andava prima a sedersi e poi a stendersi sul letto operatorio indicatole dalla dottoressa.
«Anestetici, subito» ordinò fredda questa. «Quantità quasi massima per donna, soggetto atletico.»
Parlava come se Xenya non fosse lì. E forse davvero non era presente.
Forse stava già sognando, forse era già pronta per la morte.
Forse no.
Un medico - il cui genere non era identificabile, agghindato com'era - si avvicinò alla ragazza posizionando il proprio volto davanti a quello di lei.
Guardò per un secondo il braccio sinistro della giovane per assicurarsi di avere trovato la vena e, fissando poi lo sguardo sugli occhi verdi di Xenya, le conficcò nell'arto una siringa di dimensioni notevoli, piena di liquido trasparente.
Premette lo stantuffo in un unico colpo, inondando il sangue della soldatessa di un miscuglio di droghe e anticoagulanti ancora da brevettare del tutto.
Lei non fece una piega: lo sguardo sadico dell'uomo sembrava pregare Xenya di urlare dal dolore, ma lei era decisa a non dargli quella misera soddisfazione, nonostante l'iniezione le avesse procurato del dolore.
Sul braccio destro, nel frattempo, un secondo dottore armeggiava con tubi e aghi. In breve inserì una farfalla in plastica nel braccio scoperto della paziente e, di conseguenza, una sacca piena di liquido blu intenso incominciò a riversarsi nel sangue rosso della ragazza.
Nemmeno il contenuto della busta trasparente era mai stato testato su degli umani - erano lapalissiane le motivazioni -, ma il medico era fiducioso: dalle analisi che aveva svolto sul campione di sangue della soldatessa, le possibilità che reagisse male erano davvero basse - sempre per ovvi motivi.
Xenya, però, non poteva concentrarsi sul dettaglio della sacca blu perché il primo specialista le era ancora fermo davanti mentre controllava ogni singolo movimento dei suoi occhi per capire quando lo svenimento totale sarebbe avvenuto.
Dopo poco infatti estrasse una torcia LED dal grembiule bianco e iniziò a controllarle la reattività delle pupille.
«Colleghi, questa regge come un mulo mutante» soffiò fuori dalla propria mascherina, mentre le lampeggiava la luce davanti l'occhio destro.
«Vedremo dopo» affermò una voce fuori campo. «Spero di non dover far tutto per niente.»
«Idioti, vi sente se non è ancora svenuta.» La persona che stava regolando il dosaggio di liquido bluastro immesso rise.
«Sì, ma non può rispondere. La paralisi è avvenuta, ma è vigile» ribatté l'anestesista.
«Prega che svenga tra poco, allora. Abbiamo una tabella di marcia da rispettare» tuonò la Kein da un altro lato del salone.
«Sissignora!» L'essere malvagio rise, continuando a martoriarle le retine con quella stupida torcia.
Le voci, per Xenya, erano sempre più ovattate man mano che il tempo passava, sia per via delle mascherine, che per gli anestetici che le avevano iniettato.
Un nuovo dottore si avvicinò al letto della soldatessa con un carrellino metallico una cui ruota cigolava in maniera fastidiosa. Ma la cosa che più avrebbe fatto rabbrividire la soldatessa - se in quell'istante fosse stata in grado di formulare un pensiero critico - erano gli attrezzi metallici che vi erano appoggiati sopra.
«Allora?» L'addetto al carrello sbuffò. «Ci siamo? Vorrei iniziare.»
«L'arte degli anestetici richiede tempo» rispose tranquillo il primo medico, nonostante iniziasse ad accendere e spegnere nervosamente la sua pila portatile davanti alle pupille della selezionata.
«Ma per favore, che hai preso le prime schifezze che hai trovato a un mercato Intersettore e le hai messe dentro la siringa...» sbuffò la Kein, riavvicinatasi alla zona del lettino.
«Non osare...» L'anestesista si alzò impettito, donando alla fine della momentanea tranquillità agli occhi della ragazza.
«Facciamo così...» La dottoressa sospirò esasperata. «Andate tutti a prendere le parti che ci servono e portatele qui. Sapete che sono ingombranti: risparmieremo tempo dopo. Io continuo a controllare che svenga.»
Il silenzio proveniente dall'equipe valse come assenso perché un fruscio di plastica indicò la sparizione degli sconosciuti dalla stanza.
La Kein si avvicinò al viso di Xenya, senza però cominciare a verificarne i riflessi, per fortuna.
«Mi dispiace» sussurrò il medico da dietro la mascherina, uno sguardo triste negli occhi nascosti da occhiali trasparenti. «Non avevo alternative. Lo sai. Mi dispiace.»
Quei sussurri furono l'ultima cosa che udì.
Gli occhi le si ribaltarono all'indietro senza che potesse controllarli e non vide più nulla.
Ma il suo tatto persistette ancora imperterrito per un tempo necessario perché potesse sentire delle braccia che l'alzavano di peso e la mettevano prona sul letto operatorio.
Era abbastanza sicura che le ovaie non si trovassero proprio sul retro del corpo di una donna. Ma non ne era certa.
'Se fossi stata attenta durante le lezioni al Cinquantatré, lo sapresti!' si sentiva già dire da Yekson.
'Se non fossi stata tanto stupida da credere alle loro stupidaggini, non sarei qui', era pronta a ribattere lei.
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