⇝ 6. Pane per i nostri denti
Seduto con le spalle contro al muro, Logan stava lottando disperatamente per non addormentarsi e picchiare la testa contro la spalla del compagno di banco.
Il professor Peterson, di storia, secondo il suo modesto parere, apparteneva a quella schiera di docenti con il raro dono di portarti alle lacrime... per la disperazione!
L'anziano dalla calotta quasi completamente calva – oltre che a indossare tutti i giorni il medesimo paio di jeans chiari e il medesimo maglione blu da cui fuoriusciva una camicia bianca – aveva l'abitudine di parlare, parlare e parlare senza mai fare una sosta fino alla fine dell'ora.
Dulcis in fundo, il professore aveva una caratteristica molto particolare: la sua voce era tremendamente rauca, come se cercasse sempre di conversare con del cibo andato di traverso. Nessuno in classe aveva idea del perché il suo timbro fosse tanto strano quanto insolito, ma molti erano dell'idea che fosse tutta colpa del suo incurabile vizio del fumo; Peterson, infatti, in barba alle precise regole della preside in materia, scendeva in giardino a fumarsi una sigaretta ogni cinquantacinque minuti netti. Non uno di più, non uno di meno.
L'unico piacevole momento in cui a Logan l'insegnante sembrava di compagnia vagamente passabile era quando, di prima mattina, inveiva borbottando contro il sistema di registri elettronici, togliendosi e rimettendosi più volte gli occhiali ovali nel tentativo di capire come ci vedesse meglio.
Dopodiché, le sue lezioni risuonavano alle orecchie del giovane come una tiritera senza senso, un sermone senza fine che più volte l'aveva quasi fatto assopire.
Per qualche curioso motivo, inoltre, Peterson aveva stabilito la regola che a tutti sarebbe toccato leggere un paio di paragrafi a testa durante le sue ore. Seccatura che si prolungava all'inverosimile, dal momento che l'uomo aveva il fastidioso vizio di interrompere il lettore per fare puntualizzazioni sul testo, quasi avesse vissuto lui stesso gli avvenimenti scritti sul libro - cosa che, considerando il suo aspetto canuto e avvizzito, Logan considerava piuttosto probabile.
Ma per fortuna del giovane, il suo momento era lontano; fossilizzata sul povero Theo Dillingham, un compagno affetto da dislessia, la lettura procedeva a rilento.
E adesso, complice la soporifera cantilena del ragazzino e le continue e snervanti interruzioni del prof, Logan era ad un passo dal crollare. Si guardò attorno in cerca di qualcosa di più interessante, ma tutti sembravano presi da altro.
Alle sue spalle Lauren seguiva con gli occhi la lettura fatta ad alta voce, e Sarah, alla destra di lei, scribacchiava appunti freneticamente, alternando frettolosamente matita e evidenziatore per sottolineare. Logan allungò il collo per curiosità, scoprendo che la ragazza alternava la sottolineatura di pagine più avanti a quelle in attenzione, alla scrittura affrettata delle nozioni aggiunte dal professore.
Già, perché Sarah, al contrario suo, adorava Peterson. Lo stimava talmente tanto che, se solo l'uomo avesse avuto una quarantina d'anni in meno, questa se ne sarebbe sicuramente innamorata.
Pensando che disturbarla sarebbe stato un ottimo passatempo, Ross strappò un pezzo di fazzoletto, l'appallottolò, e lo scagliò contro l'amica, che senza darci troppo peso lo spostò dal libro di storia.
Ma la pazienza della ragazza aveva un limite e, al quarto pallino di carta piombatole addosso senza alcuna ragione, sollevò lo sguardo seccato sul ragazzo.
« La vuoi piantare? » gli domandò a voce bassa.
Lauren, accanto a lei, rideva sotto i baffi.
« Chi? Io non ho fatto niente. » infierì Logan.
Sarah fece per rispondergli a tono, ma accortasi che lo straziante turno del povero Theo Dillingham fosse appena terminato e che il professor Peterson avesse già cominciato ad anticipare il contenuto dei due paragrafi successivi, dovette metterci una pietra sopra per poter appuntare ogni parola detta dall'uomo. Un comportamento che Logan non riusciva proprio a concepire e che, pertanto, a suo parere poteva anche venir disturbato.
E quando un altro pallino di carta andò a finirle tra i capelli, Sarah sollevò in fretta lo sguardo torvo dal libro; il passaggio di alcuni studenti in corridoio attirò la sua attenzione e la ragazza ruotò la testa giusto in tempo per vedere il senior misterioso camminare davanti alla porta spalancata.
Che forse la classe per le sue materie letterarie fosse vicina alla sua?
Una domanda che le frullò nel cervello per tutta l'ora e che - tra questa curiosità e il continuo punzecchiare da parte dell'amico - le rese impossibile concentrarsi sulla lezione di storia.
A fine lezione, la prima cosa che fece, fu simulare un'urgenza al bagno solo per poter sbirciare con più tranquillità se il senior fosse per davvero nei paraggi.
Con sommo disappunto della quattordicenne, in corridoio, appena suonata la campanella, non c'era nessuno. Si era mossa troppo in fretta. Ma dopo aver perso un paio di minuti davanti allo specchio dei servizi, dove si era ripetuta più volte che forse un po' di trucco sulle sue guance pallide certo non le avrebbe fatto male, l'androne si era già animato.
Alcuni ragazzi di 2^D, la classe adiacente alla sua durante le ore obbligatorie, diedero prova di grande maturità fischiandole non appena lasciò il bagno, ma Sarah li ignorò tutti; il ragazzo misterioso - poggiato con la schiena al muro e intento a parlare con alcuni compagni - era a non molti metri di distanza dalla sua.
Dall'aula del ragazzo uscì con passo tranquillo la professoressa Morgan, che fece intendere alla mora che il senior frequentasse anch'esso il corso A.
Qualche informazione sciocca, priva di importanza, ma che avevano dato la carica alla giovane: aveva scoperto il suo club, la sezione, l'anno, alcune sue materie opzionali, e sapeva anche che prendeva il suo stesso pullman per il ritorno; adesso però voleva sapere anche il nome.
Si era comportata come una stalker provando addirittura a cercarlo su Facebook attraverso le amicizie in comune, ma conoscendo solo il nome di David Brooks – e avendo costui una lista infinita di contatti – il tutto si era rivelato un'estenuante ricerca di un ago in un pagliaio.
Ma, forse complice il il fatto di essersi finalmente ambientata e di non brancolare nel buio come le prime settimane, scoprì ben presto che il liceo era più piccolo di quel che le era parso inizialmente. Non di rado lo vedeva passeggiare per i corridoi durante i cambi d'ora, prendere un caffè alle macchinette, stazionare davanti la classe di lei – e come ci teneva a sottolineare aveva anche notato di venir osservata – e pranzare con i suoi amici nell'area della mensa occupata da quelli dell'ultimo anno.
Insomma, l'aveva visto più volte negli ultimi giorni, che in tutto il mese precedente.
Sarah si domandava se non avesse passato l'intero Settembre in un persistente stato confusionale, per non averci mai fatto caso.
Lo incrociò anche un martedì pomeriggio, quando era stata mandata malamente da Olivia – che i revisori veterani chiamavano di nascosto "Sergente" – a recuperare un paio di risme di fogli in segreteria. Le si era rivolta con un tono che aveva alterato alquanto l'umore oscillante di Sarah, già frustrata di per sé per la noiosa prospettiva di doversi limitare a prendere ordini da una tiranna e per non aver ritirato prima la propria iscrizione, quando le era stata offerta l'occasione. Ma la sua giornata prese una piega migliore quando la sua nuova fiamma, sempre vestita di nero, la guardò sfilare via con un pesante plico di fogli stretto tra le braccia esili.
Sarah non poteva vantare una prestanza fisica nemmeno vagamente accettabile - e in quel momento stava anche sudando per la fatica e la tensione - ma si sforzò di mantenere l'atteggiamento rilassato di un'atleta. In realtà, le bruciavano gli avambracci e i bicipiti e, quando prese a salire le scale, anche le sue gambe si dimostrarono poco collaborative; ma quel ragazzo, che lei seguiva come una piccola stalker, l'aveva guardata e ciò le diede la forza di saltellare ad ogni gradino come una bambina in mezzo a un prato fiorito.
Sarah giunse al secondo piano con il fiato pesante e, voltandosi indietro e appurando che il senior non avrebbe potuto vederla o sentirla respirare come un cane dopo una corsa, si concesse una fugace pausa poggiando le risme su un banco dove alcune bidelle erano solite sostare durante le ore. Giusto il tempo di rilassare un po' gli arti superiori e riprendersi.
Le porte del corridoio erano tutte aperte e dal loro interno proveniva il tanfo acido del detergente usato per pulizie. Eccetto una.
Una stanza era chiusa, e su di essa c'era un cartello; troppo distante per venir letto e troppo curiosa di sapere cosa recitasse, Sarah si dimenticò momentaneamente dell'arpia che l'attendeva al club di giornalismo. Si avvicinò in fretta ad essa e, una volta letto l'avviso, quasi scoppiò a ridere:
"Non entrare"
Il peggiore divieto scritto nella storia di tutti i divieti. Sarah era proprio curiosa di sapere cos'avesse in mente l'idiota che aveva pensato bene di lasciare così in bella mostra un simile invito. Insomma, tutti sapevano che il modo migliore per tenere alla larga le persone era utilizzare la psicologia inversa.
Senza pensarci due volte tentò inutilmente di abbassare la maniglia, scoprendo che il portone che la sormontava era stato chiuso a chiave. Dapprima confusa sul perché di tanta riservatezza, non le ci volle molto per fare due più due in un secondo momento: secondo piano, serratura chiusa, leggenda indesiderata.
Quella era la stanza da cui Renée si era gettata, non era mai stata tanto sicura. Così come non aveva mai desiderato così tanto di investigare maggiormente sulla vita di una persona ormai defunta.
Di ritorno al club, la terrificante presidentessa del club le strappò il plico dalle braccia ancor prima che Sarah potesse individuarla e porgerglieli.
« Finalmente! Per un attimo ho pensato li stessi fabbricando tu stessa. » frecciò velenosa Olivia.
Sarah non osò replicare e, come al solito, nessuno dei presenti fece notare al Sergente quanto fosse stata sgarbata.
Rimase ad osservare gli altri ragazzi, speranzosa di ricevere altri ordini – magari dettati con più gentilezza – ma nessuno le rivolse la parola. Capendo di essere nel già menzionato periodo di stallo per l'assenza di articoli già pronti, tanto per non rimanere a girarsi i pollici per le due ore successive, Sarah si sedette in disparte per riordinare gli appunti di francese presi in tutta fretta durante l'ultima lezione.
La professoressa Wilson era ancora più frustrata di quello che le era parso di capire i primi giorni di scuola: dopo un mese aveva già preso in antipatia Max e Logan, inveendo contro la loro scarsa attenzione e lagnandosi più volte di sentirsi una fallita con studenti del loro calibro. Delle scenate che avevano sin da subito rallegrato Sarah e che, accompagnate alla voce acuta e infantile della donna, le avevano reso parecchio complicato prenderla sul serio. La Wilson, infatti, quando perdeva le staffe sembrava una bambina viziata che fa i capricci.
Sarah studiò indisturbata per la gran parte del tempo, riuscendo a ripassare con calma tutte le regole grammaticali della medesima lingua che aveva studiato decine di volte nell'arco della sua breve vita.
Solo quando ormai le due ore pomeridiane stavano finendo qualcuno osò interrompere il suo gran daffare: Isaac, terminato di ordinare la scaletta degli articoli, afferrò una sedia e senza nemmeno chiederle il permesso si sedette di fronte a lei. Sarah si domandò se non fosse un vizio dei "veri giornalisti" agire senza curarsi del parere altrui.
Il biondino allungò il collo per sbirciare nel quaderno della ragazza e non riuscendo a leggere bene strizzò gli occhi azzurri.
« Francese? » domandò lui.
Sarah annuì.
« Con il professor Clue? »
« No, con la Wilson. » replicò la ragazza.
« Oh, la schizzata... » borbottò Isaac.
Sarah, divertita da quel soprannome che rispecchiava appieno la personalità nevrotica della docente, ridacchiò portandosi la mano davanti alla bocca.
« Ce l'hai anche tu? » chiese lei, appuntandosi mentalmente di riferire quel nomignolo poco carino a Max, nemico naturale della donna.
« No, grazie al cielo. Lei ha solo il corso A e il corso B. » sospirò di sollievo il biondo.
« E tu di che classe sei? » si informò la mora.
« 2^C. » rispose con semplicità Isaac.
La giovane, vedendo la propria domanda non ricambiata, si affrettò a ricopiare l'ultima frase delle sue traduzioni e, guarda caso, il soggetto della suddetta aveva un nome ben noto a tutti.
Renée.
A Sarah piacque pensare che la Wilson avesse scelto di proposito quel nome, sotto sotto affascinata anche lei dall'alone di mistero che circondava la storia del liceo. In più, leggere il nome del fantasma le riportò alla mente la sua leggenda e la stanza chiusa a chiave, non molto lontana da dove si trovava adesso.
Dopo un primo momento di indecisione, dove Isaac le aveva fatto notare che gliela si leggesse in faccia la voglia di fare una domanda importante, Sarah si decise a sputare il rospo:
« Ho visto una porta chiusa prima di venire qui, e ho sentito delle storie interessanti a proposito di-. »
« A proposito di una certa Renée Forthbay, nevvero? »
Sarah si zittì di colpo, in parte infastidita per essere stata interrotta e in parte imbarazzata per essere stata colta in fallo ancora prima di confessare tutto.
« Questa storia non la smetterà mai di girare. » borbottò divertito il reporter. « E va bene, ti dirò la verità: sì, quella è la famosa camera della leggenda, e ancora sì, è sempre chiusa... » confessò Isaac, come se in due anni avesse ripetuto quel racconto un migliaio di volte.
Sarah lo guardò in silenzio, sentendo che stava per arrivare il classico "ma" che smentisce quanto appena detto. Il suo interlocutore, intuendo che la ragazza avesse capito dell'esistenza di una condizione diversa da quella appena raccontata, sorrise compiaciuto.
« Ma c'è un ma. » disse infatti.
Sarah si raddrizzò sulla sedia, interessata dal continuo della storia.
« C'è sempre qualcuno che afferma di essere riuscito ad entrare e di aver trovato ogni genere di cianfrusaglia: monete d'oro, pettini da donna, strumenti musicali... uno squinternato, anni fa, diceva di aver trovato addirittura lo scheletro di Renée. »
Sarah sollevò il sopracciglio sinistro verso l'alto.
« Tutte stupidaggini, a mio parere. Dopo un anno qui sono arrivato alla teoria che in quella stanza non ci sia assolutamente niente, solo spazzatura come computer vecchi o pile di carta igienica ancora impacchettata. »
La mora lo guardò confusa.
« E allora perché trattarla come se contenesse un'arma di distruzione di massa? »
Il giornalista rise sarcastico.
« Anche lo sgabuzzino con le scope viene tenuto chiuso, ma mica nasconde per forza un cadavere. Se proprio sei curiosa di sapere cosa ci sia oltre quella porta, l'unica soluzione è trovare le chiavi. »
Sarah fiutò chiaramente la sfida.
« E dove sarebbero? »
Il biondo sorrise enigmatico.
« Non ne ho idea, trovale. » terminò il discorso lui.
Avendo capito di non poter più studiare in pace, ripose nello zainetto libri e quaderni e rimase a chiacchierare con il ragazzo, in attesa dello scadere delle due ore. Ma la sua attenzione finì per focalizzarsi più sul Sergente Olivia, che nel frattempo aveva fatto due sfuriate contro l'inettitudine di alcuni revisori, piuttosto che sulle parole di Isaac.
Il forte senso di delusione le rese impossibile ascoltarlo: il suo piccolo piano di veder brillare il proprio nome nella scuola era già affondato. Il Sergente era un ostacolo insormontabile, talmente grosso che l'unica soluzione per poterlo superare era ucciderla. Se non avesse avuto l'opportunità di diventare giornalista – posizione che per forza di cose l'avrebbe portata a dover parlare con quanti più alunni possibile, e quindi venir riconosciuta da tutti – come diamine avrebbe fatto a conquistare il suo podio?!
Eva aveva già vinto. Lei, con la sua capacità di arruffianarsi sempre tutti quanti e i suoi modi di fare espansivi, l'aveva bruciata in partenza. Ma d'altronde doveva aspettarselo, no? Era sempre andata così: Eva, bella e al centro dell'attenzione, e Sarah sempre nascosta dalla sua ombra, considerata solo in caso di test particolarmente complessi.
Il liceo poteva rappresentare per l'aspirante giornalista un'opportunità di riscatto, ma come al solito il tutto si era rivelato un castello di carta.
« Sarah? »
Che delusione, che amarezza, continuava a ripetersi mentalmente. Se quell'espressione fosse rivolta più a se stessa o al suo piano appena demolito, Sarah non era in grado di definirlo con certezza.
« Edith? Margareth? »
Era talmente assorta nei suoi pensieri da non accorgersi che il biondo davanti a lei la stesse chiamando. Isaac, infatti, dopo un primo momento in cui la ragazza non rispondeva al nome di "Sarah", era stato colto dal dubbio di averlo appena confuso e aveva provato a elencarne qualcun altro senza successo. Sarah non dava proprio segni di starlo ad ascoltare; la poveretta stava rimuginando sui suoi fallimenti più recenti.
Allora, stanco di nominare un quarto della Forthbay senza successo, Isaac optò per un più fastidioso - e meno tipico dei suoi modi di fare - schioccare di dita sotto al naso della quattordicenne.
Sarah, come risvegliatasi di colpo da un sonno profondo, sobbalzò sulla sedia e guardò allucinata il giornalista.
« Ti chiami Sarah, sì o no?! » le domandò Isaac, facendole intendere di essere rimasta con la testa tra le nuvole un po' troppo.
La ragazza annuì a disagio, certa di aver appena fatto la figura dell'idiota.
« Allora ci avevo azzeccato subito. » borbottò lui. « Ma diamine, tu non eri più in questa dimensione! Se non ti disturba dirmelo, si può sapere cosa ti stesse assorbendo così tanto? »
Sarah esitò un paio di secondi. Non era sicura di voler dire senza peli sulla lingua ciò che realmente pensava – anche per paura di sembrare una lagna – ma allo stesso tempo voleva togliersi quel peso dalle spalle.
Non era molto in confidenza con Isaac, anche perché dall'inizio dei corsi ci aveva parlato sì e no tre o quattro volte, ma comunque aveva la sensazione di poter confidare in lui. Inoltre, come valutò un attimo prima di aprire bocca, non doveva per forza dirgli tutto.
« Sarà sempre questa la situazione? » chiese Sarah, guardandosi attorno e soffermandosi sui ragazzi rimasti – una ventina – che cincischiavano giocando a carte o facendo i compiti per il giorno dopo. « Dovrò passare l'anno a controllare che nessuno si dimentichi le "h" del verbo avere? »
Sarah si strinse nelle spalle: si sentiva quasi in colpa a confessargli che correggere errori grammaticali altrui non rappresentava esattamente la sua massima aspirazione. Soprattutto perché le era stata data l'opportunità di andarsene e invece che coglierla era rimasta seduta immobile su una sedia, ad osservare studenti più temerari di lei alzarsi e correre a ritirare la propria iscrizione.
Che la sua determinazione e il suo inutile fantasticare fossero dannati!
Isaac la guardò in silenzio e Sarah si domandò se il ragazzo non stesse contando fino a dieci per non mandarla a quel paese. Ma poi il biondo si piegò in avanti con un mezzo sorriso e con voce rassicurante le disse:
« No, non deve andare così per forza. »
Sarah non credette alle sue orecchie: nulla era perduto.
« Davvero? » chiese incredula.
« Davvero. Devi solo riuscire a sorprendere Olivia. »
Oh.
Solo.
Gli angoli delle labbra della quattordicenne si piegarono verso il basso per lo sconforto.
Sarebbe stato più incoraggiante urlarle contro di prendere tutte le sue cose e sparire.
Il trillo acuto della campanella e il conseguente rumore di sedie spostate dagli altri membri le comunicò di doversene andare. E come se ciò non fosse sufficiente, ci pensò lo stesso Isaac a farle intendere che sarebbe stato il caso di sloggiare.
« È suonata, sei libera di tornare a casa ora. »
Una frase che Sarah interpretò senza troppa difficoltà come un gentile "adesso vattene".
« Ci vediamo venerdì! » la salutò il biondo.
Vedendola sparire dietro il muro, Isaac si diresse verso il Sergente Olivia che, mentre con una mano premeva alcuni tasti del proprio portatile, con l'altra giocherelleva con i piercing del suo orecchio sinistro.
Il biondo si sedette con nonchalance su un banco vicino, fissando con un mezzo sorriso la presidentessa.
« Cosa vuoi? » gli domandò Olivia con tono duro.
Isaac non si lasciò intimorire, perfettamente consapevole che il Sergente presentava solo due modalità con cui rivolgersi a qualcuno: arrabbiata e più arrabbiata.
« Buone notizie! » iniziò lui. « Penso di aver trovato pane per i nostri denti. »
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