V
Disclaimer: assunzione di sostanze stupefacenti
I thought that I've been hurt before
But no one's ever left me quite this sore
Your words cut deeper than a knife
Now I need someone to breathe me back to life
Got a feeling that I'm going under
But I know that I'll make it out alive
If I quit calling you my lover
Move on
You watch me bleed until I can't breathe
I'm shaking, falling onto my knees
And now that I'm without your kisses
I'll be needing stitches
Tripping over myself
Aching, begging you to come help
And now that I'm without your kisses
I'll be needing stitches
«Buongiorno...»
George aprì di scatto le palpebre, voltando la testa verso destra. Si trovava nel letto, e guardandosi velocemente intorno riconobbe le pareti della sua stanza nell'appartamento a Diagon Alley. Cercò di riprendere contatto con la realtà. I contorni, infatti, gli apparivano ancora offuscati e incerti.
«Ehi, ti senti bene?»
Girò la testa verso la direzione opposta, incrociando uno sguardo che non conosceva. Si alzò velocemente, appoggiandosi allo schienale del letto e assumendo uno sguardo interrogativo. «E tu chi diavolo sei?» chiese con la voce impastata.
La ragazza stesa accanto a lui, con lunghi capelli castani e due grandi occhi azzurri, lo guardò con un'espressione arrabbiata. «Stai scherzando, vero?»
Lui scosse la testa energicamente. La donna che si trovava nuda nel suo letto era una completa e assoluta sconosciuta. «No, mi dispiace...» disse affranto.
«Non ci posso credere! Lo sapevo tanto, me lo dovevo immaginare! Dovevo chiedermi "Grace, come mai un così bel ragazzo, tenebroso e affascinante, ti ha avvicinato e ti ha offerto da bere?" Tanto siete tutti uguali! Volete solo una cosa, e quando la ottenete fate anche finta di non conoscerci, nella speranza di levarci di torno! Sai che ti dico? Ti accontento subito, maleducato!» esplose la ragazza, per poi tirargli uno schiaffo in pieno volto. George portò la mano alla guancia colpita, mentre sgranava gli occhi incredulo.
Chi diamine era quella ragazza? Che ci faceva nel suo letto? Avevano fatto sesso?
«Mi sono fatta abbindolare da te! Mi hai raccontato tante belle cose solo per portarmi a letto! Beh, sappi che non è stato nemmeno molto soddisfacente! Forse dovevi prendere meno pasticche, e magari il tuo amico non si sarebbe fatto una dormita, funzionando a intermittenza!» continuò lei, mentre con foga si alzava e si rivestiva. Prese la sua bacchetta da terra e con un colpo veloce si smaterializzò, lasciandolo completamente solo.
«Quante ne hai?»
«Giusto una manciata, le ho comprate proprio oggi. Ma ce le faremo bastare. Tu adesso stenditi e rilassati» disse George mentre lentamente aiutava la ragazza di fronte a lui a togliere l'ultimo indumento, gli slip.
Prese la busta dal cassetto del suo comodino e mise tre pasticche sulla sua lingua. Piano piano si avvicinò alla bocca della ragazza e, spingendo la lingua contro la sua, passò una pillola tenendone due per sé che, una volta staccatosi dal bacio, ingoiò velocemente.
Quel flash improvviso si dissipò dopo pochi secondi. George sentì le guance diventare rosse come un pomodoro. L'ultima affermazione della ragazza non solo aveva confermato i suoi sospetti, ma gli fece provare un profondo imbarazzo. Non si era ancora abituato agli effetti deleteri delle sostanze che, senza sosta, aveva continuato ad assumere nel corso degli anni trascorsi da quel maledetto giorno. Il giorno che aveva cambiato nuovamente la sua vita.
Si era odiato per tanto, troppo tempo. Ogni giorno, ogni ora e ogni minuto della sua insulsa esistenza, come lui amava definirla, era stato speso ad incolparsi, a denigrarsi costantemente. La totalità del suo tempo era stata spesa a cercare di trovare un modo per espiare i suoi peccati. E le modalità scelte comprendevano drogarsi e collezionare brevi incontri sessuali che gli lasciavano sempre una sensazione di sporcizia addosso.
«George, la devi smettere! Lo vuoi capire che ti stai facendo del male?» gli chiese sua sorella, in piedi di fronte a lui nella piccola sala dell'appartamento sopra i Tiri Vispi.
«Non rompermi, Ginny. Fatti gli affari tuoi» rispose mentre con delicatezza riponeva in un cassetto una busta di plastica con all'interno delle pasticche blu, dopo averne ingoiata una.
«Io... io così non ce la faccio più, George. Nessuno ce la fa più. Siamo tutti stremati dal tuo comportamento!» esplose Ginny, scoppiando a piangere disperatamente e sedendosi a terra.
George alzò la testa e osservò i grandi occhi marroni della sorella, adesso pieni di lacrime. La ragazza se li asciugò velocemente, utilizzando una manica del maglione che indossava.
«Gin...» continuò lui, avvicinandosi e accucciandosi di fronte a lei, con la fronte e le sopracciglia aggrottate.
«Perché? George, dimmi perché continui a fare così. Dammi una motivazione valida...»
George alzò una mano e accarezzò dolcemente la guancia di Ginny. «Credo che sia un modo per punirmi. Se mi comporto così... se mi faccio del male sento che il senso di vergogna che provo ogni giorno diminuisce. È come un modo per espiare le mie colpe. Ho bisogno di farlo, Ginny. Paradossalmente questo è l'unico modo che mi permette di stare in vita» rispose lui, forse per la prima volta veramente consapevole e lucido.
Fortunatamente la sua famiglia e i suoi amici gli erano stati sempre vicino, combattendo e soffrendo per lui. Non avevano accettato le modalità distruttive che aveva scelto per andare avanti, anzi, si erano prodigati per trovare tante e nuove soluzioni alla sua problematica. Alla fine, all'incirca cinque anni prima, Pam aveva fatto una proposta particolare. «George, perché non provi un altro gruppo di aiuto? Questa volta però sarà per le dipendenze. Ti aiuterà, vedrai» E così, anche se controvoglia, si era recato a quegli incontri, più per fare contenti i suoi amici e la sua famiglia che per reale voglia di frequentarli. Ma il risultato, contro ogni aspettativa, era stato strabiliante. Le persone che aveva incontrato gli avevano dato una forza senza precedenti, lo avevano spinto a migliorare ogni giorno sempre di più. Lo avevano fatto sentire meno solo in mezzo all'oscurità. Era riuscito, dopo tante, troppe ricadute, pianti e disperazione, ad essere pulito completamente. Fino al giorno precedente, George Weasley non beveva, non fumava e non assumeva sostanze stupefacenti da circa tre anni.
Chiuse gli occhi e sospirò, ricordando il motivo per cui si era di nuovo rivolto al suo più grande nemico. E si odiava, si odiava dal profondo del suo cuore per essere stato così debole. Per essersi lasciato andare alla soluzione più semplice, a quella meno dolorosa. Ancora una volta, si era arreso e aveva lanciato vincere la bestia che abitava il suo animo, La sua parte oscura.
Era iniziato tutto da un sogno, un bellissimo sogno, ma che aveva portato alla luce, nella realtà, un terribile incubo. L'incubo della sua assenza.
«Vieni, George! Sono di qua, nella cameretta!»
Raggiunse a passi veloci la porta della piccola stanza dalle pareti azzurre, aprendola piano. Dentro, Isabelle seduta a terra che sistemava e piegava alcuni vestitini. George si avvicinò, abbracciandola da dietro e accarezzando dolcemente il suo grande pancione
«Come sta il mio ometto?»
Lei si girò, con uno dei suoi stupendi sorrisi. «Ha scalciato un po', sta già diventando un casinista come te!»
«Fammi sentire» rispose lui, abbassandosi e posando il suo unico orecchio rimasto alla pancia di Isabelle.
Non sentì niente e cercò di concentrarsi ancora di più su eventuali rumori. Ma, improvvisamente, Isabelle iniziò a iperventilare.
«George, qualcosa non va! Aiutami, ti prego!»
Lui si staccò e vide il terrore dipinto negli occhi della sua fidanzata. Lei si toccò sotto e portò la mano davanti ai suoi occhi. Era intrisa di sangue.
«George... aiutaci».
Si era svegliato così, con il ricordo della sua voce terrorizzata e tremante, madido di sudore e con il respiro accelerato. Quel sogno lo aveva destabilizzato, aveva creato un profondo cratere sotto ai suoi piedi, e lui si era sentito sprofondare nel buio e nel dolore. Per cercare un anestetico ai ricordi, per cercare di nuovo di non sentire niente si era recato ancora una volta in quel vicolo della Londra babbana che conosceva bene.
Solo poco, giusto per dimenticare la sua bocca
Solo poco, giusto per dimenticare i suoi occhi
Solo poco, giusto per dimenticarmi di te
Nell'arco di un secondo, aveva completamente perso tutti i progressi di tre anni. Puf, sfumati come una nuvola di vapore nell'aria. Si portò le mani alla testa, disperato. Avrebbe tanto voluto picchiarsi in quel momento. Si detestava. Era riuscito a migliorare, ad essere forte su tanti aspetti della sua vita.
Ma con Isabelle era tutta un'altra storia.
Ringraziava Merlino quando riusciva a non pensare a lei, quando la sua immagine non lo tormentava durante la notte, quando riusciva a non ricordare i meravigliosi momenti passati insieme. Ma quando questo accadeva, una frana di emozioni si staccava dal suo petto e lo colpiva in pieno, rendendogli impossibile pensare lucidamente. Il dolore del giorno in cui l'aveva persa, il dolore del giorno in cui l'aveva vista a Columbus con Lucas si ripresentava, ancora forte come il primo istante in cui lo aveva percepito. Non era riuscito a seguire i consigli di Angelina. Non era riuscito a dimenticarla, o meglio, non ci era riuscito come lei avrebbe voluto. Era riuscito solo a relegare il suo pensiero, le emozioni provate pensando a lei, all'interno di un antro oscuro della sua mente. Una parte che non visitava mai, e che non gli faceva male se celata in quel modo.
Eppure, sono passati undici anni, ma non riesco a dimenticarmi di te, amore mio
«George? Sei in casa?»
Riconobbe immediatamente la voce di Angelina e si sentì meglio. Lei era stata il suo faro in mezzo al mare in tempesta. Lo aveva assistito nei momenti di astinenza, nelle prime fasi del gruppo per le dipendenze, nel difficile percorso che aveva attraversato per ritornare a lavorare ai Tiri Vispi. Era stata offesa, umiliata, denigrata da lui nei momenti in cui non era in sé, ma non aveva mai abbandonato il suo capezzale. Era rimasta lì, salda come una roccia, e lui si era aggrappato a lei in tutti i modi.
Tranne quello da lei desiderato.
Per molto tempo, nei momenti buoni, Angelina aveva aperto il suo cuore. Molte volte aveva provato ad avere con lui qualcosa che andasse oltre il rapporto di amicizia. Ma lui era rimasto irremovibile. L'aveva perdonata per ciò che era accaduto, ma non avrebbe mai potuto essere per lei ciò che sentiva di essere stato per Isabelle. In più, non si era ancora perdonato per il suo grande errore... Non avrebbe ferito qualcun altro con le sue scelte assolutamente, completamente sbagliate.
«Perché continui a rifiutarmi? Perché non puoi lasciarti andare ed essere finalmente felice?» chiese Angelina, mentre cercava di nascondere senza successo alcune lacrime sfuggite al suo controllo.
«Angie, ti meriti qualcuno che ti ami veramente... io non posso, e non potrò mai. Non voglio prenderti in giro, ti voglio troppo bene per farlo...» rispose lui, abbassando la testa. Udì solo il rumore della porta che sbatteva violentemente e rimase, ancora una volta, solo con i suoi pensieri e i suoi demoni.
Dopo anni di pianti, di grida e di sconforto, finalmente lei sembrava essere riuscita a metterci una pietra sopra. E, per fortuna, da qualche mese sembrava felice insieme a Oliver Wood, il loro vecchio compagno di casa e di Quidditch ad Hogwarts. Si erano rincontrati ad un amichevole di Quidditch tra le Holyhead Harpies e i Montrose Magpies. Oliver si era fermato ad aspettarla fuori dagli spogliatoi per congratularsi con lei per la vittoria e dal quel momento sembrava essere riscoppiata la passione di qualche anno prima, quando avevano avuto qualche incontro fugace.
«Sono qua, Angie... in camera».
Lei entrò come una furia, iniziando a guardare con una faccia schifata la confusione attorno a lei. «George... ma tu come fai a vivere con questo casino? E pensare che ti basterebbe un tocco di bacchetta per mettere a posto tutto...» disse lei, mentre faceva levitare maglie, calzini, mutande e altri oggetti sparsi in modo disordinato per la stanza.
«Lo sai... l'ordine non fa per me» disse mentre si alzava. Non si era reso conto di essere completamente nudo, se ne accorse solo quando gli occhi di Angelina strabuzzarono e le pupille divennero ancora più nere. Lei, però, non sembrò scandalizzarsi. «Che c'è? Non è niente che non abbia già visto, George...» disse, per poi inclinare la testa di lato. «Che hai combinato ieri notte?» chiese con un leggero sorriso. Lo conosceva ormai davvero troppo bene.
«Ho fatto un po' lo stronzo con una ragazza... Se ne è appena andata. Sinceramente però... Non ricordo molto» disse balbettando confusamente, mentre si infilata velocemente degli slip.
George notò il fastidio attraversare gli occhi di Angelina per un momento, prima di scomparire.
«Hai bevuto per caso? O peggio?»
Lui non rispose, si limitò a grattare la nuca, con fare imbarazzato.
«George! Non ci posso credere...» continuò con una smorfia di dispiacere misto a rabbia. «E va bene, adesso non abbiamo tempo per discutere. Hai appuntamento a mezzogiorno con il dottor Sander, te lo ricordavi? Sono le 11.45, devi muoverti.»
«No...» rispose lui mentre indossava un paio di jeans e una maglia a mezze maniche arancione.
L'altra grande novità nella vita di George era il percorso di terapia che aveva iniziato in concomitanza delle sedute di gruppo. Se inizialmente era restio a darsi questa possibilità, si era ricreduto conoscendo il dottor Sander, uno psicologo babbano, e vedendo i grandi progressi ottenuti. Era stato costretto a tenere nascosta la sua vera natura anche con lui, ma in fondo ne era quasi felice. In quell'ambiente protetto poteva essere semplicemente George. Poteva essere sé stesso, con la sua grande sofferenza ad accompagnarlo.
«Non sarà contento di sapere che ci sei ricascato. Eri pulito da tre anni!» continuò Angelina con tono arrabbiato, finendo di mettere a posto le ultime cose nella sua stanza.
George non rispose e si avviò verso il bagno. Fece scorrere l'acqua del rubinetto e la buttò velocemente sul suo viso. Si asciugò e poi incrociò il suo sguardo nello specchio. Si osservò per qualche secondo. I capelli neri, lunghi fino alle spalle, circondavano il suo volto rendendolo ancora più pallido. Alla cute e di lato riuscì ad intravedere alcuni ciuffi arancioni che spuntavano. Aggrottò le sopracciglia, più scure rispetto a qualche anno prima grazie alle tinte che applicava.
Da undici anni portava avanti con fermezza quel cambiamento così drastico di aspetto. Da quando non vedeva più Fred riflesso davanti a sé, si sentiva meno perso e disorientato, meno colpevole di essere sopravvissuto a lui.
Forse è arrivato il momento di rifare il colore, prima che sia troppo tardi, prima di avere nuovi colpi al cuore improvvisi quando mi specchio
«Secondo me stavi meglio prima».
George si voltò di scatto, appoggiandosi al ripiano del lavandino. Angelino avanzò verso di lui, guardandolo con occhi carichi di preoccupazione.
«Quando starai finalmente meglio, George?» chiese lei passando due dita sul suo volto.
Lui si sciolse al suo tocco. Con Angelina, nonostante tutto, si sentiva a casa. Protetto, capito, amato. E nonostante non riuscisse a ricambiare, quella sensazione era bellissima. Lo faceva sentire per qualche secondo di nuovo vivo.
«Ho fatto un sogno ieri notte... è questo il motivo della mia ricaduta» disse deglutendo.
«Sono passati tanti anni... Non pensavo ti facesse ancora questo effetto» rispose lei capendo al volo.
«Non posso farci niente... Lo sai» disse lui abbassando la voce.
«Lo so, George. Speravo solo che non fosse ancora così. Ma adesso andiamo, il dottore ti sta aspettando. Andiamo a prenderci cura di te» disse lei, afferrando la sua mano e materializzandosi fuori dall'appartamento.
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«Non può nemmeno immaginare quanta vergogna sto provando in questo momento. Mi sento uno schifo... è passata qualche ora e sto già percependo i primi sintomi da astinenza. Non mi sentivo così da tre anni e, beh... questa sensazione fa veramente schifo. Ho trentaquattro anni e ancora mi riduco in questo stato... Sono una delusione per tutti, forse anche per lei...»
«George, mi dispiace davvero molto di sentirti così affranto e avvilito. Ma tu non sei una delusione, per nessuno. Devi pensare a ciò che abbiamo detto molte volte: il percorso per uscire da una dipendenza forte e lunga come la tua è difficoltoso, pieno di ostacoli. Non devi incolparti, questi incidenti di percorso, come mi piace definirli, sono assolutamente e completamente normali. Mi stupirei del contrario!» disse il dottor Sander, di fronte a lui su una grande sedia da ufficio nera. Era un uomo di mezza età, calvo e con degli occhiali dalla montatura nera. I suoi occhi scuri lo osservavano e lo scrutavano da quando era entrato nella stanza, mentre i suoi gomiti erano appoggiati ai braccioli della sedia e le mani intrecciate di fronte a sé. «So già cosa stai pensando. Non sei debole George... tu sei soltanto umano».
L'affermazione del dottore lo spiazzò. Umano. Non si sentiva così da tanto, troppo tempo. Si sentiva un fantasma, costantemente in cerca di qualcosa che sembrava non essergli destinato. La serenità del proprio essere, la felicità con una persona che lo amasse veramente.
«C'è.... C'è un motivo che mi ha spinto a prendere di nuovo quelle pasticche ieri notte...» disse George, con voce flebile e non incrociando lo sguardo dell'uomo seduto di fronte a lui.
«Ti va di parlarmene?»
Esitò per un attimo, indeciso. Non era sicuro che sarebbe riuscito a parlare così apertamente di Isabelle, non lo aveva mai fatto nei quasi cinque anni di terapia. Ogni volta che ci aveva provato mille spine si erano conficcate nel suo cuore, che sanguinava ormai da tempo indefinito. Ma si sentì pronto a farlo, o quantomeno a provarci.
«C'entra la donna a cui hai accennato qualche anno fa?» continuò il dottore, mentre inclinava di lato la testa incuriosito.
George rimase a bocca aperta. «Ma... io... ero convinto di non averne mai parlato. Non qui, almeno...»
Il dottor Sander rise sotto i baffi. «Non ne hai parlato lucidamente. Ti ricordi quella volta in cui ti sei presentato in seduta ubriaco e su di giri?»
George abbassò lo sguardo, imbarazzato. Aveva solo dei flash confusi di quel giorno, ma il racconto riportato dal dottore le volte successive era stato ben dettagliato e preciso. Ma aveva omesso quel particolare. «Io... no, cioè sì, cioè... insomma, non ricordo bene...»
«Mi pare che le parole usate fossero: "Non ha più senso fare una vita normale se non posso condividerla con Bel, anzi a dire il vero non ha nemmeno più senso avere una vita! Perché non mi fate fare ciò che voglio? Voglio morire!" O qualcosa del genere» concluse lui, con uno dei suoi soliti sorrisi. «Bel è il motivo della tua ricaduta?»
«S-sì, cioè, ho fat-fat-fatto un sog- sogno...»
Batté con rabbia la mano sul bracciolo del divano su cui era seduto. Ci mancavano solo le balbuzie a complicargli la giornata. «Sc-scusi...»
«George, non devi scusarti. Ho provato a forzarti un po', perdonami. Se non te la senti di parlare di questa ragazza, oppure di ciò che è accaduto in questi giorni non fa niente. Come ti ho detto, seguiamo i tuoi tempi. Andiamo senza fretta, ci prendiamo del tempo per guardare insieme dentro il tuo mondo interno. Va bene?»
George sembrò tranquillizzarsi. Il dottore era stato la sua ancora di salvezza. Lo aveva raccolto da terra, lo aveva rimesso in piedi. Lo aveva aiutato di nuovo a respirare, ed era stato fondamentale nel fargli capire che i meccanismi autodistruttivi che metteva in atto erano solo un modo per cercare di diminuire l'enorme senso di colpa che lo divorava da tempo, soprattutto per la morte di Fred e per ciò che era accaduto con Isabelle. Nonostante non ne avesse mai parlato apertamente con lui, aveva sempre descritto quegli eventi come "il secondo buco nero in cui sono stato inglobato" ma senza mai specificare, e il dottore lo aveva aiutato a risalire la china, senza spingere troppo. Aveva rispettato i suoi tempi e per questo gli era grato.
«N-no... va bene, proverò a parlarne. Credo sia arrivato il momento» rispose serio.
Prese un profondo respiro. «Ho fatto... ho fatto un sogno. Sembrava così reale. Potevo sentire i rumori, gli odori. I colori intorno a me era vividi e potevo percepire ogni mia sensazione. È stato veramente strano. Comunque... mi trovavo... in quella che era il nostro appartamento. Insomma...» continuò incerto «mio e della ragazza in questione» disse deglutendo rumorosamente. «Noi...noi vivevamo insieme. E avevamo... dipinto una cameretta. L'avevamo dipinta di bianco, perché...»
George si bloccò, credendo di impazzire. Tutte le sensazioni che di solito riusciva a tenere a bada stavano risalendo lungo il suo stomaco, il suo petto, iniziarono a stringere intorno al cuore che batteva a velocità incredibile. Parte di quelle emozioni trovarono una via di uscita dai suoi occhi, che iniziarono a lacrimare, mentre la sua espressione rimase dura.
«George, sono qua. Puoi farcela, hai tutti gli strumenti. Fidati di me, fidati di questo spazio. È per te, io sono qua per te. Lascia uscire tutto» disse il dottor Sander, vedendolo in difficoltà.
«Ok... l'avevamo dipinta di bianco perché lei voleva che fosse neutra. Si sarebbe divertita a dipingerla poi di rosa o azzurro a seconda del sesso del bambino... un bambino che ovviamente non abbiamo mai avuto, perché se ne è... andata» concluse con la voce spezzata dal pianto. «A ogni modo, nel sogno le pareti erano azzurre, non so per quale motivo... lei si trovava in terra, stava sistemando alcuni abitini e io mi sono avvicinato, poi ho visto il suo pancione... mi sono ovviamente reso conto che era un sogno perché era incinta...comunque mi ha detto qualcosa sul bambino, forse che aveva scalciato tanto, non ricordo benissimo. Io mi sono avvicinato con l'orecchio per sentire e lei ha iniziato ad agitarsi, ha iniziato a perdere sangue da sotto e l'ultima cosa che ricordo sono i suoi occhi terrorizzati e la sua voce che tremava. Mi ha detto "George, aiutaci" e poi mi sono svegliato».
Quando finì di raccontare la sua vista era ormai offuscata da lacrime amare che gocciolavano sulla maglietta arancione indossata quella mattina. Ma George cercò di restare fermo, impassibile. Aveva paura di essere divorato dal dolore che teneva nascosto.
«Come ti senti?» chiese il dottor Sander con lo sguardo concentrato.
«Sinceramente... non lo so. Parlare di... lei... mi fa male. Ma sto cercando di trattenermi. Io... io non penso di poter resistere al dolore che ho provato per tanto tempo. Sento che se iniziassi a raccontarle di... Isabelle... io sento che non reggerei... questo sogno mi ha così destabilizzato che mi sono di nuovo rivolto alla soluzione più semplice... aprirmi su di lei mi farebbe spezzare, ne sono sicuro. Mi dispiace».
Il volto del dottor Sander si rilassò, e un sorriso comparve. «George, non devi dispiacerti. Sei riuscito a nominarla, a parlare in parte di qualcosa che la riguarda. Questo è già un traguardo. Credo che questo sogno sia stato, in un certo senso, preparatorio. Come sai, niente avviene per caso. E credo che questa sia stata la spinta che ti serviva per iniziare a lavorare anche su questo aspetto della tua vita. Vedrai che piano piano riusciremo ad andare avanti, riusciremo insieme a stare meglio».
George si asciugò le lacrime velocemente e sorrise al dottore. Anche se trovava difficile credere che sarebbe presto andato tutto per il verso giusto, decise di provare a fidarsi, ancora una volta, dell'uomo di fronte a lui.
Quasi leggendogli nel pensiero, il dottore continuò: «Non sarà facile, questo posso assicurartelo. Ma non ti lascerò da solo, George. Questa è una promessa».
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Buonasera! Finalmente sono riuscita a sviluppare questo capitolo che mi ha richiesto davvero tanto tempo, ma spero che la parte introspettiva di George vi sia piaciuta! Fatemi sapere che ne pensate, per me il vostro parere è vitale ❤
Nella parte dei ringraziamenti io non posso non citare Aalicemorosi che ha creato la bellissima immagine in copertina. Grazie amica, per essere riuscita a rappresentare alla perfezione il mio George ❤ e voi, che ne pensate di questa nuova versione?
E poi, come sempre, cito effywriter che mi sostiene e mi dà consigli preziosi ❤ grazie ❤
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