- V - L'ultimo giorno

Oggi c’è proprio un bel tran tran in questa casa.
Gente che viene, gente che va.

Se solo avessi previsto tutte queste visite, avrei potuto sistemare le stoviglie, rifare i letti o, almeno, avrei tolto la biancheria dallo stendino in veranda.
Se avessi saputo che sarebbero venuti tutti - ma proprio tutti! - avrei apparecchiato il tavolo in sala da pranzo, sarebbe stata una buona occasione per usare finalmente la tovaglia di lino ricamata; avrei preparato anche qualche stuzzichino.

Ma guarda un po’! C’è anche la signora del quarto piano. Mi guarda con la sua solita aria stranita. Oggi, a
differenza degli altri giorni, ha dimenticato di ripassare il trucco; ha tutto il mascara colato ai lati degli occhi.
Sarà di corsa, ha sempre un mucchio di cose da fare e la testa fra le nuvole, quella lì…

Ormai saranno dieci minuti che provo a metter su il caffè; non appena afferro la moka dallo scolapiatti, tac!
Ecco che arriva qualcuno a salutarmi.
Non sono mica abituata a tutte questa attenzioni, io; proprio oggi, poi, che non è nemmeno il mio compleanno.

Mio marito non si è ancora alzato dal letto, poverino. Ieri sera era tanto stanco. La chemioterapia lo sta
debilitando sempre di più, ma lui è forte, è la mia roccia.
Quando lo guardo dormire, così beatamente, mi viene sempre da sorridere. Tutti mi fissano, non capiscono il perché della mia felicità, ma non m’importa. Lo lascerò dormire un altro po’.

Guardo quella coperta bianca tutta sgualcita e mi viene un nervoso! Le mie sorelle l’hanno presa dall’armadio e, senza chiedermelo, l’hanno messa lì; non si sono nemmeno degnate di sistemarla. Mi hanno detto che non ce n’era bisogno, che non dovevo preoccuparmi di queste cose, che nessuno ci avrebbe fatto caso. Bè certo, non saranno di certo loro a fare la figura della pessima ospite!

Saranno le tre del pomeriggio e c’è ancora un gran trambusto.
Gente che va, gente che viene.

Cammino per casa senza una meta precisa. Una donna mi abbraccia, un uomo mi tende la mano. Non so chi
siano, ma almeno sono gentili. Credo proprio che li inviterò a cena qualche sera, non appena il mio Tommaso
starà si sentirà meglio.
Sono ore che cerco un posto tranquillo dove riposare, ma ho sempre qualcuno attaccato alle costole. Tutte queste presenze mi infastidiscono. Non mi lasciano un secondo. Sono così invadenti.
Ho provato a chiudermi in bagno, almeno lì sarei stata sola con me stessa, e invece niente! Qualcuno aveva tolto la chiave dalla toppa. Ah, se scopro chi è stato mi sentirà!

Percorro il corridoio per l’ennesima volta. In questo piccolo stralcio di casa una ragazza mi intralcia il
cammino; poi mi guarda senza fiatare, confusa, anzi no: affranta. Ha un’aria così familiare, ma non riesco a ricordarmi di lei. Cerco di mettere a fuoco il suo viso. Mi prende la mano, la sua trema. Le sarà successo
qualcosa, poverina, sembra quasi spaventata da me, dalla mia possibile reazione. Abbassa lo sguardo e solo
adesso mi accorgo che sta piangendo.
Dietro di lei, vedo un ragazzo altro e slanciato, vestito di tutto punto; ha portato dei fiori. Volevo andargli in
contro per dirgli che non li ho ordinati io, ma mio cognato non me l’ha permesso. Ha detto che presto si
accorgerà da solo dell’errore e verrà a riprenderseli. Lo spero proprio, visto che non saprei nemmeno dove
metterli.

Entro ancora una volta in camera da letto. Adesso devo proprio svegliarlo, Tommaso.
Mi avvicino a lui con dolcezza e poggio la mia guancia accanto alla sua, sul cuscino. Gli piace così tanto quando lo faccio.
Una volta mi disse che la cosa più bella dell’essere ancora vivo era aprire gli occhi ogni mattina e poter vedere i miei. Da quella volta cerco sempre di essere presente quando si sveglia.

Mia sorella mi prende per le spalle e cerca di tirarmi via.
«Ma cosa stai facendo?!» le dico.
«Vieni via. Lascialo riposare» mi risponde.
Ora mi ha proprio secato! Lei non sa che questo è il nostro modo di dirci “buongiorno”, il nostro rito.
Tutti mi guardano, di nuovo.
Mi ricompongo e mi siedo accanto a lui, ignorando gli sguardi, i mormorii, le parole dette a mezza bocca.

Tommaso è così pallido oggi. Quando tutta questa gente sarà andata via, gli cucinerò lo spezzatino che gli
piace tanto.
Due uomini in abito elegante parlano con mio cognato, gesticolano, sussurrano tra loro e mi indicano. Li
osservo meglio: stanno indicando Tommaso.
Mia sorella si avvicina di nuovo a me e cerca di tirarmi su.
«Sta tranquilla - mi dice - dobbiamo lasciargli fare il loro lavoro.»
Non capisco cosa stia succedendo.
«Cosa vogliono da lui?» le chiedo confusa.
Mi guardo intorno in cerca di una risposta, ma non c’è nessuno che riesca a sostenere il mio sguardo. Alcuni si voltano dall’altra parte, altri, invece, abbassano la testa e piangono.

Piangono. Perché tutti piangono?

«Non preoccuparti» ripete, tenendomi per le spalle.
Come posso farlo se nessuno mi presta attenzione?!
Mi agito. Più mi dicono di calmarmi e più i miei nervi cedono.
«Andate tutti via! Così sveglierete Tommaso» grido.
Voglio solo che se ne vadano via tutti!
«Lasciateci soli!»
Ma perché non mi ascoltano?!
Io non capisco, io…

Sento mia sorella piegarsi, stremata. Mio cognato la afferra appena in tempo. Io non sono stata così rapida, se fosse stato per me sarebbe caduta e avrebbe potuto farsi davvero male. Lei però non cede, si risolleva e mi prende la mano.
«Sto bene» mi dice affannata, eppure io so che sta mentendo. È sempre stata così, ha sempre pensato prima
a me che a sé stessa.

Solo adesso mi accorgo della bara di legno lucido che fa capolino nella stanza, sorretta dai due uomini in abito scuro e da altri due uomini che mi sembra di conoscere.
«Perché sono qui?» mi rivolgo a mia sorella, che adesso trema più di me.
«C’è un errore - le dico - io sto bene! Guardami!»
Vengo allontanata e ad un tratto capisco che non sono qui per me.

La mia mente si ribella.

Posano il feretro sul letto e con fare deciso sollevano il lenzuolo dal corpo del mio Tommaso.

Come è bello vestito in quel modo. Indossa l’abito buono, quello più elegante che possiede.

D’un tratto lo sollevano.

«Ma cosa fate? Fermi! Gli farete male!» urlo, ma nessuno sembra ascoltarmi.

Lo adagiano piano nella bara.

Adesso lo vedo chiaramente.
Il velo che mi offuscava la vista si è strappato e le orecchie riescono nuovamente a percepire ogni suono.
Non ero pronta a tutto questo, ma chi lo sarebbe?
Osservo i volti atterriti, gli occhi invasi dalle lacrime. Li sento singhiozzare. Qualcuno dice che non è giusto, che non doveva succedere proprio a lui.
Piano piano, silenziosamente, a uno a uno, i presenti si accostano alla salma e porgono gli ultimi saluti.
Trascorrono minuti, forse ore, non saprei dirlo.
La sensazione di vuoto si espande nel mio corpo partendo dallo stomaco; e poi si diffonde inarrestabile.
Prima di perdere completamente me stessa, in questo sprazzo di lucidità, che sento essere l’ultimo, so che è
arrivato il momento di dirgli addio.
Mi muovo lenta, come se l’aria intorno a me fosse diventata più pesante, opprimente; ma forse sono solo io a non essere più padrona dei miei sensi.
Sono vicina, posso scorgere la sua sagoma. Mi sporgo di qualche centimetro e lo vedo.

Amore mio, ti vedo.
Solo ora mi accorgo della tua pelle livida, che sembra di cera. Le mani adagiate sul grembo e gli occhi chiusi.
Nella tua nuova dimora non ci sarà spazio per me.
Non so come farò ad andare avanti adesso che non ci sarà più il tuo sorriso a tenermi compagnia.
Voglio abbracciarti un’ultima volta, poterti stringere a me; desidero soltanto tenerti qui con me ancora un po’, ancora per qualche minuto.
Sei così freddo. Devo riscaldarti.
Chiedo una coperta, ma nessuno si muove.
«Non sentite che ha freddo?!»
Stupidi idioti! Sanno solo piangere e stare immobili come ebeti.
Devo fare qualcosa altrimenti congelerai lì dentro. Ora ti darò la mia felpa, vedrai che starai meglio.

«Zia, ti prego, smettila…» Le mani di mia nipote mi frenano.

«Lasciami stare!» sbraito. La spintono cercando di divincolarmi.
Su di me arriva un’altra persona, poi due, poi tre. Mi bloccano, impediscono ogni mio movimento.

Vogliono portarti via da me.

No! No! No!

«Cosa state facendo? No! Aprite! Aprite subito questa fottuta bara! Non c’è aria lì dentro! Tommaso! Amore
mio! Diglielo anche tu che non ci vuoi andare!»

Sono impotente.
Con le dita sfioro la cassa; mi aggrappo a ogni sporgenza. Graffio la superficie lasciando i segni del mio ultimo gesto disperato. Mi dimeno fino a farmi male. Sento la pelle infiammarsi sotto la presa dei miei familiari.
Riesco a sentire il dolore, eppure non m’importa.

«Mettetelo giù!» strillo.

Userò ogni briciola della mia voce perché tu possa sentirmi. Non voglio lasciarti andare, non posso!

Amore mio, come potrò vivere anche solo un giorno in più sapendo che non sarai qui con me, che non ci sarà
più il tuo sorriso a tenermi compagnia?

«Lasciatemi! Voglio andare con lui!»

Con la coda dell’occhio vedo l’ago penetrarmi nel braccio e una sensazione di bruciore m’invade le vene.
Lentamente, i sensi si affievoliscono, la bocca s’impasta, biascico cose senza senso. Non riesco più a sorreggermi, la testa è troppo pesante.

«Cos… cosa mi avete… fatto?»

Non c’è più nessuno.

Non sento niente.

Tommaso… Amore…
Hanno vinto loro. Ti stanno portando via e io non posso fermarli. Abbiamo combattuto tanto per questo
nostro amore folle e incompreso. Siamo andati contro tutto e tutti pur di restare insieme anche un singolo
giorno in più. Non ti ho mai lasciato solo, né in salute e né in malattia, e non sarà di certo la morte a separarci.
Ti vedo abbandonare questa casa - la nostra casa! - mentre lascio che i miei occhi si chiudano.
Non essere triste. Ti raggiungerò presto e allora nessuno potrà più dividerci.
La consapevolezza è un dolore troppo grande da sopportare e decido che, forse, rifugiarmi nell’incoscienza
è l’unica soluzione per sopravvivere al dolore che mi strazia l’anima.

Ora, però, ho bisogno di dormire.

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