XXXIII. Mattine aliene - prima parte
Bella gente, spero abbiate passato un bel Natale! Questo capitolo e quello che seguirà sono i miei regali per le feste. Lo dico: cadono limoni. Siamo in pieno NC-17, ma che dico, un genitore americano qui sverrebbe ^^'
Se non vi piacciono scene grafiche di sesso vi invito a saltare e ritornare tra questi lidi fra un paio di aggiornamenti. Cerco sempre di scrivere queste scene non fini a se stesse, per me infatti sono un'occasione preziosa per esplorare la psiche dei personaggi e i loro rapporti interpersonali oltre che divertirmi un po', ma ognuno ha i suoi gusti e leggere scene intime esplicite può giustamente non rientrare nei propri.
Buona lettura a chi rimarrà e buon anno nuovo a tutti!
XXXIII.
Mattine aliene
Quando Ilyas si svegliò, Lukas dormiva ancora. Ci mise un po' a sollevare il suo braccio che lo aveva tenuto stretto tutta la notte. Persino nel sonno la presa dell'uomo era d'acciaio, e sembrava possessiva. Vi si sfilò lentamente, i movimenti cauti, calibrati, attenti a non svegliarlo. L'altro doveva avere il sonno leggero. Lo immaginava non solo per via della sua istruzione militare: da quel che gli aveva raccontato doveva aver imparato a dormire con un occhio sempre aperto sin da ragazzino.
Riuscì infine a districarsi, scorrendo sul baldacchino finché non toccò il pavimento con i piedi e scivolò giù dal materasso. Si infilò nel bagno del corridoio dove aveva fatto la doccia la sera prima, per evitare di usare lo scarico di quello della camera da letto. Nello specchio appeso sopra il lavandino osservò l'alone scuro dei lividi e vi passò sopra le dita. Sapeva dove si trovavano anche senza vederli, ma averli sotto gli occhi lo aiutava a calmare il respiro. Era strano, ma era così.
Si ricordò quando, a diciannove anni, subito dopo essere diventato tenente, passava ore a specchiarsi su qualsiasi superficie riflettente, sempre alla ricerca di qualcosa che gli dicesse che il proprio corpo aveva urlato. Non aveva mai trovato nulla però. A quei tempi la sua pelle era stata intatta, liscia e intonsa, e il suo corpo un efficiente meccanismo di tendini e muscoli che emanava vigore, giovinezza, agilità; nessuna ferita, nessuna ombra sembrava potesse deturparlo o incrinarlo. Trovare ora quei segni così visibili, nonostante vedesse con l'occhio della mente anche la mano che li aveva fatti, gli faceva provare un insensato, morboso quanto si voleva, eppure autentico, senso di sollievo.
Questa volta era reale, davanti ai suoi occhi. Non avrebbe potuto distogliere lo sguardo.
Quando uscì dal bagno, ritornò nella camera da letto e trovò Lukas ancora addormentato, voltato a pancia in giù, con il viso rivolto da un lato e la schiena nuda dove anche il suo lupo sembrava riposare. Il suo respiro era profondo e regolare. Ilyas rimase a guardarlo per un po', poggiato contro lo stipite della porta, prima di inoltrarsi nel corridoio e raggiungere il salotto.
Erano appena le sette di mattina. Il cielo era grigio dietro le finestre, ma non stava piovendo, anzi, c'era pure un avanzo di sole salito con timidezza dall'alba appena sorta. Pareva che Mosca insistesse per portare avanti quella singhiozzante primavera.
Ilyas si affacciò in cucina e si guardò attorno, disorientato. Nella luce fredda ma luminosa che colmava le quattro mura l'appartamento gli appariva più insidioso di una taiga. Era la situazione a renderlo incerto: anomala, non spiacevole, ma di sicuro fuori dai suoi schemi. Non aveva mai passato la notte a casa di qualcuno. In realtà era la prima volta in assoluto che dormiva con qualcuno, senza peraltro farci niente. Sembrava tutto uno strano sogno; forse doveva ancora svegliarsi.
Senza abbandonare la sensazione di trovarsi in un terreno sconosciuto, aprì il frigorifero e frugò con gli occhi finché non adocchiò un cartone di latte. Era ancora mezzo pieno: se ne versò una modesta dose in un bicchiere e lo avvicinò con cautela alle labbra. Il latte a cui era stato abituato, a Darial, era un intruglio d'importazione dell'est che prima di giungere in Caucaso veniva scremato, filtrato, pastorizzato e chissà quale altra schifezza ci facevano i russi; con molta probabilità ci iniettavano pure sieri transgenici pigliati da ratti morti. Più che di latte sapeva di detersivo cagliato. Quello che assaggiò quel giorno invece gli ricordò il latte che gli dava a colazione sua madre da bambino, nella luce calda di mattine vellutate passate troppo presto; aveva un sapore ricco e cremoso, con una nota erbacea che gli accarezzò le papille come la lingua ruvida di un gatto.
Si tratta proprio bene, non c'è che dire. Lo pensò mentre finiva di bere e si leccava le labbra.
Rifocillato, si aggirò nel salotto, esplorando le parti che non aveva ancora visto. Era a piedi nudi e i pantaloni, che gli stavano un po' lunghi, strusciavano sul pavimento. La stoffa aveva l'odore di Lukas, ma ora che ci aveva dormito dentro anche il proprio. Avrebbe potuto passare l'intera giornata così, avvolto da quell'odore e nell'insolito tepore di una casa soltanto all'apparenza fredda. Si sentiva stranamente svogliato quella mattina.
Non c'era granché da esplorare, comunque: l'ambiente era ampio ma spoglio, spartano in quel modo che ricordava una stanza da caserma pur nella sobria eleganza dei rivestimenti. Superò l'isola di divani, solo una parte della mente che indugiava sul ricordo di se stesso schiacciato contro la superficie del tavolino. Si avvicinò alla parete di destra dove correva un mobile a incasso che ospitava un impianto elettronico di qualche tipo, forse uno stereo. Oltre quel mobile, il divano e le poltrone, e il tavolino, non c'erano altri pezzi di arredamento, né soprammobili, né piante e neppure lampade. Il sistema d'illuminazione era incassato a soffitto. Le grandi finestre e il lucernario si occupavano di far entrare tutta la luce di fuori.
Forse perché contrariato di non aver trovato nulla in grado di svelargli qualcosa di più del padrone di casa, si mise a rovistare tra i cassetti del mobile, in barba al rispetto – o meglio indifferenza – che nutriva di solito per i cazzi degli altri.
Le fotografie gli capitarono subito tra le mani. Furono inaspettate come la cena della sera prima e la notte appena passata. Sembravano vecchie, non antiche ma vissute, emananti quell'alone di impenetrabilità che hanno tutte le cose tenute nascoste, al segreto, dove gli altri non possono vederle.
Ebbe un attimo di indugio che durò, per l'appunto, solo un attimo, lo stesso tempo che ci mise a farsi scivolare di dosso qualsiasi scrupolo all'idea di violare la privacy di un altro così bellamente. Osservò le foto con attenzione: erano piene di gente e non trattenne un moto di sorpresa nel riconoscere in quella torma un Lukas più giovane; c'era lui da bambino e da ragazzo, appena adolescente, e poi un po' più grande, forse solo quindici anni; c'era lui coi suoi occhi azzurri e il viso squadrato, quasi irriconoscibile nella morbidezza dell'infanzia, più familiare invece nelle foto che lo ritraevano da adolescente in cui era già alto e ben piantato, con un'ombra di barba e i lineamenti taglienti, i capelli più lunghi di quanto li portava ora, e sorrideva sfacciato, allegro, un po' strafottente e così giovane. Sembrava felice.
Ilyas continuò a osservarlo, lui da piccolo e da ragazzo, sempre in mezzo ad altri bambini e uomini altissimi, imbacuccati in lapti e pellicce di tigre, uomini che avevano tratti e colori diversi ma tutti lo stesso sguardo profondo quanto l'orizzonte nevoso in lontananza. La neve era onnipresente ed era candida, mentre il cielo che a volte si intravedeva negli scatti era così azzurro da ferire lo sguardo.
A un certo punto, stanco di stare in piedi, si sedette sul pavimento davanti al mobile; incrociò le gambe e si sistemò con la piccola pila di fotografie accanto. Attento a non cambiare l'ordine, scorse quei ritagli di carta consunti dal tempo, risalenti a un passato a cui non avrebbe dovuto accedere, ma che non riusciva a smettere di guardare, come una falena attirata dalla fiamma.
Arrivò all'ultima fotografia e si accorse, anche al solo toccarla, che era diversa dalle altre, più recente, dai colori nitidi e la carta lucida, i bordi sgualciti e morbidi però, come se fosse stata maneggiata più volte.
Era la foto di una donna.
Era stata ritratta di profilo, con il busto mezzo girato e il volto rivolto di tre quarti verso l'obiettivo, colta di sorpresa forse, mentre si voltava verso chi aveva approfittato del momento per fotografarla. E il momento era lei che sorrideva, alta e snella, i capelli neri e folti sferzati dal vento, gli occhi dal taglio allungato, il sorriso aperto, spontaneo e abbagliante, bianco come la neve che le volteggiava attorno. Dietro di lei, un luccichio, la vasta distesa di un lago ghiacciato che si confondeva col cielo azzurro e somigliava a un mare di bianche placche scintillanti.
Ilyas rimase a fissarla a lungo, per istanti che scivolarono spersi nella quiete della stanza. La guardava come a cercare una risposta alla domanda che non sapeva se avrebbe dovuto porsi. Lei sembrava molto giovane: portava un fucile in spalla e aveva un'aria selvaggia, con quei capelli sciolti dall'aria indomabile, gli occhi che riverberavano di una schietta fierezza, che guardavano dritti l'obiettivo, la persona che la stava ritraendo. Si rese conto all'improvviso, nel continuare a contemplarla, cosa dovesse aver visto lui quando l'aveva fotografata e perché lo avesse fatto proprio in quell'istante, riuscendo a rubare al tempo la perfetta armonia che creavano la sua figura e il paesaggio incastonato nel ghiaccio. Perché lei sembrava uguale a quel ghiaccio, a quella neve, al cielo dal colore puro e al lago che si dilatava senza fine: era viva anche nel freddo, dura ma non priva di calore; bella e indomata come una terra che sopravvive all'inverno.
Sentì dal corridoio il rumore di una porta che si apriva.
Si rialzò e in fretta raccolse il mucchietto di fotografie per rimetterle al loro posto come un ladro che non deve lasciare nessun indizio. Chiuse il cassetto e raggiunse il divano poco prima che Lukas superasse la soglia.
Anche lui aveva ancora addosso i vestiti con cui aveva dormito, ovvero solo un paio di pantaloni. I suoi tatuaggi rilucevano alla luce del mattino.
«Sei qui» disse sulla soglia. Sembrava sorpreso. «Pensavo te ne fossi andato.»
«No.» Ilyas tirò su le gambe e le incrociò sopra il divano. «Mi sono svegliato prima.»
Per appena mezz'ora, ma ci teneva a farlo notare.
L'altro non ribatté. Lo fissò un altro po', come se volesse metterlo a fuoco, e un lento sorriso gli ornò le labbra.
«Hai già fatto colazione?»
«Ho preso un po' di latte» rispose Ilyas seguendolo con lo sguardo mentre si dirigeva in cucina.
«E non vuoi altro?»
Annuì e si alzò. Attraversò i due gradini che separavano il salotto dalla cucina. L'aria aveva assunto un odore diverso ora, una fragranza penetrante, solida e confortante. Se ne riempì le narici.
«C'è del tè, se ti va.»
«Ok» disse solo, avvicinandosi, mentre Lukas tirava fuori il samovar elettrico.
Non fece in tempo a raggiungere il bancone che il braccio dell'altro scivolò sulla sua vita, ritornò a cingergliela in una presa troppo ben piazzata per sfuggirgli con facilità. Dopo averlo avvolto con entrambe le braccia da dietro, Lukas si chinò e gli passò la lingua dal lato del collo fino all'attaccatura dei capelli, come se lo stesse assaggiando prima di morderlo. Il suo respiro gli riscaldò un orecchio quando gli sussurrò con voce ancora assonnata, roca e vibrante: «Buongiorno.»
«'Giorno» borbottò Ilyas, che ancora non capiva se gli piacessero quelle manifestazioni così plateali di intimità oppure no. Nel dubbio, con guardinga incertezza, vi si lasciava andare.
Quella era un'altra novità per lui, nonché un problema: l'intimità. Il sesso no o almeno non del tutto; era un bisogno che durante l'adolescenza aveva soddisfatto in maniera piuttosto meccanica e semplice, quasi annoiato alle volte dalla facilità con cui l'otteneva, e che più avanti, dopo essere entrato nell'esercito, era diventato un atto da sbrigare in fretta, in sordina, senza lasciarsi coinvolgere, senza permettere a nessuno di anche solo toccarlo più a lungo dello stretto necessario. Condividere qualcosa al di là del sesso... si trattava di una forra sconosciuta, un ambiente alieno come gli era apparso quell'appartamento di prima mattina, pieno di luce ma anche di ombre.
Lukas gli stava facendo scorrere le mani sul ventre nudo, sui fianchi, e ne portò una a sfiorarlo in basso, sull'orlo dei calzoni, mentre lo mordicchiava sotto l'orecchio. Ilyas allora inclinò la testa da un lato per concedergli più spazio e indietreggiò fino a strusciargli il sedere contro l'inguine. Notò, con un certo orgoglio, che l'altro sembrava già pronto per togliersi i pochi vestiti che indossava.
«Già in tiro?» lo provocò e fece per girarsi, ma Lukas, senza staccare le mani dai suoi fianchi, lo spinse contro il bancone, incastrandolo tra il piano di acciaio e il proprio corpo.
Ilyas si poggiò con le mani sul bordo, il ventre che al contatto col metallo freddo rabbrividì, e represse un altro brivido, di piacere e forse un po' di allarme, nel percepire con nitidezza il petto di Lukas appiccicato alla schiena e la sua erezione premuta contro le natiche, già dura, e grande, insistente, che sentiva anche attraverso la stoffa.
Alla fine ci siamo arrivati, pensò e soffiò uno sbuffo per togliersi una ciocca di capelli rimastagli incastrata tra le labbra. Il gran lupo dalla grande resistenza, ah. Lo sapeva lui che non avrebbe resistito ancora per molto.
Non riuscì a non dirlo, mentre iniziava ad allargare le gambe e si inclinava leggermente in avanti: «La tua grande resistenza dov'è finita?»
«Dici a me che parlo troppo, ma tu parli nei momenti più inopportuni» fu il commento di Lukas, un mezzo borbottio, prima di indietreggiare quel tanto che gli servì per far scivolare la mano e arpionargli il cavallo dei pantaloni.
A quel movimento repentino, Ilyas sussultò e strinse con più forza le dita al bordo del bancone. Non riuscì a reprimere un gemito, morso tra i denti come un lamento.
«Quando parlo di "resistenza" intendo molte sfumature del termine, ragazzo.»
La sua voce gli era tornata nell'orecchio, a inumidirgli la pelle e a soffiargli un alito sul collo, mentre la mano scavalcava il bordo dei pantaloni, si infilava sotto i boxer e lo prendeva nel palmo.
Ilyas chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro, le narici che iniziavano a inalare a piene boccate l'odore dell'altro: un afrore maschio, forte e salato, intenso, con una punta asprigna di sudore e una vaga nota di dentifricio alla menta; un odore che, nonostante tutto, anche in quell'appartamento lucido e poco ammobiliato di un anonimo palazzo di Mosca, rimaneva irrimediabilmente, puramente animale.
Occupato com'era a trattenere i gemiti, immerso nella sensazione inebriante dell'avere troppo sangue in un'unica parte del corpo, nemmeno si accorse di quando i pantaloni gli vennero calati giù, scivolando sul pavimento insieme ai boxer. Si ritrovò nudo, lievemente inclinato in avanti col busto, le caviglie incastrate dai calzoni, assediato dal corpo dell'altro che lo tratteneva contro quel bancone dalla superficie lucida. Con una mano Lukas lo stava massaggiando su e giù lungo tutta la lunghezza, con l'altra lo teneva per un fianco, la pressione delle dita che gli avrebbe lasciato dei lividi. La sua bocca continuava a pascolare sul lato del collo di Ilyas, dall'orecchio alla base della nuca, dall'inizio della curvatura della spalla all'omero. Lo morse nello stesso istante in cui intensificò la stretta attorno al suo uccello, andando a solleticarlo con il pollice sulla punta, proprio lì, nel mezzo. Ilyas fremette tra le sue mani.
«Cazzo, scopami» sbottò, non più padrone della propria voce, che infatti sembrava appartenere a qualcun altro. «Che aspetti, le fanfare? Muov...»
In risposta Lukas lo spinse in basso, lo portò a stendersi con la pancia sul bancone. Smise all'improvviso di masturbarlo e Ilyas mugolò una protesta, ma quando provò a raddrizzarsi l'altro esercitò una maggiore pressione per tenerlo disteso contro il ripiano. Con le mani gli strinse i fianchi e con le gambe tornò a premersi contro le sue natiche, che ora erano nude, esposte, increspate di pelle d'oca, come il petto schiacciato contro la superficie d'acciaio. Lukas invece aveva ancora i pantaloni addosso e respirava velocemente; Ilyas avvertì quel fiato accelerato sulla pelle quando lo sentì chinarsi e stampargli un bacio caldo lungo la spina dorsale.
«Devi rilassarti, ragazzo» disse e anche la sua voce sembrava diversa, addensata in sottofondo, più profonda, umida come la lingua che iniziò a incidergli la colonna vertebrale, partendo dalle prime vertebre della nuca e lasciando una scia bagnata lungo il suo lento passaggio.
Ilyas rabbrividì.
«Facile dirlo per te, mica hai un bastardo schiacciato addosso che ti tocca ovunque tranne dove dovrebbe.»
La sua risata se la sentì sulla pelle, piena e senza fiato, e gli tramise un altro brivido. Lukas si lasciò sfuggire un sussurro di quella che doveva essere la sua voce vera: «Dio, sei perfetto.»
Era la prima volta che lo sentiva nominare Dio. Pensava fosse una cosa solo dei nobili.
Lukas continuò a tenerlo piegato contro il bancone, le mani che viaggiavano liberamente lungo il suo corpo, senza che Ilyas opponesse resistenza. Sentiva la sua erezione, racchiusa dalla stoffa tesa dei pantaloni, e non riusciva a smettere di rabbrividire, schiacciato in quel modo dal suo corpo, sotto l'assalto della sua bocca che gli mordicchiava la pelle tra le scapole e scendeva in basso, all'altezza dei lombi, insinuando la lingua nelle fossette sopra le natiche e tracciando il rilievo di ogni singola vertebra finché non risalì ad assaggiargli il sudore della nuca e a morderlo ancora.
Ilyas non trattenne l'ennesimo verso pericolosamente simile a un guaito e ci fu un movimento, tra le loro anche, che lo fece tendere ancora di più. Per un momento temette che sarebbe venuto anche solo così, piegato e ansimante contro quel tavolo. Era assurdo, ma era così eccitato che gli stava facendo male e le gambe gli tremavano, così come il resto del corpo diventato un fascio di tremiti e ansiti soffocati.
«Ti sei svegliato con l'idea di fottermi in cucina?» proseguì a parlare, convinto che se c'era un modo di incentivarlo era proprio continuare a provocarlo. «Prima di colazione? Audace.»
«In realtà l'idea è farlo ovunque» ammise Lukas candidamente, un sospiro nell'orecchio, e poi si raddrizzò, lo riafferrò per i fianchi e li allineò al proprio bacino. «E a te va bene? Dimmi che è quello che vuoi» pretese, quasi un ringhio, e Ilyas emise un suono strangolato che gli proveniva direttamente dalla gola; si contorse e ansimò senza più ritegno perché lo voleva, lo voleva ora, lo voleva subito, lo voleva tutto.
«Dimmelo.»
«Sì, sì, lo voglio» soffiò, inarcandosi, le mani che cercavano un appiglio e urtarono qualcosa, forse lo stesso samovar, che cadde con un tonfo metallico a terra.
Lukas non ci badò. Senza staccarsi da lui, allungò una mano e aprì un cassetto nascosto sotto il bancone, che si azionava con l'impronta delle dita; ci rovistò dentro e tirò fuori qualcosa che Ilyas riuscì a intravedere con la coda dell'occhio.
Gli venne quasi da ridere.
«Tieni il lubrificante dove tieni la kradija? Quanti nascondigli hai così sparsi per casa?»
«Un po'. Li vedrai.»
Lukas svolse il tubetto, si versò una generosa dose sul palmo e, senza più indugi, spinse un dito nel suo corpo in una sola mossa, facendolo sussultare. Ora che non era più schiacciato sul ripiano, Ilyas aveva più libertà di movimento, ma si limitò ad arcuarsi sulla pancia, piegato con tutto il busto sulla superficie d'acciaio, per favorirgli l'entrata. Le dita di Lukas erano calde e rapide e lui non ebbe il tempo di abituarsi al primo dito che arrivò il secondo, entrambi che si muovevano finché non furono dentro fino alle nocche. Mugolò, si tese ancora, i piedi che sfregarono sul pavimento e contro le gambe dell'altro nel tentativo di sfilarsi i pantaloni che gli stavano ancora aggrovigliati alle caviglie. Lukas notò quei movimenti: si abbassò e lo aiutò, gli strappò via i pantaloni di dosso e finalmente si tolse i propri. Il rumore della stoffa che frusciava a terra per un momento fu l'unico a colmare la stanza, insieme ai rantoli trattenuti di Ilyas, a cui seguì lo strapparsi della confezione del preservativo, che doveva essere stato tirato fuori con il lubrificante.
Prima di infilarselo, Lukas lo afferrò per le anche, i palmi caldi sulla pelle, e si poggiò su di lui, contro le sue natiche, il respiro così pesante che Ilyas percepiva i suoi feromoni sin dentro le narici.
«Poi facciamo entrambi tutte le analisi necessarie e non ci sarà più bisogno di niente.»
Lui, piegato e ansante, annuì freneticamente, non sicuro di aver colto tutte le implicazioni di quella frase, ma non gliene fregava niente. In quel momento non gliene fregava più niente di niente, non di quello che sarebbe accaduto tra poche ore, figurarsi nei prossimi giorni. Viveva soltanto il momento e sentirlo contro di sé, il suo sesso duro, bollente, imponente quanto il suo corpo, senza più nessuna barriera, neanche un misero pezzo di stoffa, a separarli, gli fece perdere l'ultimo filamento di controllo che gli era rimasto.
Lukas, nel ritrarsi, si infilò il preservativo e ci spalmò sopra del lubrificante, che si versò anche sulle dita, di nuovo, quelle dita che ritornarono a frizionare l'apertura di Ilyas, prima una, poi due, infine anche una terza; le mosse su e giù, lo penetrò a fondo, sempre più a fondo, lo umettò e premette su punti ancora inesplorati, mentre con l'altra mano scivolava sul suo inguine, lo riprendeva nel palmo, lo stringeva deciso, tiranno, come fosse roba sua che non poteva godere senza chiedere il permesso. Almeno Ilyas ebbe quel pensiero nel piegarsi ancora di più sul bancone, i fianchi levati, il bacino levato, le dita aggrappate al bordo e le gambe che gli tremavano tanto che era convinto che, se non ci fosse stato l'altro dietro di sé, sarebbe caduto a terra. Tremava vistosamente e dovette mordersi le labbra per impedirsi di pregarlo di muoversi, muoversi, muoversi, perché non ce la faceva più, non riusciva più a...
Provò qualcosa di simile alla liberazione, l'euforia dilaniante di un ritorno a casa, quando finalmente Lukas si sostituì alle sue stesse dita e cominciò a entrare dentro di lui, facendosi strada a stoccate vigorose, soverchianti, prima lente e poi via via più potenti e ravvicinate, che lo scossero sin dalla radice dei lombi, gli fecero sbattere le ossa iliache contro il bordo d'acciaio e lo portarono ad annaspare aria come un assettato, preda di tremiti violenti. Come prima, non gli diede il tempo di abituarsi a niente: appena entrato già lo stava scopando con rigore. Nessuna cautela, nessuna moina, nessun "va bene così?", "ti sto facendo male?" o altre fregnacce da teneri beoti che Ilyas non aveva mai sopportato. Per lui il sesso era un placebo crudo, anche violento, piacere che si mischiava sovente al dolore, e aveva sempre cercato nei suoi occasionali partner chi condividesse quella filosofia, qualcuno che, soprattutto se voleva essere la parte attiva, dimostrasse di saper tenergli testa, di meritarsi il diritto al coito.
E diavolo se quello stronzo di russo alla fine ci era riuscito...
Si sentì afferrare per i capelli e fu costretto a sollevarsi quando Lukas gli tirò la testa all'indietro, gliela rovesciò da un lato per mordergli la base del collo e gli sussurrò all'orecchio, la voce incrinata di eccitazione, ridotta a un respiro ansante: «Non azzardarti a venire subito.»
Era un ordine, sembrava uno dei suoi ordini da capo di druzina a cui Ilyas, in un'altra occasione, avrebbe risposto con un pernacchiante "vaffanculo", ma, a parte la letteralità della situazione, non riusciva a parlare. Dalla bocca gli sfuggivano soltanto suoni gementi e arrivò persino a urlare, un urlo soffocato, quando capì che gli era entrato tutto dentro, favorito dal cambio di posizione, avvolgendolo in un calore che ricordava una febbre, un delirio in potenza.
Riuscì a biascicare una maledizione nella propria lingua, qualcosa che l'altro non poteva capire, e abbandonò il capo sulla sua spalla; scoprì la gola e accordò i movimenti ai suoi, cercando di star dietro al ritmo dei colpi e graffiandogli i fianchi con le unghie nel tentativo di raggiungerlo con il braccio piegato all'indietro. Lukas gli girò la testa verso di sé e lo baciò avidamente, come la sera prima e nella sauna, come sempre, per poi risospingerlo a pancia in giù contro il bancone e continuare a fotterlo duro, stabile, il corpo di Ilyas che faceva avanti e indietro per ogni spinta che riceveva. Era profondo, ossessivo, feroce, e lui si sentiva come travolto da una marea, come se non ci fosse più una superficie sotto i suoi piedi e stesse cadendo nel vuoto senza paura della vertigine; sentiva lui, dentro di sé, che si muoveva, prima brutale, poi lento, quasi ondulato; lui che si insinuava dove non pensava ci fosse spazio, gli sussurrava «dio, come sei bello» e «ti volevo così dalla prima volta», si fermava e ricominciava, fino a farlo infine venire, nella sua mano, in un frinire di gemiti.
Ilyas accompagnò l'orgasmo a un altro mezzo urlo e poggiò la fronte sul piano del bancone, si abbandonò sulla superficie, arreso, sfinito, la sensazione di essersi sfilato via dallo scheletro per un attimo palpitante. Lukas lo seguì poco dopo, riversandosi con un ringhio trattenuto tra i denti.
Non si staccò subito. Rimase lì, dentro di lui, tenendolo per i fianchi, la mano che prima lo stringeva che si mise ad accarezzarlo lungo l'osso del bacino. Ilyas strizzò gli occhi, andò alla ricerca di un respiro che sembrava essersi annidato in fondo alla gola, ansimò ancora, stremato, il fiato che si condensava in una patina opaca sull'acciaio. Non riusciva a muoversi, a parlare, a pensare, ma soprattutto non voleva muoversi, né parlare, né pensare. Gli era già capitato in passato, non tante volte ma era capitato, di non voler subito prendere le distanze, e gli era capitato, certo che gli era capitato, di provare un piacere paralizzante che gli aveva scosso il corpo e azzerato qualsiasi pensiero, ma non era mai stato così: non gli era mai sembrato così intenso, così viscerale, così... vincolante.
Passarono alcuni attimi di perfetto silenzio in cui i respiri di entrambi parvero assestarsi. Ilyas sentì la mano di Lukas tra i capelli, incredibilmente leggera.
«Ehi, ci sei?»
Annuì, sfregando il mento contro il piano laminato, e provò a sollevarsi. Non era tanto facile perché l'altro ancora non ne voleva sapere di levarsi da lui e Ilyas non voleva che si levasse, voleva ancora sentirlo, per poco, sentire l'impronta di quel piacere mischiato al dolore piantata in profondità, chissà dove non lo sapeva nemmeno lui. Rinunciò ben presto al proposito di raddrizzarsi e tornò disteso sul ripiano, il respiro che gli usciva a lenti tratti dalla bocca e le membra intorpidite, finché Lukas non si scostò provocandogli un breve fremito e un sospiro affaticato.
«Stanco?» gli chiese quando lo aiutò ad alzarsi.
Ilyas avrebbe rifiutato con sdegno il suo aiuto non fosse stato che le gambe gli tremavano ancora e non era sicuro di riuscire a reggersi in piedi.
«No» mentì e lo occhieggiò da sotto le palpebre, appoggiato con una mano al bancone. «Anche questo hai imparato in Siberia, a scopare così, come se...»
Non sapeva come dirlo.
Il sorriso di Lukas era una lama. «Si imparano un sacco di cose in Siberia, un giorno dovresti venirci.»
«Ci sono già stato.»
«Dovresti venirci con me, questo intendevo.»
Come quella donna? era la domanda che Ilyas riuscì ancora una volta a non proferire.
Tanto impegnato a non cedere alla curiosità e a trovare un qualche tipo di equilibrio ora che aveva riassunto una posizione eretta, che quasi non fece caso al fatto che, dopo la loro prima scopata, l'altro già gli stava proponendo di andare in Siberia con lui. Forse anche quel dettaglio faceva parte dello straniante sogno iniziato dalla sera prima.
Cercarono di fare un po' di ordine o meglio: Lukas si mise a pulire le macchie lasciate in giro e a rimettere a posto le cose cadute a terra – non solo il samovar; a quanto pareva Ilyas aveva rovesciato almeno un altro paio di oggetti mentre stava disteso su quel bancone. Lui approfittò del suo affaccendarsi per appoggiarsi al bordo del piano da cucina, le mani che ancora cercavano un appiglio senza farsi notare. L'ipotesi di rinfilarsi i boxer e i pantaloni neanche gli passò per l'anticamera del cervello. Sapeva che non era in grado al momento di compiere un'operazione tanto elaborata.
Fissava Lukas che si muoveva nello spazio ristretto tra il bancone e la cucina, disinvolto, nudo e a suo agio, i tatuaggi che splendevano nella luce ora più calda e luminosa che aveva invaso l'ambiente.
Lo fissava come quella fotografia, alla ricerca di una risposta a una domanda che stentava a porsi.
«Dicevi sul serio prima, riguardo la colazione?» gli chiese.
Lukas aveva appena buttato il preservativo nella spazzatura. Si voltò a guardarlo. «Certo. Cosa vuoi?»
«Prima dovrei farmi una doccia» mormorò lui, osservandosi il corpo lucido di sudore, impregnato degli umori e degli odori dell'altro, dove già stavano cominciando a delinearsi degli aloni sui fianchi, sul ventre e sulle cosce, e non voleva pensare allo stato in cui dovevano trovarsi le sue parti posteriori.
Sarebbero sorti altri lividi, presto, ma non se ne preoccupò. Sarebbero stati diversi da quelli che già aveva – molto diversi.
Si stava per sfiorare il collo quando la risposta di Lukas lo bloccò con la mano a mezz'aria.
«Non farti la doccia. Non ancora.»
«Perché?» domandò, spaesato, ma subito un lampo di consapevolezza gli fece sgranare gli occhi. «Non avrai ancora voglia?»
«A volte ho la sensazione, anzi il fondato sospetto, che non mi ascolti quando parlo. Cosa ho appena detto a proposito delle mille sfumature della parola "resistenza"?»
Ilyas emise uno sbuffo sonoro. Non rispose, strinse però più forte le dita al bordo del bancone. Non ci sopravviveva a quella mattina, quello era poco ma sicuro.
To be continued...
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