XXXI. Obbedienza
Come sempre quando compare un certo personaggio (Jagun Bezbòznij), devo mettere un warning grande quanto la Russia: ATTENZIONE, verso la fine di questo capitolo, che pubblico intero perché più breve, c'è una scena parecchio violenta. Stavolta grafica, niente di alluso, anzi.
Da saltare se non si è a proprio agio con rapporti abusivi e in generale da maneggiare con cura.
(Vi giuro che una gioia esiste anche per Ilyas; il prossimo capitolo si intitolerà "Libertà" proprio in opposizione a questo. Non disperate!)
XXXIII.
Obbedienza
Era tornato alla SAVKA.
Prima di presentarsi davanti all'ingresso Ilyas aveva girato nei dintorni per almeno due ore, nel tentativo di scaricare la tensione. Non che ci fosse molto da vedere nei pressi di Čaadaevka Penza: era una base militare come ne aveva visto infinite nella sua esistenza. Gli ricordava il Comando di Darial coi suoi edifici alti e minacciosi, i reticolati di filo spinato e gli onnipresenti cartelli con scritto: "Zona militare – Divieto di accesso – Sorveglianza armata".
Nel suo gironzolare aveva dovuto fermarsi un paio di volte e trarre dei profondi respiri. Si era accorto che le gambe gli tremavano leggermente come gli era capitato fin troppe volte in passato.
Sono qui solo per una risposta, si disse nel porgere i documenti al soldato ai controlli d'entrata. Per darla e per riceverla. Solo questo.
«Ha un appuntamento?» gli chiese l'uomo dopo averlo squadrato con una certa diffidenza.
Ilyas assentì e si lasciò perquisire. Gli requisirono tutte le armi com'era prassi, ma aveva nascosto una lama tra i capelli. Si trattava di una lama sottilissima, fatta non di metallo bensì di ossidiana, ricavata da uno dei suoi pugnali. L'aveva lavorata sulla cote fino a darle la forma di un fermaglio che aveva nascosto nella nuca, sotto la coda arrotolata. Quando passò sotto il pannello di scansione rimase fermo e immobile per alcuni secondi angosciosi. Il macchinario non registrò nulla e nessuno dei soldati all'ingresso notò il fermaglio. Riuscì ad entrare.
«Il generale adesso sta supervisionando gli addestramenti» lo informò un giovane sottoufficiale dalla divisa inamidata. «La porto nel suo uffi...»
«È nel campo di addestramento? Andiamo lì?»
L'altro parve esitare, ma alla fine acconsentì a scortarlo fuori. Mentre lo seguiva, Ilyas registrò ogni dettaglio dell'ambiente circostante. Per essere il Comando Generale dello Stato Maggiore dell'esercito federale russo non si trattava di un complesso molto ampio. Dopo gli uffici amministrativi, con le loro strutture d'acciaio e vetro, si estendeva un agglomerato di edifici prefabbricati per non più di dieci ettari. Il colore dominante era il bianco, lo stesso delle divise di ordinanza dei soldati, che aveva l'effetto di far riverberare la luce del sole, anche il misero bagliore che filtrava quel giorno. Sul lato sinistro della carreggiata scorse la porta carraia di una base dell'aeronautica, sovrastata da una struttura in cemento armato e una garitta dove sventolava la bandiera della Federazione.
Jagun Bezbòznij era nel campo di addestramento e stava supervisionando i soldati come un tempo faceva con le reclute e i soldati della Legione. Ilyas ricordava quel periodo, fatto perlopiù di marce a piedi per oltre cinquanta chilometri alle cinque di mattina, in assetto regolamentare con mitragliatrice e zaino affardellato, sulle montagne e in terreni più accidentati. In quei giorni c'era sempre un qualche tipo di prova da affrontare, da quella per annegamento, quando li gettavano in una piscina con polsi e caviglie legati, a quelle informali, non previste da nessun protocollo, che i loro istruttori si inventavano per testare il loro coraggio – ne avevano avuto uno, agli inizi, che gli aveva ordinato di bere vodka da un teschio ricavato dal cranio di un nemico sconfitto. A lui sia quelle prove sia le estenuanti esercitazioni fisiche non avevano mai spaventato, né debilitato. Fosse stato convinto che ci fosse uno scopo in quel che stava facendo forse sarebbe diventato un soldato perfetto.
Avvertì la presenza di Shanna appena mise piede nel campo.
Si trovava in un angolo, lontana dai soldati, sdraiata supina a crogiolarsi sotto il poco sole rimasto nel cielo. Aveva gli occhi chiusi che aprì in un lampo verde-oro nel vederlo entrare.
Quando si avvicinò a loro – non era legata; non lo era mai quando il padrone svolgeva i suoi compiti militari –, il giovane soldato al fianco di Ilyas si irrigidì e indietreggiò di scatto, mentre lui accolse le effusioni vibranti dell'animale e si chinò sui talloni per accarezzarla dietro le orecchie.
«Ehi, bella.»
Con le dita si spinse fino al suo collo, massaggiandolo per tutta la lunghezza con movimenti rotatori, morbidi e precisi. Lei parve apprezzare: inclinò il capo, emise di nuovo quel verso così simile al miagolio di un gatto sonnacchioso e si sporse per leccargli una guancia. La sua lingua ruvida gli lasciò una traccia tiepida sulla pelle.
«La... la tocchi?» Il sottoufficiale, passato velocemente al "tu" che si usava tra commilitoni, lo guardava con occhi spalancati. «Non l'ho mai vista farsi toccare da nessuno, solo dal generale.»
«Lo so. L'ho conosciuta tanto tempo fa.»
Erano passati quasi nove anni. Quanti anni aveva Shanna adesso? Quanto ancora sarebbe vissuta?
«Eri nella Legione?» Il soldato si era fatto tutto a un tratto incuriosito. Continuava a spostare lo sguardo da lui all'animale. «Non hai paura di lei?»
Hai paura... ancora?
«Non ho mai avuto paura di lei.»
Ilyas guardava gli occhi del leopardo, quegli occhi verdi che parevano una pianura imbevuta dell'oro del tramonto dietro le montagne del Caucaso. Shanna li socchiuse e si sporse di nuovo, le narici vibranti e le orecchie basse. Infilò il muso nel suo avambraccio, lo annusò fino al collo come se volesse imprimersi il suo odore. Non parlava e a lui sembrava di capirla lo stesso, più di quanto gli accadesse con la maggior parte degli esseri umani.
«Generale, signore.»
Un'ombra si era profilata. Ilyas si raddrizzò lentamente, ma non imitò il soldato nel saluto militare. Si limitò a mormorare un atono «Generale».
«Aveva un appuntamento, signore, ma è venuto prima, mi sono permesso di portarlo qui visto che...»
«Ho finito. Puoi andare» disse solo Bezbòznij, la voce bassissima che eppure venne recepita dal soldato che si congedò schizzando via verso l'uscita. Anche gli altri, che avevano appena terminato la sessione di addestramento, stavano rientrando.
«Andiamo nel mio ufficio» lo invitò – ordinò –, ma Ilyas non si mosse.
Si guardò attorno nell'ampio cortile che si stava svuotando, gli edifici contro il cielo sbiadito dal crepuscolo imminente.
«Possiamo rimanere qui?»
L'uomo annuì, un cenno asciutto. «Vieni.»
Indicò uno dei prefabbricati e Ilyas lo seguì, imitato da Shanna. Il leopardo gli camminava dietro con la lunga coda che sferzava l'aria; la sua euforia era così palpabile da percepirsi netta quanto un odore. Quando si fermarono nello spazio vuoto tra due prefabbricati, in un vicolo che dava sul campo, gli si strusciò tra le gambe e continuò ad annusarlo come se ancora non fosse convinta della sua presenza.
Bezbòznij abbassò gli occhi su di lei. «Shanna.»
Fu appena un sussurro, ma sufficiente. Il felino si staccò da Ilyas e, dopo un altro ordine sussurrato, andò a mettersi composto in fondo al vicolo.
«Sono venuto per parlare di... della sua proposta» iniziò lui, quasi rincorrendo un fiato che sentiva teso alla stregua di ogni muscolo del corpo.
L'altro lo guardò, in silenzio e in attesa.
«Ho deciso...»
«Sei ferito?»
«... come?»
«La tua gamba. Ti è successo qualcosa?»
Ilyas si ritrovò a deglutire. «No.»
Era guarito da giorni e ormai camminava normalmente, ma si vedeva che all'altro non era sfuggita l'impercettibile rigidità con cui ancora posava il piede destro a terra – non gli sfuggiva mai nulla; anche in questo non era cambiato negli anni.
«Cosa hai deciso?»
«No» disse, una parola che gli precipitò quasi dalla bocca, brevissima, come se avesse perso il respiro nell'esatto istante in cui l'aveva pronunciata. «Non torno. Ho deciso di non tornare nell'esercito.»
Seguì un breve silenzio in cui Bezbòznij non disse nulla, lo fissava e basta, senza espressione alcuna o almeno niente che Ilyas riuscisse a decifrare.
«Va bene.»
Lo disse lentamente, come se non fosse un'affermazione, bensì una domanda a cui Ilyas avrebbe dovuto rispondere. Lui però non aveva risposte. Non ne aveva mai avute nei suoi confronti: gli sembrava da sempre, da ancor prima della fine dell'addestramento forse, che ogni loro interazione viaggiasse su una lunghezza d'onda sconosciuta, inconoscibile, in una lingua che entrambi faticavano a padroneggiare. Pensò in quel momento che quel "va bene" fosse il preludio a qualcosa di terribile, che ora l'altro sarebbe balzato in avanti e lo avrebbe punito per aver rifiutato con tanto sprezzo la sua mano tesa, e calcolò allora, in fretta, il tempo che ci avrebbe messo a sfilarsi il fermaglio dai capelli e la forza che sarebbe stata necessaria per accoltellarlo. Non ce ne sarebbe voluta troppa, ma avrebbe dovuto agire con prontezza, puntando da subito a un'area vitale, una vena sul collo o l'arteria della gamba. Come in passato, quando si era ritrovato a combattere contro di lui nel Limbo, senza sapere cosa sarebbe venuto dopo.
Chissà cosa avrebbe fatto Shanna in una situazione simile, nella realtà: se sarebbe stata a guardare o l'avrebbe attaccato per difendere il suo padrone.
Passarono lunghi secondi angosciosi e nessuno dei due parlò, né si mosse.
«Perché...» riprese Ilyas. «Perché mi ha proposto di tornare?»
«Sono informazioni riservate.»
«Non mi riferisco a quel che potrebbe accadere a Mosca, il conflitto a cui accennava.» Che fosse legato a ciò che era successo ad Aisha? Se l'era chiesto in quei giorni. «Per quale motivo mi ha chiesto di tornare dopo che me ne sono andato?»
«Non è importante.»
Quella risposta, il tono freddo e definitivo, ebbero un effetto inaspettato su di lui: gli attizzarono una scintilla di rabbia, autentica quanto feroce.
«No» ripeté e sentì quella rabbia premergli contro la gola, stringergliela in una morsa. «È importante. Stavolta io... questa volta devo... voglio sapere perché.»
Non ci credette nemmeno lui di averlo detto, eppure quelle parole erano state pronunciate, scaturite da chissà quale limbo dentro di sé. Rimbalzarono nel silenzio del vicolo, raggiunsero l'uomo che se ne stava fermo come il suo leopardo, un'ombra acquattata nel buio. Ilyas lo vide distogliere lo sguardo e puntarlo verso il campo di addestramento. Sembrava assorto, chiuso in un pensiero intenso, alla ricerca forse di una via d'uscita, una porta nascosta o addirittura una verità.
«Vuoi sapere perché?»
Nello stesso istante in cui rispondeva che, sì, certo, voleva – doveva – saperlo, Ilyas sentì il panico ghermirgli il petto. Aveva commesso un errore. Era venuto lì con l'intenzione di stanarlo, ma aveva posto una domanda di cui non avrebbe mai potuto sostenere la risposta. Era la porta che non avrebbe dovuto aprire, la pietra che non avrebbe dovuto sollevare. Perché sapeva cosa c'era sotto; aveva sempre saputo, in realtà, l'orribile verità dagli occhi albini che viveva là sotto.
«Presto ci sarà una guerra» iniziò il generale, gli occhi sempre puntati al campo, la voce bassa, lontana. «Di quelle come non ne accadevano da tempo, con una reale posta in gioco e un nemico imprevedibile e sconosciuto. Non potrà essere combattuta dietro un computer e non sarà giusta perché nessuna guerra lo è, ma sarà forse di nuovo nobile, di nuovo vera. Se penso a tutti quelli che moriranno, non provo niente. Ma se penso a te...» Tornò a guardarlo, lentamente. «Se penso che tu potresti morire, che qualcuno che non sia io possa ucciderti... non riesco a sopportarlo.»
Scese il silenzio, più profondo e inquieto. Sopra le loro teste il sole aveva cominciato a scendere la china dell'orizzonte, scivolando in un crepuscolo scuro quanto un livido, e il vento soffiava più forte in un fischio stridulo e prolungato.
«Vuoi dire qualcosa?»
Vuoi dire qualcosa? era la domanda che gli aveva posto anche il giorno della Simulazione, con lo stesso tono pacato. Come se fosse un permesso che stava chiedendo, che Ilyas avrebbe potuto accordargli col silenzio: il permesso di schiacciarlo, di dominarlo, di fotterlo per quelle che erano sembrate ore. Il permesso infine di ucciderlo quando aveva stretto le mani e tolto anche l'ultimo residuo d'aria dalla sua gola. Non era mai successo, non davvero, non nella realtà, ma era successo; gli era entrato dentro, se non nel corpo, nelle pieghe delle mente; si era iniettato come un siero, giorno dopo giorno, anno dopo anno, colonizzando ogni suo pensiero, abitando i suoi incubi, contaminando la sua vita, un'invasione invisibile che non era mai riuscito a individuare, nominare, capire.
«Quel giorno... cosa pensavi sarebbe successo?»
Ilyas ritornò a parlare dopo aver trovato, non sapeva come, uno scampolo di voce, e lasciò perdere il "voi". In quel momento si dimenticò del "voi", del posto dove si trovavano, di sua sorella, dei Vosikiev, di quella guerra misteriosa – di tutto.
«Quel giorno, il giorno della Simulazione... pensavi che sarebbe stato come con Shanna: prima la frusta, poi l'obbedienza? Che sarebbe stato come con un animale?»
«Perché, tu sei del tutto umano?»
Un'altra domanda, ancora pacata.
Ilyas sbarrò gli occhi.
Jagun Bezbòznij sorrise. O perlomeno sembrò sorridere: le sue labbra si curvarono in una piega sottile, accentuando il rilievo della cicatrice che gli correva sulla guancia. Come in passato, quando Ilyas lo aveva visto sorridere nel Limbo e aveva provato l'istinto di un animale in trappola, l'uomo inchiodò lo sguardo nel suo e lui ne fu inghiottito. Riconobbe l'ombra che si agitava nelle sue iridi, una frenesia inaspettata e come un alone di divertimento che lo addolorava. I suoi occhi però erano specchi. Era impossibile leggervi dentro, ne era sempre stato convinto: non c'era fenditura che permettesse di svelare cosa nascondevano. Erano specchi e riflettevano la sua paura.
«Te l'ho già detto: so cosa hai fatto. So cosa sei.»
A quel punto Ilyas fece qualcosa di stupido come cercare di scappare. Nel momento in cui si accorse del cambio di atmosfera, come se qualcuno gli avesse puntato una pistola alla fronte, in mezzo alle sopracciglia, là dove si avverte il pericolo, indietreggiò di un passo. Bastò il germe del gesto per far scattare il generale. Dimezzò la distanza che li separava in una sola falcata, lo costrinse ad addossarsi contro il muro e lo intrappolò tra la superficie e il proprio corpo. Ilyas aveva già chiuso la mano sul fermaglio e stava per piantarglielo nel collo quando l'altro lo intercettò in tempo. Gli bloccò il polso contro la parete e lui, nel risentirsi le sue mani addosso come non accadeva da anni, quasi si mise a urlare.
Sbatté la testa contro il muro, non abbastanza forte da farsi male, ma producendo un suono sordo che riecheggiò nel vicolo. Shanna si rialzò di scatto. Li fissava, tesa, un ringhio trattenuto tra i denti.
«Fermo» ordinò Bezbòznij e si volse verso il leopardo sibilando lo stesso ordine: «Ferma.»
Shanna ritornò seduta, incerta e ancora tesa; aveva il pelo dritto e lo sguardo vigile, ma non si muoveva.
«Lasciami» fece Ilyas, la voce che gli sobbalzava in gola e tremava, tremava, quanto il resto del corpo, stretto dall'assedio dell'altro, ritornato vicino come nei suoi incubi. «Lascia...»
«Cosa credevi, di essere riuscito a fuggire da solo? Che bastasse far saltare tutto in aria per cancellare ogni traccia? Quando mi sono accorto che avevi usato la mia piastra di identificazione e ho visto quel che avevi fatto, cosa avevano fatto a tua sorella, ho ucciso chiunque avrebbe potuto parlare e cancellato tutti i vostri dati. Come se non foste mai esistiti. Pensi che sareste riusciti a scappare senza che nessuno vi desse la caccia, altrimenti?»
Ilyas provò a divincolarsi: allontanò il volto da quello dell'altro, incombente, così vicino da vedergli tutti i pori, e si scostò per trovare lo spazio per trasformarsi e attaccarlo. Allora Bezbòznij si sporse in avanti, strinse la presa sul suo polso e con l'altra mano gli avvolse il collo, gli occhi fermi, scuri, dalle pupille dilatate che inghiottivano tutta l'iride, e in quel gesto c'era un atto di guerra e un atto di carne.
«Ti ho detto di stare fermo.»
Ilyas si paralizzò.
Era contro il muro, con un braccio teso in alto, il polso intrappolato e le dita strette attorno alla lama di ossidiana. L'altro braccio era ricaduto lungo il fianco, inerte. Si sentiva tutto il corpo rivestito di piombo, come se non gli appartenesse più, tranne il punto dove la sua vita batteva contro il palmo dell'altro.
«Bene» lo sentì dire. «Lascia il coltello.»
Non si mosse.
«Puoi provare a uccidermi, ma pensi di riuscire a fuggire dopo? O che lei riesca a salvarsi? Una volta di nuovo nell'occhio del radar non è più possibile tornare nell'ombra.»
Le dita di Ilyas si allentarono. Il tintinnio dell'arma caduta a terra riverberò nel vicolo.
«Bravo.» Un cenno di approvazione, secco e asciutto. Gli lasciò andare il polso, ma non spostò la mano dal suo collo. «Molto bravo.»
Gliel'aveva detto anche anni prima, mentre gli accarezzava i capelli dopo che lui aveva abbassato lo sguardo per la prima volta.
Molto bravo...
Per quanto gli permetteva la posizione, Ilyas girò il capo, posò la guancia destra contro il muro e guardò il campo vuoto che sembrava ora lontanissimo, ritagliato tra gli angoli degli edifici. Il crepuscolo stava scendendo, le ombre si erano allungate. Shanna era in mezzo a esse, una presenza nervosa, inquieta; aveva cominciato a camminare avanti e indietro nel vicolo e li guardava coi suoi occhi di opale che rilucevano anche nel buio. Li guardava, ma non si avvicinava.
«Cosa sai?» chiese, la voce ridotta a un sospiro faticoso. «Di me e di...»
«Non so cosa siete esattamente. Tu non sei niente che abbia mai visto prima.»
Ilyas chiuse gli occhi. Il cuore gli palpitava nel petto a un ritmo talmente rapido che gli sembrava che ogni respiro non fosse che un lungo, immenso battito.
«Cosa vuoi?»
Invece di rispondere, o forse proprio per rispondergli, l'altro strinse la presa attorno alla sua gola, non forte, quel tanto che bastò a farlo irrigidire e inghiottire un respiro scomposto. Aveva l'aria di un avvertimento, pacato come le sue domande che non prevedevano risposta. Ilyas restò immobile contro il muro, la testa girata da un lato, gli occhi chiusi, il fiato intrappolato tra i denti. Non si mosse neanche quando lo sentì infilare le dita della mano libera tra i capelli; li strattonò piano per fargli reclinare il capo ed esporre maggiormente il collo. Scese con i polpastrelli sul lato del suo viso, lo percorse adagio, dallo zigomo alla guancia, alle labbra, e più giù, sotto il mento, fino all'avvallamento della clavicola, là dove il primo bottone della camicia sotto la giacca si era allentato, forse per via della colluttazione di prima. Ilyas sentiva il tepore di quelle dita dure di calli, sorprendentemente leggere e calde, come un fiato che indugiava sulla pelle, il battito d'ali di un uccello notturno. Continuava a tenere gli occhi chiusi, serrati come le labbra, acutamente consapevole della pressione di una mano estranea sul collo, del palmo che lo copriva dall'incavo soprasternale allo spigolo della mandibola.
Era tornato in quel luogo dalla fisionomia distorta, un paesaggio dei suoi incubi. E non era cambiato niente, era tutto come allora, con quelle mani che lo toccavano e lo dominavano, quel cappio soffocante attorno al collo, e anche lui era rimasto lo stesso, ancora così debole e impotente, senza voce, senza forze, incastrato nella tagliola del cacciatore che si era arrogato diritto di vita e di morte su di lui, un diritto che si era preso molto tempo prima, quando gli aveva tolto tutto...
«Vuoi questo?» riuscì a domandare, ansante. «Vuoi...»
«Sei un esemplare magnifico» dichiarò allora Jagun Bezbòznij con semplicità. La sua voce era controllata fino all'ultima sillaba, ma il suo fiato gli batteva nell'orecchio ed era pesante, era caldo, fremente; gli inumidiva tutto il lato del viso. «L'ho pensato dalla prima volta, quando ancora non sapevo cosa fossi, quando ti ho visto e ho capito che dovevo...» La mano che non lo stava trattenendo si era abbassata sul suo petto, le dita erano scivolate lungo il torace, gli stavano afferrando un lembo della camicia per tirarlo su, infilarsi sotto la stoffa. «... romperti.»
Sentì accadere qualcosa dentro di sé. Ilyas perse qualcosa – la ragione? la sanità mentale? –, qualunque cosa fosse la sentì distaccarsi con il boato di una cannonata. Improvvisamente non seppe più cosa stava succedendo. Era sicuro fino a un attimo prima di essere contro un muro, rinchiuso in una bolla di vibrante impotenza, con un uomo che lo teneva appuntato per la gola e gli sussurrava parole indicibili all'orecchio. La voce dell'uomo, la sua mano stretta al collo, la sua sagoma imponente e il cielo nudo sopra di loro... tutto perse consistenza. Percepì solo la paura che montava, montava inesorabile, insieme alla rabbia che gli sfrigolava nelle viscere e alle urla che aveva sepolto in fondo al petto.
Doveva urlare – urlare. Doveva andarsene via da lì, riprendere a respirare.
«No!» gridò e gli diede un colpo, un colpo vero, come non aveva più pensato di potersi permettere dopo la Simulazione; lo colpì al petto e cominciò a tempestarlo di pugni per spingerlo via, i gesti convulsi e frenetici, ogni scampolo di razionalità ormai sprofondato sotto i piedi.
Forse per la sorpresa l'altro indietreggiò, perse la presa su di lui, ma non durò a lungo. Gli fu di nuovo addosso e, indifferente ai suoi colpi, strinse le dita attorno alla sua gola, strinse e strinse fino a ostruire il passaggio dell'aria. Ilyas annaspò e prese a dimenarsi come un ossesso; sentiva la vita, la propria vita, che si dibatteva in singulti laceranti e si vide come dall'alto, con gli occhi sbarrati, agonizzanti nel panico; si vide specchiato nello sguardo senza fondo dell'uomo che lo stava soffocando, mentre rincorreva un respiro sempre più faticoso ed esangue, l'aria che si sfilacciava in una nebulosa imprendibile e tutto attorno a lui diventava nero, un cerchio fluorescente che si espandeva, sfrigolante nel cielo vuoto.
In quegli attimi spasmodici ebbe l'impressione che qualcosa gli premesse contro la bocca, un tepore duro e umido che indugiò sulle labbra e scivolò in basso, contro la pelle. Non capì cosa fosse, impegnato com'era a morire.
Tuttavia, non morì. L'aria tornò a invadergli la gola, a riempirgli i polmoni. Gli sfuggì un singulto strozzato e subito dopo un colpo di tosse. Si rovesciò su un fianco e tossì violentemente per lunghi secondi, il corpo che tremava, raggomitolato a terra, come se fosse appena passato sotto un torchio. Non ricordava come ci fosse finito, a terra. Forse era caduto. Non ricordava nemmeno quello.
Mentre si torceva sul fianco, scosso da quei violenti e rauchi colpi di tosse, si accorse di avere le labbra insanguinate, ma nel passarci sopra la lingua non rintracciò nessuna ferita. Non era il suo sangue.
Ci fu un basso sibilo.
Sgranando gli occhi, piano, come se gli costasse fatica anche quel semplice movimento, intravide Shanna che indugiava a pochi passi da lui. I suoi occhi erano l'unica cosa che si muoveva di lei, quegli occhi vividi, dalle pupille agitate come insetti intrappolati in una ragnatela vischiosa. Lo stava guardando, desiderosa di avvicinarsi, ma così tesa e incerta da aver assunto una rigidità innaturale.
Una volta finito di tossire, fece del suo meglio per raddrizzarsi. Ritrovò il muro su cui poggiare la schiena e vi si accasciò con tutto il peso, sfinito e ansimante, il petto che si sollevava e si abbassava lentamente nel tentativo di regolarizzare l'afflusso di ossigeno. Sollevò una mano e allora Shanna zampettò verso di lui. Lo leccò tra le dita, si sporse a sfregargli il muso contro il collo, un alito caldo sulla pelle, e posò il capo sul suo grembo, accoccolandosi contro di lui come se gli stesse facendo da scudo. Ilyas la vide voltarsi e scoprire i denti senza emettere suono. Lui si portò le dita alla gola, come se potesse percepire attraverso i polpastrelli il rilievo delle impronte della mano che gliela aveva stretta, e trovò infine la forza di alzare gli occhi e guardare dove stava guardando il leopardo.
Jagun Bezbòznij era in piedi davanti a lui. Si era ripulito la bocca, ma gli era rimasta una traccia rossa a un angolo delle labbra, il segno tangibile del morso che Ilyas gli aveva dato mentre agonizzava per la mancanza d'aria. E se non fosse bastata quella vista come prova che l'aveva morso, che aveva avuto la sua bocca schiacciata contro la propria a trafugargli anche l'ultima stilla di respiro, c'era pur sempre l'odore: l'odore del suo sangue che si levava, pieno e intenso, lo stesso che si sentiva in bocca. Aveva la sua ferita disegnata sulle labbra.
Come con Lukas, pensò e fu una scheggia di pensiero inaspettata che si infranse contro la guaina che gli aveva avvolto il corpo e la mente.
Non era come con Lukas. Era così diverso... tutto così paurosamente diverso...
«Se non torni nell'esercito, ti uccideranno» iniziò Bezbòznij, con calma.
Sembrava tornato se stesso, l'ufficiale rigido e inappuntabile, dal volto immoto, la voce piana e il modo in cui si teneva a distanza, come un animale a riposo. Ilyas invece si sentiva a pezzi e non riusciva a distogliere lo sguardo dalla macchia di sangue che gli deturpava le labbra.
«Chi?» chiese, avvertendo lui stesso quanto la propria voce suonasse rauca. «Di chi parli?»
«Loro.» L'uomo indicò con il capo il campo e gli edifici attorno. «L'esercito e la Mafiya.»
«La Mafiya?»
«Non tutti, solo alcuni.»
«I Novikh?»
Nessuna risposta.
«Cosa sanno?»
«Sospettano che esistano degli esseri dalle capacità speciali, metà uomini, metà animali, e vogliono stanarli. Vogliamo stanarli. Non ci vorrà molto prima che accada. Può darsi anzi che saranno proprio questi esseri a rivelarsi e attaccare per primi.»
A Ilyas girava la testa. Si chiese se fosse in procinto di svenire per l'eccesso di ossigeno che si sentiva frullare tra le tempie.
«E dovrei tornare nell'esercito...»
«Tra i ranghi saresti al sicuro, nessuno lo scoprirebbe.»
«Perché mi copriresti tu come hai fatto tutto questo tempo?»
Nel fare quella domanda fissò lo sguardo nel suo, dal basso verso l'alto, e di nuovo si vide specchiato nelle sue pupille: si vide come lo vedeva lui, abbandonato contro il muro, la giacca aperta e la camicia in disordine, le labbra macchiate dal suo sangue, il collo marchiato dalle sue dita, là dove si dovevano già star formando i primi lividi.
Rabbrividì.
«Nessuno potrà ucciderti» continuò Bezbòznij.
«Giusto, potrai farlo solo tu.»
Di nuovo silenzio.
«E potrai anche fottermi a quel punto» proseguì Ilyas, che ormai non governava più la voce così come i tremiti del corpo. «Magari mi ucciderai proprio dopo avermi sbattuto troppo forte, come hai fatto otto anni fa. Come vorresti fare ora.» Distolse lo sguardo, lo lasciò scivolare oltre le sue spalle e respirò pesantemente. «Non è questo che vuoi? Che lasci la forra per entrare in una gabbia dove l'unica protezione, e l'unico pericolo, sei tu?»
Come con lei, pensò senza dirlo. Esattamente come hai fatto con lei.
Shanna era tornata immobile, il capo posato sopra il suo ventre, il calore del corpo che si espandeva anche attraverso i vestiti, una fiamma tiepida e guizzante. Ilyas affondò le dita nella sua pelliccia quasi a cercare un appiglio.
«Hai detto che hai preso la tua decisione» osservò il generale.
Non aveva avuto nessuna reazione, neanche una minima contrazione delle labbra, di fronte a quel che aveva appena detto.
«Mia sorella...»
«Lei non c'entra.»
«L'hai tirata fuori tu. Sei tu che hai detto...»
«Anche se non torni, non dirò niente né di lei, né di te. Se è questo che ti preoccupa puoi stare tranquillo.»
Ilyas si irrigidì contro il muro, non gli credette. Non poteva crederci. Non dopo essere stato quasi strangolato, né dopo quel che gli aveva sentito dire. Non aveva senso.
«Non capisco» disse scrutandolo da sotto le ciocche che gli erano cadute davanti agli occhi. «Se non hai intenzione di dire niente perché...»
«Mi hai chiesto perché ti volessi qui e ti ho risposto. Per quanto riguarda il resto: volevo vedere cosa avresti fatto se avessi avuto una scelta, una scelta vera, e me l'hai fatto vedere.»
Ilyas si tese quando lo vide fare un passo avanti, ma l'altro non si avvicinò. Continuava a guardarlo, dall'alto, lui che lo fissava a sua volta, dal basso, e qualcosa li avvolse in quel momento, mentre si guardavano dritti, quel qualcosa che era solo loro, che li legava in modo irreparabile ed era terribile, pensarlo, pauroso, capirlo, e morboso, accettarlo.
«È la tua decisione, ne prendo atto. Vorrà dire che, quando ci incontreremo nella forra la prossima volta, ognuno di noi saprà per cosa sta combattendo.»
Fu con quelle parole che si congedò. Si diresse verso il campo, il passo elastico e marziale, e scomparve dal vicolo nel giro di pochi secondi. Shanna non si mosse.
All'inizio Ilyas non se ne accorse.
Poi il tremito cominciò, salì lungo i nervi, si iniettò nelle ossa; le labbra furono le prime a rivelare una contrazione come l'improvviso serpeggiare elettrico su un diagramma nero. Un senso di soffocamento lo invase. Si sentì caldo in tutto il corpo, la gola che si chiudeva, di nuovo, si faceva nodo, groppo, mentre iniziava a tremare convulsamente, senza piangere, come se l'Ufficio Sopravvivenza del cervello avesse decretato divieto tassativo di spreco di liquidi.
Se ne restò lì a tremare, poggiato contro il muro di un vicolo vuoto e buio, per quella che gli parve un'eternità e forse era davvero così: forse era da sempre che tremava, non aveva mai smesso, solo che non l'aveva visto; quella paura, quella rabbia, il senso di soffocamento che provava, era tutto rimasto sotto la cenere dell'inconscio, nella figura di quel ragazzo schiacciato a terra, un frammento di memoria che gli si era conficcato sotto la pelle, un ricordo che non sanguinava più eppure si dilatava e si allargava come i cerchi di un sasso buttato in un fiume, come fasci di fotoni invisibili.
Avrebbe voluto urlare, ma gli sembrava di non esserne in grado. Dalle labbra gli sfuggì uno strano verso, un singhiozzo rauco che attirò l'attenzione di Shanna, ancora distesa su di lui. L'animale alzò il capo, lo scrutò coi suoi occhi verdi dalle pupille verticali. Si sporse e gli passò la lingua calda e ruvida sulla guancia, carezzandogli col fiato il collo. Ilyas non si ritrasse. Con una mano tremante le accarezzò il capo, mentre con l'altra si sfregò via il sangue dalle labbra, il sangue del padrone, il marchio che gli aveva lasciato prima di permettergli di vivere.
Non sapeva cosa fare, ma di una cosa era certo: non avrebbe accettato quel marchio. Non sarebbe rimasto nell'ombra, al sicuro dalla guerra che si profilava, se questo significava essere in debito. Avrebbe agito e in futuro, se mai l'altro avesse prevalso, avrebbe scelto la morte, l'ebbrezza devastante dell'arbitrio, piuttosto che la resa – l'obbedienza.
Infilò le dita dietro le orecchie di Shanna, avvicinò la fronte alla sua, si immerse nel suo tepore e nel suo odore finché non smise di tremare. Emise allora il primo, pieno, vero respiro da quando si era risvegliato con quel sangue sulle labbra.
Non sapeva cosa fare, ma sapeva da chi andare. Almeno questo, ora, lo sapeva benissimo.
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