3. Cerotti

Non sono mai voluto diventare un medico o un chirurgo. Da piccolo il sangue non mi piaceva, e avevo paura dei dottori. Eppure, crescendo ho capito quanto invece fossero importanti e cercassero in tutti i modi di tranquillizzare i pazienti, piccoli e grandi, anche se la situazione poteva sembrare tragica. L'onestà non è cattiveria; è bontà nei confronti di chi soffre e solidarietà. Ci sono i cattivi dottori, quelli ci sono ovunque, ma chi decide di svolgere questo mestiere dedica la sua vita a quella degli altri, nel bene e nel male. Più diventavo adulto più m'affascinava come riuscissero a guarire casi impossibili da guarire, o lasciassero morire gente che una speranza parevano avercela, ma non ce l'aveva. Mi sono avvicinato alla psichiatria perché ero interessato ai meccanismi del cervello, perché lo vedevo come studio del paziente e ricerca del rimedio. Mi piaceva la psichiatria, ma sapevo che non sarei stato abbastanza forte da reggere certe situazioni; mi piaceva anche la chirurgia, ma i contatti con i pazienti erano a volte nulli. Io volevo parlare con loro, tranquillizzarli, aiutarli senza sconvolgermi più di quanto non lo fossero loro da soli.
Non volevo la vita facile, ma quella più adatta alla mia persona. Quando entrai in infermieristica sentii che quello sarebbe stato il posto giusto per me. Là potevo coltivare le mie passioni, ma dedicarmi al paziente per come desideravo io. E ne fui ancora più sicuro non appena misi piede in ospedale e arrivò il mio primo caso. Aveva una ferita alla caviglia, gonfia e sanguinolenta, e urlava come se stesse per morire. In realtà era caduto dalla bici durante una gita con altri amici, che però non lo aiutarono ad arrivare in ospedale e lo lasciarono per strada continuando il loro percorso.

«Si deve calmare, i medici saranno qui a momenti,» avevo esordito, un po' preso dalla botta.

Sì, di certo non mi sentivo a disagio, ma era pur sempre la prima persona ferita che mi capitava di soccorrere nel mio nuovo lavoro, non ero nemmeno così tranquillo da sorriderle come nulla fosse. Anche perché la sua non era una ferita da nulla. Più i minuti passavano, più il piede si gonfiava sempre di più. Lo feci mettere su un letto e lo calmai dandogli qualche antidolorifico. Lui smise di urlare e mi prese forte la mano, strizzando gli occhi.

«Non volevo fare quella passeggiata. Ma nessuno mi avrebbe parlato.»

Io gli strinsi la presa.

«Posso darti del tu? Come ti chiami?»

«Tommaso.»

«Tommaso, adesso pensa solo a stare bene, d'accordo? Chiamerai dopo i tuoi amici per chiedere spiegazioni.»

La sua faccia si contrasse in una smorfia triste. E solo allora capii che sarebbe stato inutile consolarlo in qualche modo, ancor di più facendolo come fossi l'ennesima persona che non comprende il vero problema. Mi sentii spaesato e pensai a quanto fossi incapace di tranquillizzarlo. Cadde un silenzio tombale fra di noi; e mi resi conto che quel ragazzo aveva anche dei graffi dovuti alla caduta sul viso.
Presi i cerotti che mia madre quella mattina aveva dato a me per buono auspicio, e gliene misi uno sopra i tagli.

«Non è molto professionale, ma erano i cerotti che usava mia madre quando da bambino cadevo e i miei amici mi prendevano in giro. Ero arrabbiato con loro, ma non sapevo reagire. Non sono mai stato una persona forte ma, non so perché, ogni volta che usavo questi mi sentivo un po' meglio e facevo la pace con loro.»

Lui mi guardò aggrottando la fronte, poi mi sorrise e mi disse qualcosa, prima che il dottore ci interrompesse e lo prendesse in cura.

«Mentre parlavi mi sembravi un idiota. Ma sembra che con questo cerotto io possa affrontare qualsiasi cosa. Grazie.»

Non lo vidi più, ma da allora usai i miei cerotti per calmare tutti, e sembrava quasi che avessero con sé una qualche magia in grado di curarli. Riusciva a curare i loro dispiaceri, la loro tristezza, il loro dolore interiore. Era strano, ma più diventavo bravo anche nel mio lavoro, più iniziavo a non farci caso; i pazienti chiedevano di me quando volevano parlare con qualcuno, e chi si era ristabilito a volte tornava a portarmi qualche regalo per ringraziarmi. Non per la loro malattia, o per le loro passate condizioni; loro mi guardavano, mi prendevano per le mani e mi dicevano: "Hai curato il mio cuore e la mia mente". Non so se fosse davvero per i cerotti e i miei aneddoti legati alle mie sventure infantili, ma funzionava continuare quel rito, e io non riuscivo a non pensare a quanto avessi fatto bene a perseguire quella strada. Perché era la mia.
Tutto però cambiò quando mia madre morì, lasciando un vuoto dentro di me che non pensavo di riuscire mai più a colmare. Lei era la donna della mia vita, la mia confidente più sincera e diretta, la persona che mi aveva curato nei momenti più bui e mi aveva offerto la propria mano per aiutarmi ad alzarmi da terra quando cadevo. Mi aveva lasciato solo, a causa di un infarto. Non aveva mai avuto gravi problemi di salute, eppure era morta così, all'improvviso. Non riuscii a prendermi nemmeno una pausa dal lavoro; era l'unica cosa che mi rimaneva per non abbandonarmi alla tristezza, alla mancanza di qualcuno di così fondamentale per me. Continuai a guarire la mente delle persone ignorando totalmente la mia, senza fornirle un minimo di attenzione o cura.
A due anni dalla sua scomparsa, mi ritrovavo ancora più vuoto e solo. Fino ad arrivare all'unica stazione della mia piccola città; ci passavano solo due linee, una delle quali era esclusivamente notturna. Nessuno frequentava quel luogo. Ci ero andato con uno zaino e una valigia mezza vuota; non so nemmeno perché me la fossi portata dietro. Non dovevo andare da nessuna parte, ma forse mi serviva un pretesto per passare indifferente quel giorno. È più normale vedere un uomo solo con qualcosa addosso alla stazione per prendere un treno, anziché notare che sia solo lui, senza qualcosa di proprio con sé. Forse era un mio ragionamento contorto, nessuno si sarebbe fatto domande o mi avrebbe notato a prescindere; ma mi serviva, mi serviva per ricordarmi di quello che stavo facendo e del perché dovessi farlo. Aspettavo solo l'unico treno che passava da lì, oltre la linea gialla del marciapiede. Messo dov'ero, sarebbe stata abbastanza veloce da...

«C'è stato un allarme bomba, tutti i treni sono bloccati alla Centrale.»

La voce di un uomo dietro di me mi fece voltare di scatto, spaventato. Non avevo visto che ci fosse qualcuno con me.

«E comunque, è meglio se va via da qui. Tra poco dovrebbe arrivare la polizia e potrebbe trovarsi nei guai.»

Lo ascoltai con il respiro corto, ancora incerto. Perché mi sarei trovato nei guai? Non stavo facendo nulla di male.

«Poco più in là è stato appiccato un incendio, ci saranno dei morti. Vada via.»

Guardandolo meglio, notai che teneva due sacchetti di plastica con le mani; sembravano leggeri perché le braccia non avevano segni di affaticamento, e pensai che il contenuto all'interno fosse fatto di bambagia. Quei sacchetti erano gonfi ma morbidi, bianchi, con qualche linea marrone. Che fosse...?

«Mi ha sentito?»

La sua voce si fece più cupa, il tono era diventato all'improvviso più basso e toracico, come se l'avesse modificato per farlo risuonare più potentemente. Pian piano mossi qualche passo verso l'uscita continuando però a tenere lo sguardo su di lui. Era ben impostato, le braccia allenate e un'altezza comune ma non banale; aveva gli occhi di un verde intenso, che a tratti pareva castano, ma si intonava perfettamente con la pelle olivastra e i capelli mossi e scuri fino alla nuca. La barba era ben curata, ma aveva un che di selvaggio. E, una volta arrivato a lato, notai anche un piccolo tatuaggio sul collo. Sembrava un cuore, realistico, disegnato a penna.
Lo superai senza fiatare sotto il suo sguardo impassibile, e una volta attraversata la soglia dell'ingresso, lontano da lui, mi girai un'ultima volta per guardarlo ancora. Si era avvicinato ai binari, aveva aperto i sacchetti e, in un unico gesto deciso, li aveva sbattuti un'unica volta verso l'esterno, facendone uscire il contenuto. Era gossypium, la pianta da cui si poteva ricavare il cotone. In mezzo agli steli marroni, si ritrovava anche quella stessa fibra morbida e leggera. Una nuvola di bianco apparì di fronte a lui, ma subito dopo scoppiò al passaggio del treno che stavo aspettando io. Corsi verso di lui, lasciando la valigia all'entrata; gli afferrai la maglietta da dietro e lo strattonai.

«I treni... non erano stati tutti bloccati!?»

Lui non mi permise di bloccarlo per più di qualche secondo; si girò facendo in modo che lasciassi la presa e mi afferrò in risposta dal collo della mia polo.

«Le avevo detto di andare via. Che ci fa ancora qui?»

Aprii la bocca per rispondergli ma il suono di una sirena della polizia fermò ogni cosa, perfino l'aria; l'uomo mi spinse indietro e mi fece cenno di seguirlo mentre si dirigeva verso la campagna poco distante. Era quella che si sarebbe vista dal finestrino del treno, se l'avessi preso.
Normalmente, non avrei avuto motivo di seguirlo. Me ne sarei dovuto andare davvero via, riprendere in mano la mia vita e curare il dolore della mia anima; eppure il suo sguardo che mi richiamava mi aveva incuriosito e, in qualche modo, avevo sentito la sua paura quando mi aveva spinto indietro al suono della sirena. Affrettai il passo per raggiungerlo; entrammo in quella campagna abbandonata e ci allontanammo per un bel po', prima di fermarci in mezzo a un campo di alte piante di cotone.
Si sentiva odore di steli d'erba e legno bruciati; il fumo dell'incendio che si era propagato dal lato opposto era arrivato fino a noi, anche se non con tutta la sua potenza.

«Dobbiamo rimanere qui per un po',» disse l'uomo, sedendosi sul terreno e sospirando fra sé.

Solo una volta tranquillo, riuscii a osservare che le sue mani erano tutte scorticate e alcuni punti perfino feriti, come se si fosse bruciato ripetutamente da non molto tempo.

«Penso tu abbia capito.»

Il suo tono era cambiato. Mi aveva dato del tu, e la voce si era fatta più bassa, come addolcita dall'odore di fumo.

«Ho appiccato io l'incendio. Qua, intorno alla stazione, c'è cotone ovunque, non è strano che a causa di una scintilla prenda fuoco tutto in poco tempo. E oggi c'è anche un po' di vento. Avevo preso delle piante in più per assicurarmi che anche l'interno di quel capannone bruciasse all'inferno. E invece arrivato al momento più importante del mio lavoro, ho preferito lasciar fare il corso alla natura. Così sono tornato indietro a buttare quel che mi rimaneva sui binari. Chissà se è morto davvero qualcuno.»

Non riuscivo a capire cosa passasse per la testa di quell'uomo; si teneva le mani come se si sentisse tremendamente in colpa ma per come parlava mi risultava quasi indifferente a ciò che aveva fatto, una conseguenza dovuta e necessaria per chissà quali ragioni.

«Poi mi sono ritrovato davanti un uomo che stava per lanciarsi... non so nemmeno perché ti ho salvato,» aggiunse.

Lo fissavo in piedi cercando di cogliere quale fosse il dramma che lo aveva scosso tanto fino a quel punto; non mi interessava nemmeno che avesse capito quali fossero le mie intenzioni fino a pochi minuti prima. Presi dei cerotti dalla tasca dei miei pantaloni, forse l'unica cosa che portavo ancora con me e tenevo sempre, nonostante il dolore che mi provocasse guardarli. Mi abbassai con le gambe alla sua altezza e allungai una mano verso una delle sue; la avvicinai e dopo averla pulita con un fazzoletto gli misi sopra un paio di cerotti, con delicatezza.

«Non so nemmeno perché ti ho seguito,» mormorai fra me, ma tenendo un tono abbastanza chiaro da farmi sentire, mentre controllavo che tutto, di quella mano, fosse a posto.

Lui la tirò indietro dopo che finii e se la guardò, curioso; pian piano mi porse l'altra, e applicai lo stesso rito, con calma, come una carezza al suo spirito da parte del mio. Rimanemmo in silenzio qualche altro minuto; la mano destra era messa peggio della sinistra, quindi dovetti usare più cerotti, unica cura che potessi offrirgli. Non avevo nemmeno acqua per pulire le ferite, ma solo un fazzoletto asciutto e, in realtà, ben poco utile.

«Io sto per morire,» sussurrò piano, completamente impassibile come lo erano i suoi occhi quando li guardai.

«Forse lo sono già,» concluse, con una risata dal tono amaro che mi toccò fin dentro le ossa.

Gli lasciai la mano e mi alzai di nuovo, così lui mi seguì con lo sguardo mentre io invece lo spostai altrove.

«C'è davvero qualcuno che non lo è?» gli chiesi, «dobbiamo trovare noi una spiegazione all'essere vivi. Altrimenti siamo morti, e lo saremo sempre, fino a quella fisica e medicalmente provata che raggiungeremo.»

All'improvviso tutti i suoni della campagna si annullarono, lasciando solo il profumo del gossypium a farci compagnia. Avevo la sensazione che davvero stesse per morire di fronte a me; che non lo fosse ancora, ma che stesse per lasciarmi senza che io potessi prevenirlo o fare qualcosa. Da infermiere, non potevo permetterlo. Ma che avrei potuto fare, senza conoscere cosa stesse per capitare?

«Qualcuno sta venendo a uccidermi. È meglio se vai via.»

Si alzò subito dopo quella rivelazione, si posizionò davanti a me e mi adagiò una mano sulla mia spalla. Era così calda e accogliente che venni costretto a osservarlo come attratto da un campo magnetico; mi strinse così lieve e caloroso che all'improvviso i miei occhi divennero lucidi e la mia vista offuscata.

«Ti ringrazio per avermi curato.»

Ma non si mosse. Rimase fermo con la propria mano sulla mia spalla e a quelle parole io capì una cosa: non ero ancora pronto a considerarmi morto. Mia madre era la mia vita, ma la mia vita era continuata e lo stava facendo ancora. Non avrei dovuto buttarla via, lei non me l'avrebbe perdonato, e ascoltando il tono spento di quell'uomo me ne resi conto ancor di più. Io avevo intrapreso la carriera che avevo da sempre desiderato; avevo curato mente, spirito e anima di qualsiasi persona mi si fosse presentata davanti, tranne ciò che apparteneva a me, e mi ero totalmente sperduto nei meandri del mio corpo fisico senza saperlo fino a quando un uomo dall'apparenza inquietante mi aveva toccato e guarito.

«Non posso andare via. Ormai ti ho seguito,» gli risposi, fremendo con tutto il corpo in attesa di un'idea per salvarlo, «non posso andare via,» replicai di nuovo.

Lui mi fissò per qualche secondo, concentrato; poi spostò la mano che mi aveva donato il calore più intenso della mia vita e mi diede le spalle.

«Possiamo scappare solo da una parte, dall'altra c'è la polizia. I miei assassini mi troveranno alla fine del percorso per la fuga,» mi guardò serio, la voce d'improvviso decisa, «sono in grado di contrastarne tre, al massimo. Al resto devi pensarci tu.»

Nel momento in cui iniziammo a correre verso la fine della campagna, un rumore sordo mi stordì e caddi per terra senza riuscire a muovermi; vidi il bianco del cotone che mi circondava, un'ombra che si avvicinava a me e mi scuoteva richiamandomi e dei suoni ovattati che non comprendevo.

«Ehi, ehi! Rialzati, sono qui! Sono arrivati!»

Percepii lo stesso tocco che mi aveva risvegliato qualche attimo prima e capii che si trattava dell'uomo con cui stavo scappando da qualcosa che nemmeno conoscevo a parlarmi; gli afferrai un braccio e glielo strinsi forte.

«Non riesco a rialzarmi,» gli urlai, prendendogli anche l'altro braccio, «non riesco a distinguere i suoni... Vai, vai!»

Le mie grida non lo smossero di un centimetro; mi teneva a sua volta con le mani che gli avevo curato e cercò di aiutarmi ad alzarmi; mi fece mettere un braccio attorno al suo collo per camminare insieme a lui, ma dopo qualche altro passo, caddi di nuovo. Dopo di lui. A quel punto tornai a sentire più chiaramente e riacquisii l'equilibrio, ma lo sguardo mi cadde sul colore rosso che stava sporcando il più puro bianco intorno a noi. Delle piante calpestate, rovinate, e sporche di sangue.

«L'avevo detto... di essere morto, ormai.»

Gli sentii dire solo questo. Il suo torace perdeva sangue. Era stato colpito da qualcosa; gli strappai la maglietta velocemente e cercai di comprimere la ferita per fermare l'emorragia. Eppure lui era sempre più pallido.

«Ho solo dei cerotti,» dichiarai sull'orlo del pianto, «non ho nient'altro, ho solo dei cazzo di cerotti!»

Lui si mise a ridere. Non l'avevo ancora visto farlo di cuore, sul serio, in maniera tanto spontanea.

«Vanno benissimo i cerotti,» si sforzò di dire, respirando più lento che poteva, «vanno bene quelli».

Quando chiuse gli occhi, il suo petto smise di muoversi; il sangue era arrivato a sporcare fino ai miei polsi, avevo filamenti di cotone attaccati alle mani. Recuperai gli ultimi cerotti che mi rimanevano: li usai per coprire la ferita dell'uomo di cui non sapevo nemmeno il nome.

Lo ripulii con la pianta di cotone.

«Scusa se non sono riuscito a salvarti.»

Parole: 2809.

// Arrivo sempre a fine serata, scusate. In ogni caso non ho riletto, ma fino a un certo punto mi piaceva. Non so se alla fine mi sono persa o cosa, ma devo rileggerlo per capirlo. Intanto, fatemi sapere che ne pensate voi. Vi svelo solo un segreto: questa OS nasce in principio per un prompt mai sviluppato del Writober 2019. Ebbene sì, doveva essere uno di quei racconti di quella raccolta, ma non l'ho mai concluso. Il tema era "Cerotto", e avevo scritto circa fino alla parte del primo paziente che il protagonista cura (Tommaso). Ho modificato qualcosa e ho sfruttato il tema per continuarla seguendo il prompt scelto per oggi. Sono contenta del risultato, tutto sommato, anche se potevo risparmiarmi una storia così perché concluderla è stato un inferno. Sarebbe da approfondire, comunque, la storia potrebbe essere interessante uhuh. \\

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