XXIV. Luna rossa - terza parte
Le mura del Cremlino si ergevano alte e all'apparenza insormontabili, una muraglia bianca screziata del rosso dei mattoni sottostanti. Per Soraya era sempre stato quello il colore di Mosca: il rosso crudo, scuro quanto una ferita aperta, intravedibile sotto la rivestitura bianca delle mura del Cremlino, che nascondeva le crepe e dava solo una parvenza di immacolatezza. Mosca non era affatto come la descrivevano nei libri: non era belokamennaja, dalle pietre bianche, o zatlogavaja, dalle cupole d'oro. Mosca per lei era sempre stata rossa come il sangue.
«Sei pronta?» le chiese Inessa.
Annuì e si preparò. Sua sorella richiamò una folata di vento che le sollevò in alto fino a superare il filo spinato che contornava le mura. Mentre volava in aria, Soraya setacciò il cortile alla ricerca di militari, di quelli che facevano la ronda intorno al perimetro del Palazzo di Stato. Non c'era nessuno: riuscirono a superare le mura inosservate. Inessa aveva già fulminato le telecamere di quella parte delle mura. Proprio quando atterrarono videro un paio di uomini – uomini dei Khlysty – che in quel momento stavano girando l'angolo del Palazzo. Soraya si concentrò e gli uomini passarono senza vederle.
«Sempre delle foglie?» domandò Inessa.
Lei assentì, un gesto fiacco. Cercò di non farle vedere quanto si sentisse stanca. Manipolare le menti di vulkulaki non senzienti era relativamente facile, ma dopo lo sforzo alla villa di suo padre anche quella semplice illusione le era costata fatica.
«Dividiamoci» disse. «Se qualcuno ci ferma diciamo semplicemente...»
«Che siamo venute qui per affari dei Khlysty. Sì, sì, lo so. Se però incontriamo proprio uno dei Khlysty?»
«Non dobbiamo incontrarli. Papà non deve sapere che siamo venute qui.»
«Eh, per te è facile, puoi far credere di essere una foglia.»
«Vuoi venire con me?»
«No, no, faccio da sola. So nascondermi benissimo senza il tuo aiuto e poi» la vide sorridere, sottile, «mi aiuterà il vento.»
Così si separarono: Soraya si diresse verso il Palazzo di Stato che splendeva sotto la luce della luna simile a una piramide di vetro. Era rimasto come mera decorazione da quando un governo vero e proprio non esisteva più, l'unico edificio, insieme all'antica armeria con il gigantesco cannone Zar puška, sopravvissuto all'interno delle mura. Gli altri erano stati abbattuti anni prima, insieme alle chiese, alle statue e ad alcune delle torri. Lo circumnavigò e si avviò verso la torre Troickaja, l'area di controllo che solo pochi giorni prima era stata affidata a Leda, Inessa e Kirill. Inessa era andata all'armeria, dove si trovava la sala di controllo e dove venivano archiviate le matrici informatiche dei diversi gruppirovki; sperava che Leda fosse lì, mentre Soraya contava di trovarla ancora all'opera, a misurare e percorrere ad ampie falcate l'area che le era stata affidata, con quella concentrazione dura e indifferente al mondo circostante che sempre dimostrava quando aveva un compito da svolgere.
Cosa vogliono dei lupi qui? si chiese mentre avanzava. Per quanto ne sapeva al Cremlino non c'era nulla che potesse interessare un vulkulaki: solo fondamenta sventrate, edifici un tempo simbolo di potere ora svuotati, sgualciti su se stessi, pallide vestigia di un passato mai risorto. Certo, c'era la sala di controllo tecnico imbastita dalla SAVKA, con le matrici delle diverse squadre che raccoglievano i dati delle ispezioni compiute nel terreno, dove era ancora possibile rivelare tracce di cesio radioattivo. Durante l'Ultima Guerra il Cremlino era stato usato come base militare e impianto nucleare. L'impianto si trovava sottoterra: una sala macchine era andata a fuoco anni prima e persino il cemento armato di cui erano fatti i muri era esploso, proiettando virulente colate di scorie in fusione. In seguito, però, l'eruzione si era calmata e ora l'impianto, dopo parecchi decenni, appariva una centrale ipogea in disuso, bruciata ormai da tempo, simile al corpo carbonizzato di un animale contorto e friabile.
Lei non era mai scesa a perlustrarla – era un compito che veniva affidato ai bassi ranghi, come diceva suo zio, ai "topi", come dicevano i Novikh –, ma aveva visto le foto e le mappe tridimensionali. Le ispezioni puntavano a rivelare e raccogliere il cesio e il radio rimasti negli strati del sottosuolo che, grazie alla tecnologia dell'esercito, venivano usati per fabbricare armi – i fucili gamma o le mitraglie a fusione e a sincrotrone che invece dei proiettili sparavano materiale radioattivo; quel tipo di armi che lei non aveva mai voluto toccare.
Che quei lupi ribelli fossero interessati ai rilevamenti delle radiazioni? Raisa era stata vaghissima: volevano prendere "qualcosa"... ma che cosa?
La torre Troickaja si trovava proprio di fronte ai giardini di Aleksandr. Soraya attraversò il passaggio tra le mura e si guardò intorno nelle ombre acquattate tra le siepi. Anche lì, nonostante il buio, il rosso predominava: il rosso dei papaveri selvatici, piegati dalla brezza notturna come figure in preghiera, e il rosso della tomba del Milite Ignoto, una piattaforma rettangolare in granito al centro della quale una stella in bronzo rifulgeva alimentata da una fiamma ruggente.
Il tuo nome è sconosciuto, le tue gesta sono immortali, recitava la scritta scavata nella pietra. Era sbrecciata, quasi illeggibile.
Mentre sostava sotto le mura, si ricordò una vecchia canzone:
C'è chi sollevi la campana Regina,
o il Re cannone sappia porre in opera?
E c'è l'audace che il capo non si scopra,
quand'è innanzi alle mura del Cremlino?
Doveva averla sentita da bambina. Forse era stata sua madre a cantargliela.
La vide al centro del labirinto di siepi, a poca distanza dalla piazza del Maneggio. Non era sola: c'era un uomo con lei, un ragazzo, forse un membro dei Krasnij. Soraya non lo aveva mai visto.
«Leda!» si avvicinò, mostrandosi alla luce della luna. Il sollievo nel vederla si mischiò a una certa irritazione. «Perché non rispondi al cellulare?»
«Che diavolo ci fai qui?» l'apostrofò l'altra, da subito sulla difensiva. Il suo volto si contorse in una smorfia palese a vederla, a metà tra la rabbia e la tristezza, un mélange che Soraya conosceva bene. «E perché mai dovrei risponderti al cellulare?»
«Ti stavo chiamando. Anche Inessa...»
«Avevo da fare. Che ci fai qui? Ordini di tuo padre? Ti fa lavorare anche di notte?»
«Anche tu stai lavorando.»
Soraya continuava a guardarsi intorno, pronta a cogliere il minimo movimento sospetto: erano nel punto più scoperto del Cremlino, la parte delle nuove mura innalzate per annettere i giardini di Aleksandr al complesso fortificato. Il posto ideale per entrare di soppiatto; lo aveva pensato prima ancora di arrivare. Si augurava che gli uomini di suo padre stessero pattugliando la zona, al di là dalle mura. Nei giardini non c'era nessuno.
«Ehm» emerse la voce del ragazzo. «Salve.»
Soraya lo guardò meglio. Era un tipo alto e pallido dai capelli scuri. Forse un moscovita, a giudicare dall'accento.
«Non ci conosciamo. Mi chiamo Ivan Karkarov» si presentò e allungò una mano.
Lei l'afferrò con un attimo di esitazione. «Karkarov?»
«Fa parte dei Krasnij» spiegò spicciamente Leda. «Stavamo controllando le ultime misurazioni prima di andare a cena.»
«A cena? A quest'ora?»
«Vado all'ora che mi va» ribatté lei, la voce aspra e graffiata di impazienza. «C'è qualcosa che mi devi dire? Sono impegnata, come vedi.»
Soraya aprì la bocca e poi la richiuse. Si era aspettata di trovarla così, ruvida e scostante: dal ricevimento al palazzo di Kolomenskoe Leda si rifiutava di parlarle e lei sapeva di non poter vantare nessuna pretesa, non dopo quello che le aveva detto; sapeva che era arrabbiata, che non le sarebbe passata presto e forse mai; che era quel tipo di persona senza mezze misure, capace soltanto di amare totalmente o odiare totalmente, e che era giusto ora che la odiasse; sapeva tutto questo, ma non si era aspettata di vederla con qualcuno.
Di già? non riuscì a fare meno di pensare sentendo qualcosa di metallico, aspro come la voce dell'altra, sfrigolarle all'interno delle viscere, pungolarla come lo staffile di un pugnale. Si mise le mani nelle tasche del giubbotto per trattenersi dal conficcarsi le unghie nei palmi.
«Stai andando via?» chiese, atona.
Era solo per questo che era venuta: per assicurarsi che non ci fossero problemi, che Leda fosse al sicuro. Non era affar suo cosa l'altra faceva. Non più. E non doveva chiedersi chi fosse quel tizio, perché stavano insieme a quell'ora e perché prima di avvicinarsi l'avesse sentita ridere. Non la riguardava: era stata lei a decidere di rompere, aveva fatto una scelta per il bene di entrambe – la scelta giusta. Non importava che a volte, in quell'ultimo mese, avesse avuto la tentazione di chiamarla. Che ora volesse tendere le mani verso di lei. Che mentre la sua mente, così disciplinata, era calma – una distesa oceanica –, il suo cuore sembrava impazzito, un uccello rauco che sbatteva le ali contro la gabbia del petto. Per le parole scelte e quelle dette per dire. Per i silenzi e la paura che le aveva mangiato la voce. Per quell'amore che Leda le aveva sputato addosso e si era risucchiata dentro, un amore che era come quei papaveri che frusciavano al vento: senza insidie, senza segreti, semplice e intrattabile, autentico.
Aveva fatto una scelta, si ripeté. Era stata la scelta giusta, quella necessaria. La vita è un continuo compiere scelte difficili, così le diceva sempre suo padre.
«Non sono affari tuoi.»
«Stiamo andando via, sì» si intromise il ragazzo, Ivan. Sorrideva un po' impacciato. «Eravamo qui per le ultime rilevazioni.»
Aveva appena finito di pronunciare quella frase quando Soraya lo vide spalancare gli occhi.
«Cosa sono quelli?!» urlò, spaventato.
Soraya si voltò nello stesso istante in cui lo fece Leda. Le si mozzò il fiato in gola. Ai piedi delle mura si erano appena materializzati dei lupi, comparsi all'improvviso come se avessero oltrepassato i mattoni con la forza del pensiero. Pelo folto, occhi rossi e gialli, zanne aguzze. Erano sette, stagliati contro il bagliore della luna come una formazione militare. Al centro stava il più grosso, che iniziò a ringhiare. In un attimo Soraya si sentì investita, come sotto una pioggia torrenziale, dal suo potere e il suo pensiero. Lo sentì fin dentro le narici, laddove invece non riusciva a sentire il suo odore.
Scoprì i denti anche lei.
«Dei lupi!» Ivan Karkarov continuava a strillare. «Ci sono dei lupi! Oh, Dio! Scappate, ci penso io!»
Si mise davanti a loro, come per fargli da scudo, e solo a quel punto Leda, che sembrava sotto l'effetto di una paralisi, si riscosse. Lo scansò bruscamente e lo superò. Aveva già la pistola in mano.
«Che ci fanno dei lupi qui? Ma sono veri?»
Soraya provò ad avanzare, ma appena accennò un passo Leda l'afferrò per il braccio e la riportò indietro.
«Stai ferma.» La sua voce era un sibilo. «Non sei armata.»
Era vero: lei non si era portata nulla, al contrario di Inessa. Trasportare armi con sé sotto forma di lupo richiedeva più concentrazione e forza di una normale trasformazione, un tipo di forza che quella sera era stata consapevole di non possedere. Inoltre, in generale aveva sempre fatto poco affidamento sulle armi. Contava molto di più sul suo potere. Tuttavia, con degli umani di mezzo ora non era sicura di poterlo usare senza farsi scoprire.
«State indietro!»
A urlare era stato di nuovo Ivan. I lupi erano avanzati, senza far rumore. Cominciarono a girargli attorno, le pellicce che vibravano al soffio del vento confondendosi col nero della notte. Tenevano le pupille fisse su di loro, rosse come una luna allagata di sangue.
Soraya poteva percepire la forza emanata da quei corpi. Vulkulaki addestrati a combattere, capì subito. Vulkulaki abituati a uccidere e che ora li stavano guardando, muti e tesi, pronti all'attacco.
Ivan, troppo spaventato, fece partire un colpo. Fu la mossa sbagliata: uno dei lupi ruppe il cerchio e lo assalì con una rapidità tale che videro giusto lo snudarsi delle zanne nel buio. Balzò su di lui e gli strappò un braccio di netto. Soraya vide il sangue schizzare come dalla crepa di una diga, un gettito violento e inatteso. L'urlo del ragazzo raggiunse il cielo. Anche Leda iniziò a gridare.
«Merda!»
Ivan stava rotolando a terra, nel sangue, il suo stesso sangue che sembrava rosso fuoco liquido sul suolo nero. Due lupi gli furono addosso. Il ragazzo provò disperatamente ad allontanarsi, ma i suoi sforzi non valsero a nulla. Soraya sentì lo scricchiolio delle ossa che cedevano e ancora quelle urla lancinanti, disumane. Fece per correre in suo soccorso, ma ancora una volta Leda la fermò: le strinse il braccio in una presa spasmodica, le dita strette a lei come artigli di ferro.
«Scappa» ordinò, un altro sibilo, la voce ora incrinata di paura.
Soraya non l'aveva mai vista impaurita. In tutti quegli anni, anche nei raid più pericolosi, Leda era sempre stata calma, lucida, padrona della situazione. Ma ora la paura tracimava dai suoi occhi, le allagava le iridi.
«Leda...»
«Ti ho detto: scappa!»
Leda la spinse indietro, con urgenza, e sparò a uno dei lupi, che scartò per assalirle. Il sopra e il sotto si confusero per Soraya. La spinta era stata tanto forte da sbilanciarla. Qualcosa le fu addosso. Riconobbe l'alito pesante e intriso di sangue di un animale.
«Soraya!»
Un'altra detonazione riverberò nell'aria. Il vulkulaki le cadde addosso come un peso morto. Il sangue era dappertutto; iniziò a impregnarle i vestiti. Si divincolò mentre le narici le si riempivano di un tanfo acre. Doveva alzarsi e combattere, doveva...
«Ahhh!»
Scorse Leda cadere a terra nel tentativo di allontanarsi da un vulkulaki. Altri quattro stavano già correndo verso di lei.
«No!» urlò Soraya e, senza più pensare, inghiottita da un terrore freddo e agghiacciante come forse non ne aveva mai sperimentato, si trasformò.
Divincolandosi da sotto il cadavere del lupo che l'aveva assalita, balzò sopra l'altro lupo, quello che stava attaccando Leda; gli affondò le zanne nel collo, gli recise la gola con un unico morso, l'odore del sangue che invadeva ogni centimetro d'aria. Nello stesso momento, con la forza del pensiero, fece arretrare gli altri quattro vulkulaki, si infilò nelle loro teste e li spinse ad attaccarsi per difendersi l'uno dall'altro, proprio come aveva fatto alla sua iniziazione.
"È la figlia di Vosikiev!" sentì qualcuno gridare, il settimo lupo.
Era un senziente, Soraya lo capì solo in quel momento: sentì il suo potere bollirle nelle vene. Il lupo si lanciò all'attacco, ma lei, voltandosi con le zanne ancora affondate nel collo del vulkulaki che aveva appena ucciso, lo fermò usando il suo potere.
Entrò dentro di lui, si calò nei suoi nervi – li poteva quasi vedere: una fitta rete dove brillavano milioni di minuscoli recettori fluorescenti –; captò i recettori sensoriali e, come se stesse strappando dei fili d'erba, li mandò in tilt inviando una serie di impulsi elettrici che travolsero l'uomo-lupo. Lo vide piegarsi e contorcersi a terra, ululando di dolore, investito da percezioni diverse, che non stava davvero vivendo: gli fece immaginare di essere bruciato vivo e poi schiacciato da una pietra e ancora che stesse annegando in un mare di pece.
Tutte le lezioni di sua madre, di Raisa – puoi far credere tutto, non hai limiti se non te stessa – le volteggiavano in testa. Alla paura, alla rabbia, si mischiò l'euforia, un senso di vertigine abbagliante. Lasciò il corpo ormai esanime del vulkulaki che stringeva tra le fauci e si diresse verso l'altro lupo, lo guardò dall'alto prima di calare su di lui, ormai ridotto a un bozzolo tremante di urla e invocazioni disperate.
Gli ultimi vulkulaki intanto avevano finito di lottare. Ne era rimasto solo uno sulle zampe e riacquistò d'improvviso coscienza, ritrovandosi davanti i cadaveri dei compagni. Si volse a guardarla e lei vide il terrore nei suoi occhi gialli.
"Pietà" invocò – era una voce femminile – quando Soraya si avvicinò e la buttò a terra con una zampata.
La lupa non si poteva più muovere; era convinta di essere stretta da delle corde. Soraya percepiva la sua lotta per liberarsi di quel cappio inesistente, una lotta data da una forza fisica superiore alla media che però non era superiore alla propria – lei e Inessa avevano iniziato a mangiare carne umana e di vulkulaki fin da quando erano bambine; suo padre le aveva costrette, dicendogli che solo così sarebbero diventate forti, che dovevano essere forti; che era l'unico modo per sopravvivere in quel mondo.
Spezzò il collo della donna-lupo, affondò le zanne nella viva carne e la fece a pezzi, ingoiando ossa e tendini dal sapore di polvere. Sentiva la forza dell'altra trasmettersi a lei, invaderle le vene. Era così che avveniva, anche questo le aveva spiegato suo padre: uno scambio equivalente, una vita per una morte, la forza di un altro dopo averne rivendicato lo spirito.
La vista le si tinse di rosso. Tutto quanto era diventato rosso, rosso. Come le mura del Cremlino. Come Mosca. E anche quel che sentiva in bocca aveva lo stesso sapore. Non un vero sapore, in realtà, soltanto una sensazione. Come quella che provava correndo con la terra nuda sotto le zampe: era euforia; era dolore; era l'essenza stessa dell'universo.
Aveva perso contatto con la realtà – la realtà umana. A volte le capitava. Non era più lei, una ragazza calma, posata, così magra e innocua. Diventava una lupa e quel filo invisibile e tenace che la collegava alla natura più sotterranea riverberava brillante, una scarica di energia che la percorreva dal calcagno al cranio. Se ne accorse mentre aveva il muso impastato nella carne del suo simile. Doveva tornare in sé. Tornare se stessa, quella che conosceva, che tutti conoscevano. Doveva...
A fatica si staccò e riprese sembianze umane. Il sangue dei nemici le grondava sui vestiti. Se lo sentiva anche in bocca, dentro la gola, nelle narici, in ogni parte del corpo. Abbassò lo sguardo sulle mani, sui palmi bianchi striati di rosso.
Se qualcuno l'avesse vista ora, se l'avesse vista così, in piedi e ansimante, circondata da sette cadaveri con le viscere scintillanti sotto il bagliore della luna, cosa avrebbe pensato? Cosa avrebbe visto?
La nostra natura è come il mondo che ci circonda, le aveva detto una volta sua madre, tanto tempo prima. È qualcosa di puro e intatto, bello e terribile, che non può che fare paura...
Le aveva detto...
Un violento colpo alla nuca la fece cadere in avanti. Il suolo le precipitò addosso. Si ritrovò per terra, di nuovo, e sentì una voce levarsi dietro le spalle.
Una voce umana.
«Non muoverti.»
Soraya lentamente si voltò.
Leda era in piedi, stagliata contro il bagliore sanguinante della luna. Aveva la pistola in mano. Soraya la vide stringere le dita più forte attorno all'impugnatura mentre la sollevava e la puntava al suo petto.
«Non provare a muoverti...»
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