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Quando Xenya si svegliò, il mattino era giunto e lo schermo stava emettendo rumori da un po'. La giovane si alzò, cercando subito dopo di indossare la tenuta da allenamento e di farsi una coda ai capelli il più in fretta possibile: sentiva di essere in ritardo dentro alle ossa, eppure i suoi movimenti non accennavano a velocizzarsi. La ragazza era infatti più stanca di quanto lo fosse quando si era coricata a letto la notte precedente, dopo l'incursione di Francis.
Fece per uscire dalla propria camera quando si accorse di un ticchettio che andava in crescendo: si voltò verso la parete finestrata e notò come stesse piovendo in modo piuttosto insistente. Un sorriso le crebbe sulle labbra: aveva sempre adorato la pioggia, e non solo perché significava turni più brevi nel Settore Cinquantatré, ma soprattutto perché si trattava di un così rilassante regalo della Terra, le lacrime del mondo sconvolto dalla guerra, come le sussurrava sempre il padre quando Xenya era ancora davvero giovanissima.
Sorrise al ricordo e si diresse all'ultimo piano con rinnovato vigore: non avrebbe permesso alla nottata precedente di rovinarle le prestazioni dell'allenamento.
Quando giunse alla sua meta, però, rimase spiazzata nel notare come accanto a Madeline fossero seduti anche tutti i vari personal trainer. Attraversò comunque la sala e andò a sedersi tra Yekson e David, sforzandosi il più possibile per non far ricadere il proprio sguardo su Francis che, con i propri occhi ambrati, stava seguendo ogni suo movimento da quand'era entrata nella sala da cena.
«Buongiorno» sussurrò Xenya ai suoi compagni per non farsi sentire troppo, dato il silenzio che quella mattina aleggiava nella grande stanza.
I ragazzi ricambiarono quasi in contemporanea il saluto, il biondo a bocca piena.
«Cosa sta succedendo?» chiese sempre a bassa voce la ragazza.
«Ah, niente.» Yekson sminuì la faccenda alzando le spalle. «Abbiamo preso una buona ramanzina per esserci fermati fino a davvero molto tardi qui. E come punizione questa mattina la passeremo a correre sotto la pioggia senza fare gli esercizi prefissati. Se tutto va bene, entreremo in palestra nel pomeriggio.»
«Uhm, una cosina piacevole» scherzò Xenya.
«Sì, se non consideriamo il fatto che è pieno di fango per miglia qui attorno» notò David.
«Paura che il marrone non si abbini con i tuoi occhi?» domandò spiritoso l'altro ragazzo.
Il biondo gli fece la linguaccia e riprese a mangiare. Xenya ingurgitò poco curante le sue vitamine e i suoi ormoni con un sorso d'acqua per poi tenere gli occhi fissi sul pasto ed evitare in tutte le maniere di sollevare lo sguardo verso il tavolo del Settore Ventidue dove Francis stava masticando con lentezza un biscotto.
'Sono Xenya Cass Thompson, e sono destinata a qualcosa. E questo qualcosa non è certo struggersi per un ragazzo.'
Continuò a pensare al proprio mantra, anche dentro l'ascensore dove quel mattino si stava parecchio stretti tra soldati, preparatori atletici e addirittura alcune guardie recuperate al primo piano che avrebbero controllato il perimetro. A detta di Madeline era per impedire ai mutanti di raggiungerli, tuttavia era chiaro che la precauzione fosse stata presa per non farli scappare, nonostante si trattasse comunque di un'impresa quasi impossibile. La soldatessa, non poteva negarlo, aveva già provato a escogitare un piano di fuga, tuttavia i tre altissimi edifici non solo erano sorvegliati giorno e notte da soldati fedeli all'Ordine, ma erano circondati da una landa desolata e circolare senza possibilità di nascondigli per diversi chilometri. Se fosse fuggita, escludendo ogni altro intralcio come la lettura del tatuaggio, l'avrebbero di sicuro vista e agguantata.
«Forza ragazzi:» incitò un allenatore sconosciuto a Xenya e parecchio irritato «scannerizzate il vostro codice e preparatevi: all'esterno è freddo e per scaldarvi l'unica opzione è correre a perdifiato.»
Era piuttosto evidente che nemmeno i personal trainer erano desiderosi di uscire a correre sotto l'acqua, com'era altrettanto ben chiaro che Madeline sarebbe rimasta all'interno di Palazzo della Salute per attenderli e quindi, all'apparenza, si trattava una direttiva giunta dai piani più alti: al Signor S non andava che i suoi sottomessi si prendessero certe libertà.
Il gruppo di giovani si sfoltì man mano che i soldati uscivano assieme ai preparatori atletici e già cominciavano a correre sparendo dalla vista che Xenya godeva sull'esterno grazie alla porta a vetri.
Bill le si affiancò e, a un certo punto, le posò il palmo sulla spalla sinistra: a quel contatto la ragazza sobbalzò.
«Dormito male?» chiese il suo allenatore.
«Diciamo di sì» tagliò corto la ragazza, concludendo la conversazione. Una parte del suo animo voleva chiedergli come avesse potuto intuirlo, ma quella che voleva solo concentrarsi sull'allenamento per non rievocare ricordi compromettenti ebbe la meglio.
Mancava poca altra gente prima che fosse il suo turno e a ogni apertura delle porte, la folata d'aria che entrava nell'atrio triangolare si faceva sempre più fredda e umida togliendo a Xenya ogni buon proposito di impegnarsi.
«Correrò assieme agli altri?» domandò poi lei, guardando negli occhi l'uomo sperando di potersi risparmiare qualche giro sotto l'acqua.
«Temo di sì, non hanno parlato di eccezioni per te: dopotutto è una punizione per tutti.»
«Chiaro.» La soldatessa sospirò prima di farsi aprire la porta a vetri dal lettore di tatuaggi.
E in un istante si ritrovò sotto la pioggia scrosciante. Guardò verso l'alto e le gocce erano così grandi da poterle distinguere e vederle scendere veloci prima di impattare sull'asfalto attorno a sé oppure addosso a lei. Prima che Bill uscisse da Palazzo della Pace, lei era già fradicia per metà.
«Andiamo, dai» la incitò lui con una pacca sulla spalla prima di iniziare a correre seguito dalla soldatessa che più per la stanchezza correva piano per ammirare il paesaggio: sotto le insistenti gocce ogni luogo risultava più bello e affascinante per lei.
La sua attenzione era rivolta verso il colorato orizzonte formato dai variopinti alberi che separavano le sedi di governo dal vero e proprio agglomerato abitativo del Settore Uno. Con il passare del tempo, però, giunse la nebbia a oscurarne la vista, costringendo Xenya a fare i conti con i pensieri che aveva costretto in un angolo reietto della sua mente; sempre però correndo in silenzio accanto a Bill.
Corsero per diversi minuti, imbrattandosi le scarpe con il fango che circondava gli edifici e pulendosele solo quando le suole grattavano sull'asfalto della strada di collegamento che, a forza di essere calpestato, divenne in breve parte integrante del terreno fangoso stesso.
«Dai, Xenya!» Era un urlo ricorrente e ripetitivo che Bill lanciava alla ragazza per spronarla, nonostante avessero superato diversi gruppi che erano partiti prima di loro.
La soldatessa, che comunque teneva a non fare una brutta figura con l'uomo che a quanto pareva sapeva molto sul passato dei suoi genitori, accelerava sino a perdere il respiro ogni qualvolta l'urlo di lui raggiungeva le sue orecchie.
«Bill, la scarpa!» urlò Xenya per sovrastare il rumore dei tuoni che cominciavano ad avvicinarsi sempre più. Fece un cenno al suo piede, indicando i lacci neri slegati che si stavano riempiendo di fango strisciando sul terreno.
«Bene, legatele. Io vado avanti e mi aspetto di riaverti al mio fianco a breve» accordò l'allenatore, dandole il permesso di fermarsi.
Lei rallentò in modo graduale sino a potersi inginocchiare per legarsi la scarpa sinistra con conseguente infangamento delle dita delle mani. Un gruppo sostanzioso di soldati le sfrecciò di fianco mentre si alzava in piedi e con fatica ricominciava a correre.
Raggiunse di nuovo il gruppo che l'aveva superata, pensando con tristezza a quanto Bill fosse andato avanti solo per metterla alla prova e, distratta, non si accorse della gamba sporgente di un ragazzo. Xenya ci inciampò maldestra sopra e rotolò alquanto sgraziata nel fango.
Con un gemito cadde strisciando nella melma mentre il gruppo di soldati la accerchiava famelico. Doveva aver fatto proprio una bruttissima figura.
«Hai finito di vantarti, adesso?» chiese un ragazzo. La sua espressione disgustata era accentuata dai capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte, bagnati.
«Vantarmi? Di cosa stai...?» cercò di difendersi Xenya, non capendo, mentre puntava i gomiti nel terreno bagnato per rialzarsi.
«Zitta!» le urlò un altro, interrompendola e tirando un calcio al terreno bagnato accanto a lei che finì con lo spruzzarle fango in faccia.
La ragazza tossì, sputando la terra che le era entrata in bocca, disgustata da quello che le era appena successo.
«Penso stiate facendo un errore...» sussurrò, assumendo un tono intimidatorio pur guardando a terra.
«Nessun errore» affermò il primo ragazzo, colui che le aveva fatto lo sgambetto e che secondo Xenya doveva essere il capobranco. «Sappiamo bene che sei raccomandata e che sei qui per dei motivi specifici.»
«Sarebbe piuttosto interessante saperle, queste motivazioni» sibilò la ragazza alzando gli occhi verso il soldato per la prima volta: non ricordava di averlo mai visto prima.
«Stai zitta, ho detto!» sbraitò ancora il secondo, irato per qualcosa che Xenya non sapeva di aver fatto. «Vediamo che fai allenamenti diversi, che sei seguita da persone diverse e che...»
«Come stavo dicendo...» Il capo della ciurma si schiarì la voce, cercando di superare i tuoni e soprattutto di fermare il suo compagno che forse stava divagando troppo. «Sei una schifosissima raccomandata e non permetteremo che tu, che sei solo una ragazza, ci rubi il posto al fianco del Capo del Consiglio.»
«Non hai idea di cosa stai parlando...» Xenya ridacchiò dolorante, la bocca piena di fango.
«E invece sì» tagliò corto il giovane, acquattandosi per essere più vicino al viso della soldatessa. «Non te lo permetteremo» ripeté.
«Sei una ragazza, l'unica per l'altro. E ci dev'essere un motivo!» interruppe il secondo ragazzo. «Non sei un vero soldato: combatti come una vera ragazzina.»
«E questo dovrebbe essere un insulto?» chiese Xenya. «Mi pare ovvio che combatta come una ragazza. Sono una ragazza, nel caso non fosse chiaro.»
«Zitto.» Il capo del gruppo di soldati ammonì il suo compagno che aveva fatto abbassare il livello della conversazione. «Sei più debole di noi, più sensibile, più fragile. Non ha senso che tu sia arrivata a questo livello, se non per il fatto che sei stata raccomandata. Sei la vergogna di questo intero gruppo: stanno lavorando più su di te che su di noi per tentare di portarti al nostro livello. Cosa che, purtroppo, non accadrà mai.» Finse un'espressione dispiaciuta mentre i suoi scagnozzi ridacchiavano.
Ma non c'era nulla su cui ridere.
«Quindi è questo il problema...» ragionò ad alta voce la vittima, alzandosi con le braccia sino a essere alla stessa altezza del ragazzo. «Il fatto che io sia più brava di voi, pur essendo una ragazza.» Strinse gli occhi, le ciglia sporche. «Siete invidiosi.»
«No, Xenya» sussurrò l'interlocutore. «Teniamo alla nostra posizione qui.»
La ragazza rise forte, così tanto da cadere di nuovo in mezzo al fango. Una volta ripresasi, si mise a sedere sotto lo sguardo perplesso dei suoi aggressori.
«Sapete chi è schifosissimo? Voi.» Ridacchiò. «Siete invidiosi di una che è solo una ragazza, e vi sto citando, perché la suddetta è più in gamba di voi. E siete ridicoli al punto di doverla aggredire in... Quanti siete? Sette persone?» Rise ancora.
La mascella del capo si contrasse facendo sentir meglio Xenya: era riuscita a far centro nell'orgoglio del gruppetto.
«Stai zitta, la tua incapacità è dimostrata dal fatto che sei l'unica donna soldato e per questo non meriti rispetto, né tu né tutte le altre...» Il giovane iniziò il suo discorso, prima di prendersi uno sputo in pieno viso da parte di Xenya. Il ragazzo assunse un'aria tra il meravigliato, lo schifato e il furioso mentre la saliva sporca di fango della soldatessa scivolava lenta dalla palpebra sinistra del viso di lui sino ad allungarsi sulla sua guancia.
«Scusa...» La ragazza assunse un'espressione di finto dispiacere, la voce tagliente come una lama. «Ti ho confuso con il terreno: sai, di solito sputo solo sulle cose su cui cammino.»
Seguì un momento di silenzio che assunse un significato diverso per ognuno: per Xenya era di accettazione riguardo alla sua ottima presa di posizione che però sarebbe stata forse l'ultima cosa che avrebbe detto quel giorno prima di finire quasi uccisa di botte, sino a quando qualche altro gruppo di corridori accorresse a salvarla, sempre che anch'essi non si aggiungessero a picchiarla.
Per l'interlocutore principale della ragazza era invece di meditazione: con quale battuta avrebbe potuto riscattarsi dopo una simile figuraccia? E invece, con l'occhio sporco chiuso, decise di adottare una tattica differente: fece un cenno con la testa agli altri sei del gruppo prima di alzarsi e permettere all'imbarazzante silenzio di concludersi a suon di colpi di calci nel terreno per sporcare Xenya. Il giovane si passò il dorso della mano sul viso per togliersi la saliva di dosso mentre lasciava i suoi amici compiere il lavoro sporco.
Lei non tenne il conto di quanti calci fangosi le impattassero contro, né di dove le arrivassero: decise di non opporre resistenza in quanto in quel caso la pena sarebbe stata solo più pesante. Si costrinse, seppur invano, di non lamentarsi, ma quando le arrivò un pugno in pieno viso, si lasciò sfuggire un lamento. L'impatto arrivò non visto tra la terra che le giungeva addosso, così forte da riempirle la bocca di sangue il cui gusto metallico, in abbinata a quello del fango, non era dei migliori.
Era l'ultimo segno di aperta violenza prima che una cascata di sputi le si riversasse addosso.
«Andiamo ora, sono già in palestra» affermò un ragazzo che ancora Xenya non aveva sentito parlare.
La ragazza rotolò per mettersi a pancia in su prima di lasciarsi sfuggire altre parole.
«Siete voi che non meritate alcun rispetto, dopo quel che avete detto» urlò più forte che poté, tanto da farsi sentire. Nessuno di loro però si girò nella sua direzione.
Xenya sputò un po' di sangue nel terreno e si guardò intorno. Nessuno sarebbe arrivato ad aiutarla: era accanto al lato posteriore di Palazzo della Pace, ed esso era di certo vuoto. Non c'erano testimoni. Iniziò a piangere, cercando di lavarsi di dosso, anche se solo nella sua testa, un po' di quel senso di impotenza che le impregnava il corpo.
Anche se avesse provato a difendersi, non sarebbe riuscita a sopraffare tutti quei ragazzi. Punta sull'agilità, le aveva detto Bill.
«Fanculo!» urlò la ragazza, prima di scoppiare in un pianto isterico che non le era mai uscito tale.
Non era proprio diretto al suo allenatore, né ai suoi assalitori, né a Madeline o Francis e nemmeno a S. Era per se stessa, per la società e per qualsiasi cosa fosse andata storta e che finì per causarle un'esistenza tale.
Forse gli assalitori avevano ragione: era l'unica ragazza e non l'era mai passato per la mente che potesse subire un tale affronto. Forse avrebbe dovuto ritirarsi.
Eppure non l'avrebbe fatto, per nulla al mondo. Anche se fosse solo servito a dimostrare che lei valeva almeno cento volte più di loro.
Non era colpa sua se era stata aggredita: stava solo correndo, stava vivendo. Una persona è da punire se vive la sua vita com'è? La colpa era di sicuro di quei vigliacchi che erano arrivati in sette per accusarla di qualcosa di cui lei nemmeno era a conoscenza. Ma la colpa principale ricadeva sulla mentalità dell'umanità: anche in passato le donne erano discriminate a quel punto? Cosa avevano loro in meno? Loro erano sorelle, nonne, zie, madri di persone. E di certo anche gli assalitori di Xenya erano nati da una donna; perché non rispettare anche lei, che aveva solo fatto una scelta - più o meno personale - diversa dalle loro? Non era stato scritto in maniera esplicita da nessuna parte che il dovere di una donna si fermasse al partorire e alloro sfamare coloro che venivano partoriti.
Come aveva potuto pensare, giusto la sera prima, che quei ragazzi potessero essere una famiglia per lei? Furiosa, strinse la mascella, rendendosi conto che non le procurava dolore tanto quanto pensava; oppure era solo l'adrenalina del momento a pensare.
Una volta consumata la rabbia, la soldatessa si alzò in piedi e si diresse verso Palazzo della Salute, zoppicando in modo vistoso a causa della rovinosa caduta. Pulito come poteva il suo codice con le dita sporche, fece in modo che il lettore riuscisse a scannerizzarlo anche sotto lo spesso strato di sporco e si specchiò sulle porte a vetro prima che si aprissero: aveva un aspetto orrendo come mai.
I capelli una volta rossi erano arruffati e castani per il fango e il poco sangue cremisi ne sporcava solo una ciocca che le era finita in bocca. Il completo non era più definibile nero quanto più di un marrone argilloso e lo stesso si poteva dire degli stivali. Addirittura non era più possibile definire dove finissero gli abiti e dove iniziasse la pelle, tanto era tutto ricoperto da terra bagnata.
«Xenya!» esclamò Bill, correndole incontro preoccupato mentre lei faceva il suo ingresso nell'atrio dell'edificio. Alcune guardie stavano discutendo con lui e Madeline. La donna le congedò e si concentrò sulla selezionata.
«Grazie al cielo...» sospirò quest'ultima, muovendosi veloce sui tacchi per raggiungerla. «Pensavamo...»
«Che fossi scappata?» La soldatessa ridacchiò, barcollando verso i due. «No, diciamo che avrei fatto fatica.»
«Ma io ti stavo aspettando per finire la corsa e tu...» cercò di iniziare l'allenatore. Era in chiara ansia. Cosa sarebbe successo se lei fosse morta o, ancora peggio, scappata? Cosa gli avrebbero fatto?
«Diciamo che ero troppo occupata a essere insultata.» Sorrise amara.
Madeline si portò una mano alla bocca, gli occhi lucidi.
«Chi?» chiese Bill, ora nel viso una cattiva risolutezza che la ragazza non gli aveva mai visto addosso.
«Non lo so» mentì in parte Xenya. Era sicura di avere già visto il volto del capo branco da qualche parte, ma non era in grado di ricordare. Se faceva parte del Progetto X, lo avrebbe di sicuro ritrovato. Eppure qualcosa le stava insinuando nella mente l'idea che il giovane non fosse interno; ma allora come avevano fatto lui e gli altri sconosciuti a inserirsi nel percorso della corsa?
«Ma come?!» esclamò la Foxn, allarmata.
«Ricoprendomi di fango e parole poco gentili, sai. Ah, alla fine mi hanno anche sputato addosso e coronato il tutto con un bel pugno.»
«Intendeva come fai a non sapere chi fossero...» specificò Bill.
«So bene cosa intendeva, cercavo di fare dello spirito.» La giovane sorrise, facendosi ricambiare in fretta.
Cercò poi di analizzare i suoi aggressori: erano a conoscenza di diversi dettagli riguardo al Progetto... Fuori c'erano solo i selezionati e le guardie.
Le guardie.
Il viso fangoso della soldatessa si illuminò all'improvviso di chiarezza: ecco chi era colui a cui aveva sputato in faccia. Era il Capitano Brook del Primo Settore, quello che aveva umiliato insieme a Madeline la sera prima.
«Ehi, Clock chiama Xenya.» Bill le sventolò davanti la mano. «Che ti prende?»
I soldati di guardia nel frattempo uscirono dall'edificio, forse per andare a informare il Signor S che il suo topo da laboratorio era ancora vivo, malridotto ma vivo. Quindi la ragazza attinse la forza necessaria per denunciare ad alta voce il suo aggressore.
«Direttrice, ricorda il Capitano Brook di ieri sera?» domandò, il gusto amaro della terra che le impregnava la bocca; la donna intanto annuì. «È stato lui e altri soldati sconosciuti.»
La Foxn impallidì, portandosi di nuovo la mano alle labbra mentre Bill assumeva uno sguardo assente.
«Ne sei sicura?» sussurrò Madeline, avvicinandosi. «È una grave accusa quella che hai appena fornito. E in ogni caso è la tua parola contro quella di un Capitano, Xenya, capisci?» uno sguardo eloquente le fece subito capire che non aveva possibilità di riscattarsi dall'umiliazione ricevuta.
«E poi a chi vorresti farlo notare? Al Consigliere Capo?» L'allenatore fece un appunto corretto.
'A colui che potrebbe anche averli potuti assoldare?' avrebbe voluto aggiungere la selezionata, ma si limitò ad abbassare lo sguardo.
«Che motivo avrebbe poi avuto di aggredirti?» chiese Madeline, seria.
«Non lo so nemmeno io, l'unica ipotesi che ho è la vendetta per averlo fatto sfigurare. Ma addirittura chiamare altre sei persone?» Sospirò esausta. «Affermavano fossi raccomandata e mille altre cattiverie» cercò di tagliare corto. Non aveva intenzione di aggiungere anche la voce spia alla lista di cattiverie che le persone potevano urlarle addosso.
«Ma...»
«Avrei bisogno di andare in infermeria. Non posso saltare l'allenamento» li interruppe Xenya.
«Certo, ti accompagno io.» Bill annuì, facendo un cenno rassicurante a Madeline mentre si avviava di gran carriera verso l'ascensore, dimenticandosi che la sua allieva zoppicasse.
«Perché Francis non era con te?» sibilò la Direttrice all'orecchio della giovane.
«Vai a chiederlo a lui» sbottò la soldatessa, senza un minimo autocontrollo prima di mettersi quasi a correre per raggiungere il suo allenatore pur di allontanarsi dall'imbarazzante conversazione.
Mancava solo che tirasse in ballo Francis: tra tutti i problemi di quella disgustosa giornata mancava solo lui. Sbuffò dolorante appena entrata nell'ascensore e, voltatasi, guardò la buffa striscia di fango che si era lasciata dietro.
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«Nulla di troppo grave, signorina. Ma dev'essere stata una caduta piuttosto rovinosa considerati gli ematomi.» La dottoressa Kein fece una smorfia, esaminando con cura il corpo pulito della ragazza dopo una doccia, ora in intimo e con la gamba sinistra quasi del tutto ricoperta di creme contro gli ematomi; per non parlare della guancia in cui troneggiava un cerotto antidolorifico e una borsa del ghiaccio che Bill le stava premendo con forza contro.
«Già...» Bill ridacchiò prendendo in mano la situazione. «Le avevo detto di allacciarsi la scarpa ma non mi ha voluto ascoltare.»
«Proprio così» confermò Xenya, annuendo. «Sono una ragazza piuttosto testarda.»
«E sbadata» aggiunse l'allenatore.
«E sbadata, già. Avrei dovuto allacciarle prima di partire» alzò le spalle noncurante lei, reggendo il gioco. In ascensore avevano deciso di non divulgare l'accaduto: non sarebbe stato prudente né fruttuoso per nessuno.
«D'accordo» affermò il medico, una volta conclusa la fasciatura della coscia che, lavato via il fango, aveva assunto un colorito bluastro. «Con questo dovrebbe passarle.» E le allungò una compressa sferica e blu che non convinceva affatto la soldatessa.
Bill la guardò storto e lei prese tra le dita la sfera con un sorriso.
«Ancora pillole?» si lasciò sfuggire la ragazza, diventata all'improvviso intollerante a ogni cosa che in condizioni normali le avrebbe solo provocato una lieve irritazione.
«È un antidolorifico» affermò tranquilla la dottoressa. «Se lo prende le passerà tutto il dolore, altrimenti se lo tiene.»
«Okay, okay» sbuffò la giovane, mandando poi giù la compressa ancora prima che la Kein potesse allungarle un bicchiere d'acqua.
«Non puoi comunque venire giù in queste condizioni.» Bill fece un cenno con il mento alla soldatessa. «Aspetta qui, torno subito.»
L'allenatore si dileguò senza attendere risposta, e per qualche minuto Xenya e la dottoressa si ritrovarono da sole nella stanza.
«Meglio tu non lo dica in giro» sussurrò la Kein, sistemando i suoi strumenti di primo soccorso dentro una scatola rigida.
«Scusi?» Xenya fu spaesata sia dal cambio di tono, sia dalla fredda serietà che era stata assunta dalla sua interlocutrice.
«Che ti hanno picchiata.» Ne seguì un momento imbarazzante in cui il medico e la soldatessa si guardarono negli occhi. «È evidente, non sono stupida. E poi ci sono passata pure io appena arrivata qui: sembra che il Primo sia più maschilista del resto di Clock.»
«L'hanno picchiata?»
«Oh, no!» La donna ridacchiò. «Ma i commenti cattivi, gli sguardi invidiosi. Nel mio ambiente non si ha a che fare con la violenza, e in ogni caso anche solo comunicare il sarcasmo cinico di alcuni colleghi è pericoloso perché con ogni probabilità loro lavorano da più tempo di te, e il potere ha sempre un peso.»
«Mi dispiace.»
«Non dispiacerti...» La dottoressa sorrise, ricominciando a sistemare le cose. «È solo la paura del diverso che fa che questo effetto: quando capiranno che sei come loro e che vali quanto loro, finirà. Per me è finita: finirà per te, forse anche prima di quanto pensi.»
«Mi dispiace piuttosto per la mentalità che pare abbiano quasi tutti.»
«Non puoi costringere nessuno a cambiare abitudini, figurati le ideologie sbagliate. Si può solo dare l'esempio e dimostrare la verità.»
«Eccomi!» Bill irruppe dentro la stanza, tenendo tra le braccia degli abiti del tutto diversi da quelli che Xenya indossava prima.
La conversazione con la Kein si bloccò in quell'istante, eppure la soldatessa era contenta di averla avuta: stava meglio, e non solo in termini fisici. L'allenatore posò di fianco alla giovane una canottiera, un paio di pantaloncini e delle scarpe bianche: erano di certo gli indumenti di riserva di Bill.
«Ma...»
«Ma niente.» Sbuffò lui. «Sono le uniche cose che puoi indossare. A meno che tu non voglia andare a Palazzo della Pace in intimo a recuperare un cambio.»
«D'accordo, d'accordo.»
La dottoressa si congedò con un sorriso e Xenya indossò i vestiti che, pur essendo larghi, non erano l'ideale: l'intimo nero spiccava con una certa insistenza da sotto il candido tessuto.
«Meglio di niente...» Bill alzò le spalle. «Andiamo, tra poco inizierà la conferenza pomeridiana.»
«Conferenza?» ripeté. «Che conferenza?»
«Sulle armi. Si parlerà di come scegliere l'arma giusta e ognuno di voi riceverà la propria. Avrete inoltre la possibilità di allenarvi con essa per prendere confidenza.»
Uscirono poi dall'infermeria ed entrarono nell'ascensore per raggiungere la palestra dove si sarebbe svolto l'incontro: la soldatessa notò come non sentiva più dolore, la pasticca misteriosa aveva funzionato e ne era sorpresa.
«Chi decide la nostra arma?» chiese lei poi, una volta che la porta si chiuse e l'ascensore iniziò a scendere.
«Noi allenatori in base alla vostra scheda tecnica e a come vi siete comportati.»
«Ma se ci avete visti solo ieri...» notò dubbiosa Xenya.
«Sì, ma siamo piuttosto bravi nel nostro lavoro» affermò quasi offeso Bill.
«Ed efficienti, direi.»
«E deficienti, sì.»
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