XXVII. In visita - seconda parte
Sognò un vecchio sogno.
Non hai paura?
L'uomo lo stava guardando. Era giovane, ma appariva più grande della sua età e aveva quell'espressione fredda, dura e distante che rendeva il suo sguardo remoto come montagne lontane.
«Nossignore» rispose Ilyas e raddrizzò le spalle, alzò il mento. Voleva mostrarsi sicuro più che audace e contava sul proprio odore, che stava rilasciando per farsi riconoscere dal leopardo femmina. Quest'ultima lo aveva occhieggiato con diffidenza da quando lo aveva visto entrare nel campo di addestramento a quell'ora, l'ora del rancio, vuoto; ora, legata alla sua catena, lo guardava tesa, in allerta, con le orecchie appiattite, gli occhi fissi su di lui.
Era bellissima.
Ogni tanto si muoveva, quanto le permetteva la catena; sollevava la testa e si girava, offrendo la visione della sua schiena flessuosa. La sua sembrava una posa, come una dimostrazione intenzionale, persino affettata, di bellezza e potenza. Era imponente, ma i suoi arti erano sottili e smilzi, la figura soffusa di un'agile grazia. Il manto di un'ocra chiaro era ricoperto di macchie nere e i suoi occhi erano puri e intensi, un misto d'ambra dorata e metallo verde.
Ilyas era stato abituato ai lupi della sua terra, maestosi anche nella fame, ma quel leopardo possedeva un'eleganza, una bellezza sinuosa e letale, che non aveva mai visto. Da quando il nuovo istruttore era arrivato ne parlavano tutti, quasi più dell'istruttore stesso, che aveva stupito giusto per l'età – così giovane, designato maggiore colonnello a neanche trent'anni – e per il fatto che si fosse portato dietro un esemplare di leopardo femmina come fosse il suo animale da compagnia. Ilyas aveva sentito che l'aveva catturata in Siberia in una delle zone più irraggiungibili della Russia. Al Comando circolava in quei giorni una storia un po' inquietante: che la madre di quel leopardo avesse sbranato la figlia appena nata del maggiore colonnello e che fosse proprio per questo motivo che l'uomo aveva lasciato la Siberia e aveva raggiunto il "buco dell'inferno", come i soldati della Legione chiamavano quel pezzo di terra al confine col Daghestan e la Cecenia.
Lui non sapeva se dar credito a quelle voci, ma di certo nessun ufficiale dell'esercito federale russo avrebbe chiesto il trasferimento nel Caucaso se non perché stava scappando da qualcosa, anche solo da un fantasma. Non poteva fare a meno di pensarlo.
«Ha un nome, signore?»
«Shanna» fu la risposta atona. Subito dopo venne una domanda: «Il tuo qual è, recluta?»
«Ilyas Hasani» rispose subito lui. «Matricola numero trecentoventiquattro seicentotrentadue. Signore.»
Detestava mostrarsi ossequioso coi superiori, adottare tutti quegli appellativi altisonanti, ma non aveva molto margine di manovra in quell'ambito, non da quando era entrato al campo reclute del Comando della Legione di Darial; non poteva definirsi neanche l'ultima ruota del carro, forse a malapena un ingranaggio, e mordeva il freno, infatti, come un cavallo recalcitrante alla staffa. Comunque quel tipo, l'ennesimo russo capitato in quelle lande con la presunzione di poterle domare, era appena arrivato, Ilyas non lo conosceva: non c'era motivo di mostrarsi ostili.
Jagun Bezbòznij, si chiamava. Un cognome di origini tatare, a quanto aveva capito. Significava più o meno "senza Dio".
«Quanti anni ha, signore?»
«Appena uno.»
«È piccola.»
«È abbastanza grande per non essere più considerata una cucciola.»
La voce dell'uomo non aveva inflessioni di sorta. Era pacata, monocorde, liscia come il suo volto altero e immobile. Ilyas fu spinto a guardarlo meglio. Biondo, alto e imponente, gli zigomi sporgenti, la bocca larga dalle labbra sottili in apparenza inadatta a moti spontanei come un sorriso. Un russo come tanti. Il suo sguardo era scuro e profondo però, adombrato da palpebre pesanti e lievemente oblique; uno sguardo duro macchiato da un alone predace. Aveva una cicatrice che gli correva sul lato destro del viso, lungo tutta la guancia; sembrava il segno lasciato dalle unghie di una belva.
Bezbòznij. Origini tatare. Siberia. Chissà, forse era stata proprio l'Asia dei suoi antenati a lasciargli quell'impronta selvaggia nelle iridi, che neanche la rigidità dell'espressione riusciva a celare. L'Asia, certo, che aveva prodotto su quei tratti un effetto acre, come fa il miele quando intorbida un vino puro. Seguendo quel corso di pensieri, a Ilyas parve di vedere affiorare il nomade sotto il soldato, l'animale sotto l'uomo.
Si sentì sorridere allora, preda di una strana aspettativa, un senso di complicità che non si era aspettato.
«Non avevo mai visto un animale simile. Pantere sì, persino un leopardo una volta, nelle montagne. Un leopardo delle nevi come questo però no. Non sono mai stato in Siberia. Signore.»
Il russo volse lo sguardo verso Shanna, che se ne stava seduta, i muscoli tesi e il pelo dritto.
«Ne sono rimasti pochi. Come i lupi.»
«Qualche lupo l'ho visto. Molto tempo fa.»
«Da dove vieni?»
«Un villaggio della Svanezia, dall'altra parte del Danubio. Un posto dimenticato.» Non specificò da chi. Non si trattenne: «È davvero bella. Come ha fatto a catturarla?»
Era curioso, non poteva negarlo. E poi voleva capire quanto ci fosse di vero in quelle voci sul suo conto. Qualcuno, sempre nel plotone, lo aveva chiamato il Domatore.
«Non è stato difficile con lei. Era ancora più piccola di adesso.» L'uomo continuava a guardare l'animale. «Sua madre invece era un esemplare adulto, libero, feroce: ha lottato fino all'ultimo.»
A Ilyas parve di percepire una nota ammirata nel suo tono piatto e ciò lo sorprese ancora di più. Se davvero la madre di quel leopardo gli aveva ucciso la figlia, non ne avrebbe parlato in quel modo, no? Non poteva essere vero...
«Non è qui anche lei?»
«No.»
Una risposta secca, asciutta. Il maggiore colonnello tornò a guardarlo e Ilyas non distolse lo sguardo.
Forse avrebbe potuto ingraziarselo, pensò in quel momento. Benché detestasse certi atteggiamenti da leccachiappe tanto in voga tra i suoi compagni, non gli avrebbe fatto male conquistare il favore di un superiore, per una volta. Anche di uno appena arrivato e ancora giovane, ma che sembrava già destinato a una brillante carriera tra i ranghi dell'esercito. Avrebbe potuto sfruttare la propria naturale abilità nel trattare gli animali. Se voleva diventare tenente e far uscire lui e Aisha da quel buco di fogna...
«Posso?» chiese e, senza attendere risposta, si avvicinò al leopardo.
Con un sibilo morso tra le fauci, Shanna si levò. Non smetteva di scrutarlo con quegli occhi che a Ilyas ricordavano le verdi pianure della sua terra. Il suo padrone non disse nulla, si limitò a stringere più forte la catena con cui la tratteneva. Doveva starsi chiedendo cosa volesse fare: di sicuro nessuno si era mai avvicinato così tanto alla sua belva – nessuno ne aveva avuto il coraggio. Ilyas poteva subodorare la curiosità dell'uomo, mista alla diffidenza e alla confusione, nello stesso modo in cui percepiva l'allerta dell'animale. Non erano poi così diversi, uomini e animali, aveva sempre pensato. E quel tipo, chissà perché, gli sembrava più simile al suo leopardo di quanto lo fosse ai suoi colleghi ufficiali.
Si chinò, in ginocchio davanti a Shanna, e scoprì i denti. Lei indietreggiò, le orecchie ritte e immobili, la tensione che trasudava da tutti i pori. Emise un breve ringhio, basso però, pacato come una domanda.
Lui era più forte di lei. Aveva diciotto anni e si era trasformato in vulkulaki la prima volta a undici anni; era un lupo adulto da tempo. E lei lo sapeva. Riusciva a vedere quello che gli uomini non vedevano. Ilyas si sentì quasi inebriato da quella connessione invisibile, il cuore che iniziava a battergli forte e l'euforia che gli scorreva nelle vene. Non gli era mai capitato di condividere qualcosa di simile con un altro animale, neanche coi rari lupi che aveva incontrato nei boschi attorno al suo villaggio, quando era solo un bambino. E non gli era mai capitato di vedere una fiera del genere: selvatica anche se domata, splendida e letale, forse una delle creature più pericolose al mondo e al tempo stesso una delle più fragili; un simbolo vivente di ciò che di più intatto ancora esisteva in natura e che lo stava guardando dritto negli occhi, riflettendosi nei suoi, riconoscendolo.
Serrò i denti ed emise un sibilo simile a un ringhio, non abbastanza alto da essere scambiato per un verso di minaccia ma sufficientemente energico per passare come un avviso, un basso e piano avviso che le facesse capire chi tra loro era l'animale alpha.
Shanna indietreggiò di un altro passo infatti, confusa, forse persino spaventata in un primo momento. Dalle fauci le scaturì un suono che era quasi un miagolio. I leopardi non miagolano, si disse lui. Non come i gatti almeno. Forse i leopardi delle nevi erano diversi, ma come in tutti i grandi felini quel verso assomigliava più a un soffio prolungato, dalla tonalità profonda e rauca, che non invogliava certo a chinarsi per prenderli in braccio. Tuttavia, non gli sarebbe dispiaciuto allungare la mano e accarezzarla dietro le orecchie per farle capire che non doveva avere paura di lui.
Col tempo, pensò. Col tempo la conquisterò.
Si sentì di nuovo sorridere.
Il maggiore colonnello lo guardava.
Consapevole di essersi estraniato, troppo preso dal leopardo, Ilyas si rialzò. Si spolverò la polvere dai calzoni e si rivolse al suo istruttore con un mezzo sorriso stiracchiato tra le labbra.
«I miei genitori, sa, cacciavano animali selvatici. Non sempre li uccidevano, a volte dovevano tenerli in vita per venderli. Ho imparato a prendermene cura, a domarli.»
Era una panzana bella e buona, ma poteva reggere. Sperava che reggesse. Forse aveva fatto il passo più lungo della gamba nell'approcciarsi così direttamente al leopardo, ma certo quell'uomo non avrebbe mai sospettato...
«Mm» si limitò a dire. Lo fissava. C'era qualcosa di diverso nei suoi occhi, una densità che per un attimo li aveva resi più scuri, attraversati da correnti indecifrabili. Benché cercasse di nasconderlo, era sorpreso e la curiosità gli spianava il viso. «L'hai imparato?»
«Più o meno.» Ilyas si portò una mano dietro la nuca e lanciò un'altra occhiata a Shanna, tornata seduta al suo posto. «Ho capito cosa gli serve per obbedire.»
«Che cosa?»
«Rispetto.»
L'altro annuì. I suoi occhi ora non erano più distanti: sembravano diventati come quelli del suo leopardo, duri e intensi, profondi quanto la steppa.
«Rispetto e paura. È questo ciò che serve per domare un animale, anche il più libero e feroce. Solo se provano rispetto e paura arriva l'obbedienza.»
«Finché non ti saltano alla gola» sfuggì a Ilyas, quasi un sussurro, guidato forse dalla strana malia che lo aveva avvolto nel vedere quel leopardo maestoso legato a una catena, nelle mani dell'uomo che doveva averne ucciso la madre.
Jagun Bezbòznij fece un altro cenno d'accordo col capo. Non smetteva di fissarlo, il nero inchiostro delle pupille che aveva inghiottito tutta l'iride. Anche la sua voce fu appena un sussurro.
Già, finché non ti saltano alla gola...
***
«Ilyas?»
Un soffitto bianco e screpolato. Fu tutto quel vide prima che si delineasse, impreciso quanto una malinconia, un viso. Il viso di una donna.
Mosse le labbra: «Mam...»
«Ilyas, sei sveglio?»
«... Aisha?»
Sgranò gli occhi e riacquistò consapevolezza della realtà che lo circondava, nonché del proprio corpo. Si raddrizzò a fatica, issandosi sui gomiti; Aisha si affrettò a mettergli un cuscino tra la schiena e la testiera del letto. Si sporse a toccargli la fronte.
«Non hai la febbre, ma il dottore ha detto niente sforzi.»
Lui si lasciò sfuggire una smorfia. Evitò di dire cosa se ne faceva delle raccomandazioni di quei medici da strapazzo al soldo dei Vosikiev.
«Ti sei addormentato all'improvviso.» Aisha si era girata e stava trafficando con qualcosa. «Come ti senti? Sei stanco? Vuoi che...»
«Sto bene, mi sono solo appisolato.»
Guardò con occhio critico la gamba, ancora avvolta da bende, e il piede ingessato. A sentire i medici ci avrebbe messo poco a guarire grazie al potere di sua sorella – erano vulkulaki anche loro; erano tutti vulkulaki in quell'ospedale –, però doveva stare a riposo in quei giorni. Lo avevano ricoverato e si erano rifiutati di farlo uscire finché non gli avessero tolto il gesso.
«Stavi sognando?»
«Come?»
«Ti ho sentito che borbottavi qualcosa nel sonno, ma non ho capito cosa. Sognavi?»
«Un vecchio sogno. Un ricordo» mormorò lui e il suo sguardo cadde sulle pieghe del lenzuolo. Era bianco come il resto della stanza, un pallore che trasmetteva un principio di nausea. «C'è da mangiare?»
«Ecco.»
Aisha ritornò ad armeggiare. Lui si distese contro il cuscino, chiuse gli occhi, il respiro che gli usciva a lenti tratti dalla bocca. Non voleva pensare a niente. Gli dava fastidio anche solo pensare quei giorni...
«Fra poco passa Sasha. Mi ha scritto che viene per le quattro. Ecco, prendi questo. Non è granché, ma ho chiesto che aggiungessero un po' di paprika.»
Ilyas la ringraziò e si sistemò in modo che lei potesse passargli il tavolino di plastica con il vassoio.
Si sentiva tanto un vecchio moribondo, avvolto dalla panacea delle cure di sua sorella e dei medici. La vergogna era cocente, gli fremeva ancora sotto la pelle: la vergogna per essersi fatto sbatacchiare in quel modo dal primo lupo qualunque. Persino Sasha Kirayev era riuscito a rimanere in piedi, quello lì che puzzava ancora di cucciolo. A lui invece cosa succedeva? Per poco non gli staccavano una gamba.
Mangiò il piatto del giorno, una zuppa verdastra che quanto meno aveva sapore grazie alla paprika. Lo fece con aria assente, un occhio distratto alla finestra dove si intravedeva il cielo d'amianto di Mosca. Aisha lo osservava.
«Sei sicuro di stare bene?»
«Sto bene. Non c'è bisogno che ti preoccupi, né che usi il tuo potere.»
«Guarisci più in fretta così. L'ha detto anche il dottore.»
«Non mi interessa. Non usare il tuo potere.»
Si concentrò sulla zuppa, se la sorbì tutta in pochi minuti, accompagnando ogni cucchiaiata a un morso di pane nero.
«C'è altro?»
«No.» Se anche Aisha fu sorpresa da quella voracità, non lo diede a vedere. «Se vuoi vado a chiedere qualcos'altro, tanto devo scendere per prendere le ultime anali...»
Venne interrotta da un discreto bussare.
«Kirayev?» chiese lui. «Di già?»
«Non credo» disse lei prima di alzarsi e dirigersi verso la porta.
Ilyas si distese contro il cuscino, si abbandonò quasi sulle coltri. Ebbe la tentazione di chiudere gli occhi, ma non voleva addormentarsi. Non voleva sognare...
«Oh, grazie di essere passato» sentì sua sorella dire a qualcuno sulla soglia della stanza.
Riconobbe subito la voce in risposta.
«Figurati, ho portato quello che mi hai chiesto. No, la pistola no. I pazienti non possono tenere armi e poi perché dovrebbe averne bisogno? Questa è zona franca.»
Ilyas si raddrizzò come se lo avessero pungolato con la punta di una frusta.
«Che ci fai qui?» sbottò a vedere Lukas entrare.
L'altro teneva un borsone in spalla, Aisha gli stava dicendo qualcosa. Fu lei a rispondere alla sua domanda: «Gli ho chiesto io di portare le tue cose. Ti servono un paio di cambi in più e...»
«Non c'era bisogno» si affrettò a dire Ilyas, ormai una risposta automatica ogni volta che se lo vedeva davanti. Vide di raddrizzarsi e di imprimere alla voce una nota dura e secca. Non aveva idea di come apparisse in quel momento – non c'era uno specchio in quella stanza –; sperava vivamente di non sembrare uno straccio sbattuto come si sentiva. «Non ho bisogno di...»
Lukas lo ignorò, come faceva sempre. «Lo metto qua» fece rivolto ad Aisha. «E, ah, ho portato anche questa.» Aveva una busta in mano, con del cibo e una bottiglia di vodka. Quest'ultima la sventolò con un lieve sogghigno. «Per le emergenze.»
«Non ho fame» borbottò Ilyas.
Aisha gli scoccò un'occhiata, le sopracciglia corrugate. Tornò a Lukas. «Non si può portare una pistola, ma si può portare la vodka?»
«Si vede che non siete abituati agli ospedali russi.» L'uomo si volse a guardarlo. «Come ti senti?»
«Bene» rispose lui in tono neutro, diviso tra la voglia di intimargli di levarsi dalle palle e quella di chiedergli di passargli la vodka. «Puoi anche andare adesso.»
La fronte di Aisha si aggrondò di linee severe. Si rivolse a Lukas. «Grazie molte.»
«Figurati. Metto anche queste qui, anzi, no, la vodka è meglio metterla in un posto più discreto.»
Mentre si aggirava nella stanza alla ricerca di un nascondiglio, Aisha si avvicinò al letto e pizzicò la mano di Ilyas.
«Ehi!»
«Non fare il maleducato» lo ammonì lei a bassa voce. «Perché non riesci a essere un po' gentile?»
Lui sbuffò, ma non ribatté. Lukas intanto aveva trovato il posto dove mettere la vodka: dietro il termostato che in quei giorni era spento.
«Più che altro per nasconderla agli infermieri» disse e si avvicinò al letto, le mani in tasca. Portava il suo giubbotto di pelle, appuntato sulle spalle e aperto sul petto. Si muoveva con scioltezza, agile ed elastico; non sembrava affatto un uomo a cui avessero sparato tre giorni prima.
Fu Aisha a chiedere quello che Ilyas non gli avrebbe mai chiesto: «Stai bene?»
«Sì, tutto a posto, sono passato proprio per un'altra visita di controllo. Gli aggiustaossa qui hanno insistito.» Palesò una mezza smorfia, poi si volse a guardare Ilyas. «Tu sei sicuro di stare bene? Quando ti tolgono il gesso?»
Lui distolse lo sguardo. «Fra una settimana.»
«Forse qualche giorno in più» precisò Aisha. «È comunque tutto sotto controllo, la ferita non si è infettata anche grazie a come gliel'hai medicata. Ancora grazie, davvero.»
Rieccola che lo ringraziava. Stava diventando ripetitiva. Forse si sentiva in dovere visto che Ilyas non aveva scucito parola in tal senso – e avrebbe continuato a non farlo. Ci mancava solo che allentasse la guardia proprio ora che si sentiva così vulnerabile, mentre quello lì se ne andava a zonzo spensierato dopo essersi beccato una pallottola in pancia. Che poi ancora non aveva capito come avesse fatto a non subire contraccolpi. Era il suo potere resistere anche alle ferite d'arma da fuoco? Avere quella forza mostruosa? Avrebbe voluto chiederglielo, ma questo avrebbe significato parlarci, riprendendo il filo che avevano interrotto dopo il pranzo in quel posto frequentato da vulkulaki: parlarci di nuovo gli avrebbe scoperto il fianco, lo sapeva; lo avrebbe reso visibile come un bersaglio mobile, privo di difese, anche il più becero atteggiamento di sicurezza.
«Quando hai la visita?»
«Fra mezz'ora.»
«Ah.» Aisha lo fissò, pensierosa. Allungò lo sguardo verso Ilyas. «Vuoi... puoi rimanere qui nel frattempo? Mentre scendo giù a prendere le sue analisi.»
Ilyas scattò per protestare – ma per chi lo aveva preso, un bambino che aveva bisogno della balia? –, quando Lukas rispose un semplice "sì" e si andò a prendere una sedia.
«Non c'è bisog...» iniziò lui, ma venne interrotto da sua sorella, dalla sua voce calma e netta.
«Un attimo, Ilyas. Sii accomodante per una volta. Torno subito.»
E senza specificare perché non potesse lasciarlo da solo, girò i tacchi e sparì dietro la porta.
Rimasero soli.
Bene, pensò lui, rabbuiato. E ora che mi invento?
«Te ne puoi anche andare» ribadì tanto per mettere in chiaro – cosa però non lo sapeva nemmeno lui.
L'altro ancora una volta lo ignorò. «Come va davvero? Hai la faccia di uno zombie.»
«Grazie. Si vede che è questione di "costituzione".»
A quel punto Lukas sorrise, uno dei suoi sorrisi taglienti. «Vuoi sapere perché non ho avuto niente? Puoi chiedermelo come una persona normale.»
«Se pensi che mi interes...»
«È il mio potere: ho una grande resistenza fisica.»
Suo malgrado, Ilyas non si trattenne dal chiedergli: «In che senso? Ti sparano e non senti nulla?»
«No, sento tutto, ma non ho ripercussioni. In realtà dipende da dove mi sparano, dove in generale mi colpiscono. Ti ricordi la volta che mi hai fracassato quel posacenere in testa?»
E chi se la scordava quella volta. Aveva pensato di averlo fatto fuori, per un momento.
«Ecco, non è stata una carezza, ma a un altro avrebbe messo k.o., come questa pallottola.» Si indicò il basso ventre. Si era seduto al lato del letto, leggermente piegato in avanti. Non c'era luce dietro la finestra, ma i suoi occhi erano azzurri e intensi quanto un cielo scoperto. «Sento il dolore, ma molto di meno rispetto a una persona normale e, se il colpo non è mortale, il mio corpo si riprende subito. Questione di costituzione, appunto, o meglio: resistenza.»
«Resistenza» ripeté Ilyas, atono. Lo scrutò a fondo. «E questa resistenza riguarda...?»
Stava per chiedere "riguarda tutto?", ma si rese conto solo in quel momento di quanto avrebbe potuto apparire ambigua una domanda del genere. Se la ricacciò in bocca, frettolosamente. Deglutì, avvertendo il pomo d'Adamo duro contro la gola. Distolse lo sguardo, ancora più rabbuiato per i pensieri che non riusciva a sopprimere quanto la voce.
«Che cosa?»
«Niente.»
Si mosse per trovare una posizione più comoda su quel letto da stillicidio. Lukas si alzò.
«Aspetta.»
Si sporse a sistemargli i cuscini dietro la schiena come aveva fatto Aisha pochi minuti prima. Ilyas sentì il suo fiato caldo frusciargli al lato del viso. Si scostò e cercò di non badare al suo odore che si spandeva nella stanza, forte e caldo come cuoio lasciato sotto il sole.
Pensò a quando lo aveva sollevato un paio di giorni prima, nella spianata vicino alla foresta di Khimki. Se l'era caricato in braccio come fosse un bambino. Anche quella forza faceva parte della sua "resistenza"? Come quei lupi nei boschi...
«Ecco qui.» Lukas si risedette. «Come ti senti?»
«Me la cavo. Non ho bisogno di aiuto.»
«Oh, lo so. Lo dici sempre. Mi ricordi me quand'ero più giovane. Anche se io ero più simpatico.»
«Immagino» sbuffò Ilyas. Fece una mezza smorfia, ma si rilassò contro i cuscini. Aveva finalmente trovato una posizione comoda. «Sei venuto qua per sfottermi?»
«Sono venuto per portarti quella roba e per vedere come stavi. Ne approfitto: sei immobilizzato a letto e non puoi saltarmi alla gola. O da qualunque altra parte.»
«Ah-ah, divertente.»
Ilyas incrociò le braccia, poi le sciolse. Era strano. Non provava disagio in sua presenza e considerata l'ultima conversazione che avevano avuto, considerate anzi tutte le "conversazioni" che avevano avuto, a partire da quel posacenere fracassato in testa... riusciva a guardarlo dritto negli occhi, a parlarci a tu per tu senza problemi; non avvertiva imbarazzo, né la voglia di mandarlo affanculo come all'inizio. Forse si stava sul serio rammollendo. Era esausto, d'altronde...
«Chi erano quei lupi?» chiese. «Quelli che ci hanno attaccato.»
«Ne so quanto te, guarda. Li potremmo definire lupi ribelli.»
«Ribelli a chi, ai Vosikiev?»
«Allo status quo. C'è sempre qualcuno che ci si oppone e non sempre lo fa per i motivi sbagliati.»
Ilyas si chiese forse per la prima volta cosa pensasse davvero dei Vosikiev. Si fidava del Vor, certo, era stato piuttosto esplicito su questo, ma era solo per convenienza?
«Lo dici perché l'hai pensato anche tu? Di rompere lo status quo?»
Lukas ritornò a sorridere, affilato. «Io? Io sono stato un soldato. Sia tra gli uomini, sia tra i lupi. La mia natura è stare tra i ranghi – è quel che mi hanno insegnato e certe lezioni sono come i tatuaggi: ti entrano nella pelle.»
«Ah, beh, te ne intendi di tatuaggi» osservò Ilyas e lo occhieggiò. «È una cosa vostra, farvi filosofici quando ne parlate? Pure il tuo amico non scherzava.»
«Il mio amico chi?»
«Il tatuatore, quel tipo col negozio sulla Komunalka dove siamo andati l'altra volta.» Non specificò di quale occasione stesse parlando. «Aalim? Ha cianciato di lingue segrete, come se i tatuaggi fossero un linguaggio, e ...»
«Beh, i tatuaggi sono un linguaggio. Per noi lo sono sempre stati.»
Con "noi" sembrava intendere una categoria molto vasta di persone.
«Non mi dispiacerebbe farmi un tatuaggio.» Quella frase gli sfuggì così, senza pensarci. Si stupì di averla pronunciata. «Cioè, ci ho pensato.»
Il sorriso di Lukas si allargò. «Ti starebbe bene.»
«Non sai neanche cosa mi tatuerei...»
«Non mi serve saperlo. Ti starebbe bene qualunque cosa.»
Ilyas sentì di essere ritornato scomodo. Si agitò tra i cuscini. «Non la smetti mai, eh?»
«Cosa?»
«Di flirtare. Anche dopo esserti preso una pallottola in pancia, mentre io sto con questo.» Si indicò il piede ingessato ed emise un lungo sbuffo. «Non ci rinunci.»
L'altro fece spallucce. Continuava a sorridere, un sorriso che si era fatto più morbido. «A quanto pare no.»
Ilyas capì di non riuscire a guardarlo. C'era qualcosa di diverso tra loro come c'era stato al ristorante dei Vosikiev. Il suo odore gli sembrava più forte, con una punta salata e asprigna, inebriante. E il modo in cui sorrideva... Era da quel pranzo che non riusciva a smettere di pensarci, in realtà: al suo sorriso e alle sue parole.
Forse Lukas gli lesse nel pensiero perché gli chiese: «Hai pensato anche all'esercito? Hai preso una decisione?»
«No» ammise, lo sguardo caduto tra le pieghe delle lenzuola. «Non ho avuto esattamente tempo per pensare questi giorni.»
«Beh, no, certo, mi chiedevo solo...»
«Perché ti interessa?»
«Non è evidente?»
Lo fissava e la sua espressione si era fatta d'un tratto seria. Ilyas faticava a ricambiare lo sguardo. Non rispose.
«Senti» iniziò Lukas e sembrò esitare. «Non sono nessuno per dirti cosa fare, ma sono stato il primo a credere che non esistesse un posto per noi in questo mondo, quindi fattelo dire: ci sono inferni peggiori di questa città. E credo che tu li conosca come li conosco io.»
Ilyas continuò a stare in silenzio. Guardava un punto indefinito del letto, i pugni stretti lungo i fianchi.
«Non sarai "libero", un lupo selvatico, va bene, ma cos'è la libertà, in fondo – chi davvero può definirsi libero in questo mondo? Lo sarai certo più tra i ranghi dei lupi che in un battaglione di uomini. Così come sarai più al sicuro tra i tuoi simili che tra gli umani. Io non so cosa accadrà, se davvero succederà qualcosa in questa città e in questo paese, ma so che una guerra è sempre meglio combatterla al fianco di chi può capire la tua condizione. Devi solo fidarti.»
«Non è facile per me» mormorò Ilyas, la voce ridotta a un sibilo. «Questo – questa cosa: fidarmi...»
Lo aveva fatto in passato: si era fidato, aveva abbassato la guardia, convinto di essere al sicuro, addirittura protetto, apprezzato – capito. Era stato il suo errore più grande. Non avrebbe mai più potuto sopportare...
«Non sto dicendo che devi fidarti di tutto e tutti, così, senza distinzioni. Hai vissuto in questi mesi a Mosca, hai visto com'è, quali sono le condizioni così come le possibilità. E se non puoi fidarti dei Vosikiev, di un concetto astratto e troppo ampio come un clan o un'organizzazione, puoi fidarti di quel che ti sto dicendo io. Potresti provare a fidarti di me.»
A quel punto Ilyas alzò lo sguardo, lo guardò. «Neanche questo è facile» disse, la voce ferma e lo sguardo dritto. «Tu.»
«Lo so.»
Tornò il silenzio. Lui sedeva rigido contro i cuscini, le mani strette a pugno. Gli sembrava di aver detto troppo e al tempo stesso di non aver detto niente. Non quel che voleva dire anche se, in realtà, non lo sapeva nemmeno lui cosa avesse voluto davvero dire.
«Neanche tu sei facile comunque» riprese Lukas, all'improvviso. La sua voce si era fatta più bassa, profonda e roca. «Ma non so tu: a me non sono mai piaciute le cose facili.»
La porta si aprì proprio nel momento in cui Ilyas lo vide alzarsi dalla sedia, con tutta l'intenzione, almeno così gli sembrò in quel brevissimo istante, di sporgersi verso di lui. Qualunque cosa volesse fare gli fu impedita dall'entrata di Aisha, che superò la soglia con paio di fogli in mano.
«Stai bene, i tuoi valori sono nella norma. Il dottore mi ha detto che di questo passo sarai in piedi in una settimana.»
Si fermò sulla soglia, lo sguardo catturato da Lukas che si era appena riseduto, facendo strisciare la sedia sul pavimento.
«Oh» mormorò. Qualcosa passò nei suoi occhi, Ilyas non seppe dire cosa, ma d'un tratto parve indugiare, atteggiamento che non le vedeva palesare spesso così come la vedeva di rado sorridere. Eppure, quando si avvicinò al letto, le sue labbra erano piegate in un pallido sorriso. «Ecco qui.» Gli porse i fogli e sbirciò Lukas. «Grazie per essere rimasto.»
«Non c'è bisogno che lo ringrazi per tutto.»
«Qualcuno dovrà pur farlo.» Lukas si alzò e ricambiò il sorriso. «Vado alla mia visita, a farmi ispezionare da dottori increduli. Ripasso prima di uscire. Dov'è il "terzo moschettiere"?»
«Sasha sta arrivando. Mi ha scritto che ha incontrato Raisa al piano di sotto, stanno parlando.»
«Ah, e di cosa?»
Lei fece spallucce. Tornò a guardare Ilyas, poi spostò lo sguardo su Lukas. Non sorrideva più, ma i suoi occhi erano caldi. «Allora ci vediamo dopo. Puoi ripassare anche domani, se vuoi.»
«Non...» iniziò Ilyas, ma venne interrotto per l'ennesima volta.
«Perché no? Porto altra vodka.»
Lukas si congedò con quella promessa, Aisha lo seguì con lo sguardo. Quando la porta si richiuse, Ilyas posò i fogli sul letto, irti di numeri e parole che comunque non capiva.
«Mi passi la vodka, per favore? E anche qualcosa da mangiare.»
Lei tirò fuori dalla busta quel che Lukas aveva portato: patatine, barrette con semi di girasole e pistacchi, carne secca e pane nero sukariki. C'erano anche dei dolci avvolti in confezioni da pasticceria, non da supermercato: Ilyas le aprì e trovò le classiche plyushka e le vatrushki, focaccine ripiene di ricotta. Tutto cibo russo a cui si era abituato, ma che non lo faceva impazzire.
«I russi non sanno cosa significa mangiare bene» disse a sua sorella, una frase già sentita.
Lei lo stava guardando.
«Che c'è?» le chiese mentre svolgeva la confezione di carne secca.
«Niente.» Aisha aveva ancora appesa sulle labbra la virgola di un sorriso. «Mi sono ricordata una cosa.»
«Che cosa?»
«Di quando eravamo piccoli. Dicevi che non ti piacevano i churchkhela, che erano troppo dolci, robe da mocciosi, però quando andavamo al mercato e io li chiedevo alla mamma, lei li comprava anche per te perché sapeva che li avresti mangiati, anzi divorati. Ti piacevano tanto, ma non volevi ammetterlo.»
Ilyas era impegnato a stappare il tappo della vodka. Sollevò appena lo sguardo, un pezzo di carne secca in bocca. «E quindi? Perché ti è venuto in mente proprio adesso?»
«Così.» Aisha era tornata a sorridere, quel sorriso fievole e bello. In quei momenti somigliava davvero tanto alla loro madre. «Mangia ora e non bere tutta quella vodka.»
Bella gente, come anticipato sono in partenza e ritornerò su questi lidi verso fine mese con Sereb e compagnia bella.
Intanto ho lasciato questo capitolo bello lungo e il primo capitolo dello spin-off dedicato a Ilyas, che trovate nel mio profilo o linkato a questo capitolo. In alto c'è anche la copertina con il titolo parecchio simbolico -- ma è tutto molto simbolico in quella storia, preparatevi!
Buon proseguimento d'estate a tutti ^^
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