III. Accura
Un quadretto appeso al muro raffigurava un capanno in una campagna, due asini che portavano sulle spalle delle borse, e delle colline sconfinate, color del grano. Poco lontano, sempre appeso, un testo recitava parole religiose, il disegno di una spiaggia e delle impronte su di essa volevano dare il contesto alle frasi quasi scontate che si leggevano, ma l'immagine era anonima, tutt'altro che sacra.
C'erano due bambine che giocavano al balcone. I rumori della città assordavano chiunque non fosse abituato, eppure loro giocavano e anzi sfruttavano i suoni dei clacson, le ambulanze che sfrecciavano per le vie, uomini che urlavano per cercare di vendere qualche pezzo di pane. Orde di studenti che passeggiavano, altre che correvano con un panino in una mano e il cellulare nell'altra. Alcuni ragazzi piangevano ma cercavano di nasconderlo.
Le bambine non osservavano niente al di fuori del balcone. Si immaginavano un'abitazione immensa, fatta di stanze e saloni, solo calcolando la dimensione con le mattonelle bianco sporco per terra.
«Io ho il potere dell'acqua!»
«Io invece controllo l'aria, con questo bastone.»
Si muovevano lungo tutta l'area sfruttando ogni angolo, recitavano battute inventate da loro sul momento e quando si fermavano bevevano del tè "senza zuccheri" che le aspettava sopra un tavolino la cui esistenza era decisa da quando era stato costruito.
Le due bambine non avevano cellulari, solo delle borsette a tracolla con degli oggetti specifici e personali; una pietra verde, una biglia con dentro l'arcobaleno, dei bastoncini di legno presi da una campagna quasi identica al quadretto appeso al muro e un anello, un gadget televisivo, rosa e argentato.
Recitavano. Inventavano storie insieme, impersonavano qualcuno che non potevano essere, e litigavano come due normali sorelle, chiedendosi scusa per ricominciare a giocare. Quando tutto finiva e dovevano tornare a casa loro, prendevano gli oggetti di scena e il nonno le portava all'edicola giù da lui, dove potevano scegliere quello che volevano. Erano rituali, abitudini necessarie per instaurare un rapporto dalla comunicazione difficile. Il nonno veniva dalla campagna desaturata del quadretto, era cresciuto con vacche e asini che lo accompagnavano per gli ulivi, aveva le mani piene di calli, e le braccia e le gambe forti. Quando raccontava il suo viso si illuminava e rideva, anche se non ne uscivano suoni. Ma si vedeva che i muscoli si muovevano per fare quella espressione lì. Le bambine non ci facevano caso, a loro importava del giocattolo in edicola, però gli volevano bene.
E quando si dovevano separare, dopo un abbraccio, il nonno urlava sempre.
«Occhio vispo!»
Le bambine attraversavano la strada, guardando prima a destra e poi a sinistra anche se la via era a senso unico, e sentivano un'altra parola, da lontano, una parola nel dialetto del nonno, una parola che avevano imparato a capire col tempo, e a interpretare come qualcosa di importante. Significava "attenzione", ma dentro c'era "cura", rinforzata da una a e una c che la precedevano. Anche se non era esplicita, voleva dire che lui le stava guardando, ma non lo avrebbe fatto sempre. Che le avrebbe avvisate del pericolo, ma si sarebbero trovate sole, prima o poi. E dovevano porre attenzione a ciò che le circondava. Dovevano aprire gli occhi, tenerli vispi, e stare "accura".
Ora che le bambine non giocano più insieme, quella cura si è un po' persa. Forse, un giorno, la ritroveranno insieme.
Parole: 554.
// mi rifugio sempre in loro, quando non so cosa scrivere. A domani.
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