XXI. Chi piange nella notte - seconda parte

«Cosa gli avete fatto?!»

Andrej quasi ebbe la tentazione di balzare su Sereb. Si trattenne solo a causa della presenza di Sergej.

Irina ridacchiava. «Andrej, tu e tuo cugino siete proprio diversi! Non regge niente.»

Lui le scoccò un'occhiataccia e si avvicinò al divanetto dove Sereb stava semisdraiato, le palpebre socchiuse e le guance lievemente arrossate. Aveva i primi bottoni della camicia aperta, il colletto spiegazzato a mostrare il pallore della pelle al di sotto della gola, la pozza d'ombra creata dalle ossa della clavicola. Andrej fu tentato di chinarsi e abbottonarlo, ma ancora una volta si trattenne e si limitò a scuoterlo per le spalle, un tocco breve e clinico.

«Sereb? Sereb, ci sei? Mi senti? Ce la fai ad alzarti?»

Da parte sua un mugugno intelligibile seguito da un grugnito, ma infine si raddrizzò, sgranò gli occhi e li strizzò come per metterlo a fuoco.

«Voglio andare a casa» dichiarò, la voce che suonava ferma, chiara e grave – la sua solita voce.

Andrej fu rincuorato nel vederlo ancora, più o meno, lucido. Sbirciò verso il tavolo, ingombro di bicchieri e bottiglie vuote.

«Quanto ha bevuto?» indagò, guardando le ragazze. Si sentiva una mamma chioccia, ma tant'è: Vosikiev lo pagava profumatamente anche per fare da balia.

«Non ne ho idea» rispose Vanessa, mentre Irina non smetteva di ridere.

«Irina...»

«Oh, non guardarmi così! Gli abbiamo dato solo qualche bicchierino, per farlo sciogliere un po', sai, per farlo diventare più simpatico.»

«E ha funzionato?»

«Mah, non tanto.»

Andrej guardò di nuovo Sereb, che sembrava solo assonnato, gli occhi attenti però, lucidi e neri, che squadravano l'ambiente circostante e si soffermarono su Sergej che era appena apparso dietro il tavolino.

«Lo ripeto» smozzicò il figlio di Vor mentre pescava una sigaretta dalla tasca e se l'accendeva, «non sembrate per niente cugini, voi due.»

Andrej evitò di commentare. Aveva passato le ultime due ore a convincerlo che, sì, quello era suo cugino, che non avevano nessuna amicizia particolare loro due, e che, no, certo che non voleva che il lupo bianco scappasse, non aveva idea che avrebbe avuto la forza per uccidere due uomini e fuggire.

Sergej lo aveva assalito appena messo piede nella sua ala riservata, e non come pensava Andrej: lo aveva preso per le spalle e sbattuto contro il muro, le dita strette alle sue braccia quasi volesse stritolarlo. Col fiato che gli sibilava tra i denti gli aveva chiesto perché non fosse stato fuori l'anfiteatro a sorvegliare il lupo insieme a Dmitrij e Fëdor. Andrej, evitando di ricordargli che era stato lui a dirgli che la sua presenza non era necessaria, aveva biascicato delle scuse e aveva cercato di calmarlo.

Sapeva come trattare Sergej di solito, anche quando si trovava in quello stato alterato: bisognava tenere un basso profilo, adottare la docilità di una puttana in affitto. Tuttavia, quella notte il giovane vory era sembrato troppo arrabbiato, troppo in bilico col proprio autocontrollo, gli occhi percorsi da venuzze spesse quanto corde, che gli iniettavano la sclera di sangue e gli facevano pulsare l'iride. Doveva essersi sparato una quantità industriale di kradija prima di venire a casa sua e, se si era trattenuto dallo sfogarsi, era stato soltanto a causa della presenza di altre persone, Andrej lo aveva intuito dal momento in cui lo aveva visto piombargli in casa. Non si era infatti sorpreso quando, una volta nel Valhalla, nel suo antro, Sergej aveva lasciato perdere qualsiasi scrupolo e dopo avergli urlato contro una serie di insulti, rivolti in parte a lui, in parte al resto della druzina e, immancabilmente, al fratello – ci ha goduto, quello stronzo, ci ha goduto che ho perso il lupo! –, lo aveva preso sul pavimento, senza prepararlo e senza dargli il tempo neanche di spogliarsi.

Andrej aveva abbozzato perché non era stata la prima volta e non sarebbe stata l'ultima. In fondo, non può protestare chi non ha diritto di replica e lui quale diritto avrebbe mai potuto avere contro il figlio di Boris Novikh? Quello che loro abitavano, quel rapporto privo di definizioni, instabile e adulterino, era l'habitat del predatore e lui ci era entrato con tutte le scarpe, ben consapevole di quel che ci avrebbe trovato fin dal primo giorno in cui aveva colto l'interesse di Sergej nei propri confronti. Quale diritto può avere chi ha offerto di sua spontanea volontà il collo alla falce del boia?

«Spero di essere stato chiaro: niente più stronzate» aveva detto Sergej più tardi, ancora scocciato, ma più rilassato una volta scaricata la rabbia.

Andrej non aveva risposto e si era limitato a guardare il soffitto, disteso sul folto tappeto di lupo siberiano, in quel bianco immacolato ora macchiato da gocce di sangue simili a petali spiegazzati.

Si era ricordato quel che gli diceva sua madre, una frase sopravvissuta nel terreno della memoria, quel suolo dichiarato radioattivo da tempo.

È solo un po' di sangue. Tutti noi dobbiamo versare sangue.

L'aveva pensato anche alla Maslenitsa...

«Adesso andiamo a casa» sussurrò a Sereb e si voltò per affrontare Sergej. Si schiarì la gola e cominciò: «Dovrei...»

Ma il figlio di Vor non lo stava ascoltando. La sua attenzione era rivolta alle ragazze. «Aleksandr? Cosa vuole?»

Vanessa scrollò le spalle. «È passato prima, voleva parlarti. Aveva un incontro con il figlio di Heng.»

«Zatlan?» Sergej sembrò sorpreso. «È qui anche lui? Quello stronzo! Poteva avvisarmi che era a Mosca.»

In quello "stronzo" c'era un'accezione quasi bonaria, divertita, un tipo di tono che Sergej rivolgeva a poche persone. Lui e il figlio di Jian Heng, Zatlan Heng detto il Russo, erano amici dall'adolescenza, Andrej lo sapeva. Lo erano diventati quando Sergej aveva fatto il suo apprendistato nel territorio degli Heng, nella parte più orientale della Russia, un posto "dimenticato dalla civiltà", a sentire il giovane vory. Il padre lo aveva mandato "tra i selvaggi della steppa asiatica" per raddrizzarlo e forse anche per smorzare il suo razzismo indefesso che si estendeva a qualunque russo non avesse tratti caucasici, un atteggiamento che in realtà era inflazionato in tutta la sua famiglia.

Anche questo Andrej sapeva bene: i Novikh e tutti i loro rami collaterali rivendicavano con un certo orgoglio il fatto di essere russi europei, discendenti dei cosacchi, russi "puri" che non si erano mai mescolati a quel crocicchio del mondo che era la Russia orientale, né a quell'altro crocevia di etnie che era il Caucaso. Adottavano una rigida politica eugenetica quando si trattava di matrimoni e appoggiavano tutti i programmi di epurazione etnica promossi dall'esercito federale. Eppure, un conto era essere razzisti con i vari calmucchi, mongoli, evenchi, osseti, jukaghiri, buriati, tuvani e chi ne aveva più ne metteva: la massa indistinta che popolava il "bestiame umano", come una volta aveva sentito lo stesso Sergej definire chi stava alle fondamenta della società; un conto era quella gente, un altro erano i propri pari. Gli Heng avevano origini cinesi e forse qualcosa di tataro o kazako nel sangue, ma governavano l'intera Russia orientale; erano il gruppirovka più potente dopo i Novikh, da sempre alleati preziosi e da sempre potenziali nemici. Mandare il figlio più giovane nelle loro fila era stata da parte di Boris Novikh una mossa politica prima di ogni cosa.

Andrej non sapeva quanto Sergej avesse cambiato opinione sulla Russia orientale, ma certo tanti pregiudizi sui ricchi russi asiatici gli dovevano essere passati.

Prima gli aveva detto che suo cugino sembrava un mongolo.

«Cosa?» aveva chiesto lui con stupore. Di tutto quello che l'altro gli aveva vomitato addosso da quando si erano appartati, quella frase era stata davvero l'unica che non si era aspettato. «Ma se è...»

«Gli occhi.» Sergej lo aveva guardato con le labbra serrate, solo uno spiraglio azzurro che filtrava dalle palpebre. «Ha gli occhi di un mongolo.»

Non aveva ribattuto, preferendo non entrare in quel terreno di conversazione. I Novikh dovevano essere così ossessionati da vedere "infiltrazioni" ovunque. A lui Sereb non sembrava tanto un mongolo: aveva la pelle troppo chiara e quei capelli poi... Sapeva che in realtà i tratti mongoli potevano incontrarsi in grande varietà; aveva conosciuto molte persone, dalla pelle e i capelli dei colori più disparati, che avevano quel tipo di occhi dalla piega all'ingiù, una profondità di sguardo che ricordava la steppa; occhi scuri, gonfi di sensualità, soffusi di un alone selvaggio; occhi di carne, così diversi dalle fessure di vetro glaciale dei Novikh... Sereb non gli era sembrato così, però, non da umano almeno. Da lupo, ecco, forse da lupo lo aveva pensato. All'inizio lo aveva addirittura scambiato per un siberiano.

«Dove sono?»

Sergej si stava guardando intorno, la cicca che gli pendeva dalle labbra. Andrej decise di approfittare del momento.

«Io andrei» mormorò. Indicò Sereb ancora stravaccato sul divano. «Lo porto a casa.»

Sergej stava succhiando la sigaretta. Gli scoccò una lunga occhiata prima di concedere un piatto: «Va bene.» E aggiunse: «Porta il culo a lavoro domani. Non ti pago per non fare un cazzo.»

«Sì, certo» rispose, atono.

Si girò e, stando attento a non fare movimenti bruschi – sentiva delle fitte che lo percorrevano dal basso ventre per tutta la schiena –, spinse Sereb ad alzarsi. Gli offrì la spalla per reggersi e l'altro per una volta accettò il suo aiuto. Si appoggiò a lui, gli occhi che setacciavano le ombre del locale.

«Andiamo via» disse Andrej e lo guidò fuori.

L'ultima visione che ebbe del privée fu Sergej che continuava a guardarsi attorno, poi anche la sua sagoma alta fu inghiottita dalla ressa dei corpi. Con Sereb al suo fianco, il tepore del suo corpo contro il proprio, Andrej attraversò il corridoio che circondava la pista e raggiunse il Thund. Nel giro di pochi minuti furono entrambi fuori, nella notte ormai agli sgoccioli, diluita da un vago chiarore che si espandeva a oriente, là, dietro le torri del Cremlino.

Rimase per un attimo ipnotizzato a fissare quel lembo di cielo bianco, attraversato da uno stormo di uccelli che iniziavano a fendere l'aria torbida. Il sole sarebbe sorto a breve, complice la primavera che stava accorciando le notti; si sarebbe sollevato dai tetti delle case, un sole biancastro simile a una lampadina immersa in un bicchiere di latte che, come un foglio di carta tremolante, si sarebbe steso sulla città ancora addormentata, fremendo sui tetti, le torri e le cupole, riversandosi in un fiume di luce per poi allontanarsi, altissimo e remoto, in fuga in quel cielo aperto come un dono.

Gli sembrò un dono, chissà perché, con quell'alba indugiante che baluginava a est.

Forse aveva bevuto troppo.

Si mise alla ricerca di una macchina che li avrebbe portati a casa, quando Sereb si staccò da lui.

«Ehi, aspetta! Dove vai?»

Senza rispondergli, l'altro ragazzo si inoltrò nella Arbat, a quell'ora deserta. Andrej lo raggiunse. Sereb sembrava preso da uno dei suoi "momenti", quando levava il capo e cominciava ad annusare l'aria alla ricerca di un profumo segreto.

In quelle occasioni Andrej si guardava bene dall'interromperlo. Aveva capito che non aveva senso chiedergli di comportarsi in maniera normale: non lo avrebbe fatto. Non per lui e con molta probabilità per nessuno. In realtà non gli importava che fosse così strano. Che avesse quell'aria, di chi tira dritto, disinteressato al giudizio degli altri, deciso a sondare il mondo, a non farsene inghiottire. Forse avrebbe voluto avere anche lui un po' della sua sicurezza, così autentica da sembrare ingenua. Avrebbe voluto possedere quella calma e gravità, quel senso di libertà sprezzante. Sentiva di invidiarlo a volte, nella stessa misura in cui lo ammirava. Perché, si diceva, l'ammirazione era anche questo: nascondeva una scintilla di rancore, quel tipo di rabbia fatta di dedizione e affetto, forse perfino un po' d'amore.

«Sereb?» Provò ad avvicinarsi. «Che c'è? Hai sentito qualche odore strano?»

«Andiamo lì.» Sereb indicò la fine della via, si mise in marcia per raggiungerla e Andrej, trattenendo un sospiro, lo seguì.

Camminarono per una ventina di minuti, il cielo che si schiariva a poco a poco. L'alba, un'alba chiara e minerale, li colse mentre entravano negli Stagni del Patriarca. Zona dei Vosikiev, pensò subito Andrej, che si sentiva ora stranamente leggero, come un palloncino gonfio d'elio trascinato dal vento. Sollevò anche lui il capo ad annusare l'aria sapida di lago e del profumo dei tigli rigogliosi. C'era odore di bosco, nel cuore della città.

Il viale principale era deserto; vi si inoltrò seguendo Sereb, che continuava a precederlo, la nuca chiara scolpita dal riverbero rarefatto del sole appena sorto. Mentre attraversavano il quartiere avevano incrociato solo alcune persone; il loro brusio li aveva accompagnati insieme ad altri rumori – porte sbattute, finestre che venivano spalancate, motori in funzione. Nel parco invece c'era silenzio. Un meraviglioso, perfetto silenzio. Non si sentivano più gli stridori delle macchine sulla Sadovaja o sulla Cajanova. I tigli si richiudevano intrappolando qualsiasi suono tra le loro maglie, immergendo il parco in una tranquillità verde, riecheggiante.

D'un tratto Andrej si fermò. Erano a pochi passi dallo stagno, nel viale che portava al monumento di Krylov. Si volse a guardare l'acqua scura, di un colore resinoso che presto si sarebbe schiarito.

«C'è un libro...» iniziò, incerto. Stava cercando di ricordare. «C'è un libro famoso che parla di questo posto. Qualcuno me ne ha parlato, ora non ricordo chi, e io non l'ho mai letto, ne sono sicuro, ma... ricordo che qualcuno mi ha parlato di questo libro che inizia proprio qui, agli Stagni del Patriarca, il giorno in cui all'improvviso compare il diavolo.»

Anche Sereb si era fermato. Lo stava guardando. «Il diavolo?»

«Sì, il diavolo che appare un giorno e poi se ne va, mentre la città brucia.»

L'aveva colpito quella storia perché per lui era facile immaginare Mosca bruciare. La vedeva anche adesso, con strana nitidezza, col sentore di un presagio forse: la città avvolta tra le fiamme, urlante e sfrigolante nel riverbero di un'apocalisse in anticipo. E gli sembrava giusto anche che il diavolo comparisse per la prima volta in uno dei pochi parchi sopravvissuti, vicino alle acque dove Mosca si specchiava sempre uguale a se stessa, riflessa nell'immobile oscurità degli stagni.

Ne era rimasto solo uno, in realtà. Però il luogo in cui si trovavano era ancora chiamato il Vicolo dei tre stagni così come il parco veniva chiamato gli Stagni del Patriarca.

«Quello è il Vicolo del Caprone» disse a Sereb. «Non so se si chiama così per via del libro. No, anzi, deve essere così da prima, ecco perché il diavolo viene proprio qui. Come se tornasse a casa.»

Fece per sedersi su una panchina, una di quelle da cui si poteva vedere, attraverso le fronde dei tigli, la Malaja Bronnaja, ma Sereb ebbe tutt'altra idea. Si sedette sul prato davanti allo stagno, si sdraiò sull'erba, supino, le braccia allargate. Andrej trattenne un'esclamazione di stupore, l'ennesima. Quella era un'altra novità: non l'avrebbe preso per uno che si sdraia a bocconi in un parco deserto.

«Sereb?» Si avvicinò. «Sereb, perché siamo qui? Cosa stai facendo?»

L'altro non rispose. Guardava il cielo. Sembrò fare un cenno, un gesto della mano svogliato; la posò al lato destro, nello spazio vuoto accanto a sé. Andrej lo prese per un invito a sedersi.

Si mise a ginocchia incrociate davanti allo stagno e socchiuse gli occhi ai pallidi bagliori del sole che cominciava a specchiarsi sulla superficie vitrea. Le edere fra i tronchi dei tigli sembravano velature stracciate. Il sole si era come appiattito nella foschia; la sua luce chiara avvolgeva ogni cosa, tramutandola in miraggio.

«Cosa è successo nel locale?» chiese, rinunciando a capire perché fossero lì. «Con le ragazze? Hai per caso...»

«Sono tutti upiri» lo sentì mormorare, il tono della voce quasi trasognato, come se stesse scivolando nel sonno. «Questa città... è una città di upiri

Dalla sua posizione, Andrej girò il capo. «Upiri? Intendi... ricchi sfruttatori?»

Sereb sgranò un occhio per guardarlo. «Cosa?»

«È un modo di dire. Lo usano in Siberia.» Lui l'aveva sentito in bocca a Lukas, più di una volta. «Per indicare i ricchi che succhiano il sangue della società come gli antichi vampiri delle leggende. Gli upiri umani, già: più pericolosi di qualsiasi essere mitologico.»

Anche questo gli aveva detto Lukas.

Sereb non rispose. Si limitò a scrollare il capo rivolgendo lo sguardo verso il cielo nudo. Andrej, invece, si agitò.

«Aspetta, aspetta! Questa è una parola russa, non come quell'altra che hai tirato fuori l'altra volta. Forse vuol dire, se la conosci... vuol dire che vieni dalla Siberia!»

«Non me lo ricordo» ammise lui, il tono stanco, ancora impastato.

«Avevo ragione! All'inizio, da lupo intendo, mi eri proprio sembrato un siberiano e i tuoi occhi... i tuoi occhi sono così neri. Certo, certo, così si spiega tutto. In Siberia ci sono ancora tanti branchi che cacciano nella steppa, branchi liberi non legati a nessun clan. Magari tu e i tuoi compagni avete incontrato degli umani e...»

«Ricordo un fuoco.»

«Eh?»

Andrej si girò di nuovo a guardarlo. Sereb aveva chiuso gli occhi e stava disteso sull'erba in una posizione di abbandono, come esanime, privo di forze.

«Ricordo un fuoco» continuò. «Insieme a quella stanza bianca ho cominciato a sognare il fuoco, un fuoco diverso da quello di cui vi ho parlato, a te e quell'uomo, il Vor... prima mi sembrava di vedere un fuoco che bruciava nella steppa, il mio branco che correva, ma non sembrava reale, capisci quel che intendo? Era come se fosse il ricordo di qualcun altro.»

Andrej in realtà non lo capiva, ma non ribatté. Lo lasciò parlare.

«C'è una differenza tra quei ricordi e questi sogni. I sogni sembrano reali, più reali di qualsiasi cosa. E so che c'entra lei.»

«Aspetta» lo interruppe. «Con lei intendi...»

«Quella ragazza. Anche lei è nei miei sogni. Siamo insieme nel bianco e non riusciamo a gridare.»

Sereb sbarrò gli occhi, all'improvviso. Fece per raddrizzarsi, ma Andrej, notando il suo pallore, esercitò una leggera pressione contro la sua spalla e lo costrinse a rimanere sdraiato.

«Aspetta, non alzarti. Hai bevuto troppo. Hai giramenti di testa?»

«Sto bene» mugugnò lui, ma era più pallido di un cencio lavato, gli occhi lucidi e un leggero velo di sudore sulla fronte e sulle labbra.

Andrej si alzò. «Vado a prenderti un po' d'acqua.»

L'acqua dello stagno, sapeva, veniva depurata quotidianamente da un impianto installato anni prima. Mise le mani a coppa e le immerse nell'acqua per prenderne un po' e portarla a Sereb. Lui la bevve direttamente dai suoi palmi, senza tante cerimonie.

Un pensiero bislacco attraversò la mente di Andrej mentre lo dissetava: sembra il mio cane e io il suo padrone.

Il suo padrone... o il suo compagno...

Vide di concentrarsi sull'operazione. Aspettò che finisse di bere e si risedette accanto a lui. L'aria era ancora fresca, priva di qualsiasi traccia umana.

Sarebbe bello se fosse sempre così, fu un altro pensiero che ebbe, sfuggito alle maglie della mente come un pulviscolo di polvere.

«Cosa stavi dicendo? Ah, sì, la ragazza. Aisha, si chiama. La sogni?»

«Sì...» bisbigliò Sereb. Aveva di nuovo chiuso gli occhi. «Credo di sì, almeno.»

«Dovresti parlarle. Dovremmo parlarle.»

«Non lo so...»

Andrej fece leva sulla sua incertezza – anche questo atteggiamento era una novità di cui approfittare.

«Stammi a sentire: lo so che è tutto molto strano, ma ci sarà una spiegazione perché adesso la sogni. O perché l'hai sognata prima – cos'era, una visione, l'hai chiamata così? Ci sarà un motivo perché sei così sensibile al suo odore. Se non vuoi parlarle perché prima vuoi capire, potremmo chiedere a Raisa di aiutarti a recuperare la memoria.»

«Come?»

«Ci ho pensato questi giorni.» Andrej ci aveva pensato davvero: non aveva fatto che arrovellarcisi dal giorno dell'iniziazione. «Non c'è nessun vulkulaki a Mosca in grado di far recuperare la memoria, me l'ha detto la stessa Raisa quando gliel'ho chiesto – c'è giusto un certo Viktor, uno dei più fedeli dei Khlysty, in grado di cancellare la memoria, e Bogdan riesce a manipolarla. Però ci sono vulkulaki capaci di entrare nella testa delle persone, risvegliare cose nascoste. Magari c'è un modo... non lo so, è solo un'ipotesi, ma forse c'è un modo per farti tornare in mente almeno qualche frammento del tuo passato e capire perché sei arrivato qui. Ci dobbiamo quantomeno provare. Lo posso chiedere a lei, che conosce tutti i senzienti dei Khlysty, sparsi un po' per tutta la Russia. Che ne pensi?»

Sereb non rispose subito. Aveva aperto gli occhi di uno spiraglio. «E se quel che ricordassi fosse... terribile?»

Doveva esserci qualcosa di strano nell'alcol che aveva bevuto, pensò lui. Da quando lo aveva conosciuto, non lo aveva mai visto così. Sembrava quasi un bambino, ora, fragile e indifeso, due aggettivi che non gli avrebbe mai accostato.

«È vero, ricordare a volte è terribile» replicò, d'istinto. Quelle parole sorsero spontanee, come chiamate, e se ne sorprese lui stesso nel pronunciarle. Si sorprese ancor di più di quelle che seguirono: «Se potessi tornare indietro, beh, io sarei il primo a cui non dispiacerebbe avere un'amnesia.»

Sereb voltò appena il capo. «Cosa intendi?»

«Non sto dicendo che sia bello avere un'amnesia! È che quando non ricordi forse è tutto più semplice.»

Sereb si raddrizzò senza che Andrej riuscisse a impedirglielo. Si issò sui gomiti per avere il viso quasi alla sua altezza, gli occhi neri così gravi e fermi, non freddi però, occhi che, forse per la prima volta, stavano cercando di guardarlo davvero.

«Cosa ti è successo che non vuoi ricordare?»

Era strano. Tutta la situazione era strana: per Andrej già solo il fatto che un tipo impettito come Sereb si fosse messo a bere equivaleva alla comparsa del diavolo sul viale Sadovoe, ma che ora addirittura gli chiedesse qualcosa sul suo passato, che volesse sapere di lui...

«Se te lo dico, mi odierai ancora di più.»

«Io non ti odio» borbottò lui, e scosse la testa come a scacciare un cattivo pensiero.

Andrej fece un sorriso triste. «Ok, non mi odi, ma non ti sto neanche simpatico.»

«Perché sei ossessionato che tutti ti trovino simpatico?»

«Eh? Non sono ossessionato!»

«Invece sì. Da quando mi hanno catturato non hai fatto altro che preoccuparti di quel che penso di te. Cosa ti importa?»

«Non voglio che mi consideri un nemico. Anche prima volevo... volevo guadagnarmi la tua fiducia. Per tirarti fuori da lì.»

Prima che mi dicessero di ucciderti, pensò, ma non lo disse.

«Non avevi bisogno della mia fiducia» ribatté Sereb, freddo. «Né prima, né ora.»

«Sai, si chiama avere rapporti civili con le persone. Forse tu hai perso contatto con la tua parte umana, ma tra uomini funziona così. C'è bisogno di fiducia quando si deve fare qualcosa insieme o anche solo per confidarsi.»

«Se non vuoi parlare, non parlare. L'ho chiesto solo...»

«Non è che non voglio parlare.» Andrej in realtà non sapeva affatto cosa volesse. «Solo che non è facile. Io... io sono molto diverso da te.»

Quella era la scoperta dell'acqua calda, pensò, ma Sereb non commentò, allora continuò.

«Non sono vissuto in un branco, non ho mai saputo niente dei vulkulaki fino a quindici anni e anche ora che ne ho passati venti... non credo ancora di averci fatto pace. Con questa seconda natura, intendo. Perché per me è solo questo: una seconda natura, qualcosa da nascondere, che mi è successo e non sento davvero mio, qualcosa che...»

... mi ha fatto male, pensò, ancora senza dirlo. D'un tratto sentì un sapore di fiele in bocca, amarissimo. Fu difficile trovare le parole per continuare.

«I miei genitori non erano vulkulaki. La madre di mia madre lo era stata e mia madre lo sapeva, ma non ne aveva mai fatto parola con nessuno, neanche con me. È una cosa rara, ma avviene: a volte il sangue di lupo salta una generazione, anche due o tre. Io l'ho saputo solo anni più tardi, quando sono venuto qui a Mosca, perché me l'ha spiegato Ljuba Vosikiev. Mi ha detto che è una rarità incontrare lupi come me, nati da genitori umani, ed è per questo che il mio potere è così debole. Posso teletrasportarmi da un posto all'altro, ma il mio raggio d'azione è ridicolo, giusto una manciata di metri, e non posso trasportare nulla con me. Persino i mezzosangue, i vulkulaki nati dall'unione tra un umano e un lupo, sono più forti di me. Ecco, se esistesse una gerarchia tra noi – che poi esiste –, io sarei nell'ultimo gradino, un lupo sì, ma uno di quelli che vengono scambiati per cani.»

Disse quell'ultima frase con una scrollata di spalle, il tono leggero e indifferente. Sereb non smetteva di fissarlo.

«Io li cacciavo, i lupi» continuò e fissò attentamente la reazione dell'altro. A parte una breve contrazione al lato della bocca, Sereb non palesò nulla. «I miei genitori avevano una dacia, ma mio padre per guadagnare di più catturava lupi e cani selvatici. I lupi li vendeva alla Mafiya di Mosca, i cani li usavamo nelle lotte clandestine. Di lupi in realtà ne trovavamo pochissimi. Ne avrò visti solo una decina per tutto il tempo che sono rimasto nella dacia, tutti esemplari disperati che si erano spinti nei dintorni di Mosca per la fame. Qua non è come altrove, in Siberia, per esempio; non ci sono più lupi in cattività, per questo quando Sergej e gli altri ti hanno trovato gli è sembrato un miracolo. Mio padre si dedicava più ai cani: di quelli ne trovavamo molti, in strada o nei boschi, randagi resi duri dalle intemperie. Li allevavamo per farli combattere. Aiutavo mio padre da piccolo. Un giorno prendemmo questo cane...»

Esitò, per la prima volta. Non aveva mai raccontato quella storia a nessuno; l'aveva cancellata, raschiata via come aveva fatto con altri ricordi del passato. Pensava quasi di averla dimenticata.

«Era un mezzo lupo. Sono passati anni, ma ne sono ancora convinto. Più lupo che cane: un cane lupo cecoslovacco, un incrocio tra il lupo carpatico e il cane lupo di Saarloos. Era bellissimo. E letale. Ecco, in questo era diverso da un lupo. Sai benissimo anche tu come lottano i lupi: seguono dei rituali fissi e raramente arrivano a uccidersi o anche solo a ferirsi in maniera grave, ma quel cane o altri cani che allevavamo quando lottavano fra loro lo facevano per uccidere. Li addestravamo perché fossero così. Mio padre mi diceva che dovevano diventare cattivi fin da piccoli. Li lasciavamo al buio, tre o quattro giorni senza mangiare. Bisognava fargli imparare bene il dolore perché altrimenti non avrebbero combattuto fino in fondo.»

Altrimenti si fanno fottere, gli diceva suo padre accompagnando quella frase a uno sputo per terra. Una volta aveva messo un cane in un sacco e lo aveva preso a bastonate fino ad ammazzarlo. Aveva ordinato anche a lui di colpirlo. Andrej aveva otto anni.

Sempre guardando Sereb negli occhi, pronto a cogliere il suo disgusto e il suo odio, proseguì.

«Lo avevo chiamato Fenrir. Il cane, dico. Come il dio nordico. Poco originale, lo so. Non è che brillassi per originalità o qualsiasi altra cosa a quindici anni. Era il cane da combattimento perfetto. Era feroce di suo, era il suo istinto. Quando lo prendemmo era appena un cucciolo e non ci fu bisogno di un grande addestramento. Mi limitai a rinforzargli i muscoli della mascella facendogli addentare copertoni di macchine e lo addestrai a uccidere i suoi simili – all'inizio gli mettevo un gatto davanti, dopo avergli piantato negli occhi una lampada, poi man mano con mio padre gli insegnammo a rincorrere i cani presi da un canile. Il mio compito era vedere, cronometro alla mano, quanto ci metteva a sbranarli.»

Non sapeva perché stesse rivelando tutti quei dettagli. Forse perché l'espressione impassibile di Sereb invece di rincuorarlo lo irritava. Aveva quasi la tentazione di allungarsi, afferrarlo per il colletto della camicia e scuoterlo; sibilargli, tra i denti: Visto? Hai sempre avuto ragione a considerarmi un venduto, uno schifo umano. Guarda cosa facevo. Lo vedi? Mi vedi?

«Ce ne accorgemmo subito, io e mio padre, che Fenrir era diverso dagli altri. Dal primo combattimento. I cani lupo sono imprevedibili, ma lui era disciplinato e aveva una freddezza strana a vedersi, quasi umana. In pochi mesi vinse un sacco di gare, massacrò anche campioni di Mosca e San Pietroburgo. Mio padre gli dava da mangiare la migliore carne cruda che avevamo e ogni tanto gli iniettava della droga – è una cosa che si fa, non la kradija però, la kradija li ammazza, i cani – e, non so, magari fu anche quello ad aiutarlo. Le uniche volte che esitava, per cui dovevamo pungolarlo con degli spilloni, era nei numeri di apertura, prima delle gare vere e proprie, quando nell'arena venivano messi dei randagi da fare a pezzi. Per il resto invece non aveva remore. Il giorno che quasi tirò le cuoia stava combattendo contro un molosso, un mastino grosso quanto un lupo vero. Erano entrambi ricoperti di sangue e, all'improvviso, me lo ricordo, si fermarono. A volte capitava. Mio padre me lo diceva. Forse la stanchezza, forse il sangue perso, forse perché capivano, per un attimo, cosa stavano facendo, che si stavano uccidendo...»

Sereb continuava a stare in silenzio e Andrej non capiva. Non capiva neanche perché lui invece non smettesse di parlare.

«Il mastino era forte, Fenrir non mollava, ma non ce la faceva più. Stava morendo dissanguato, me ne accorsi e quasi scesi nell'arena per tirarlo fuori. Però il mastino morì prima di lui. Forse il suo padrone gli aveva iniettato una dose di troppo perché cadde tramortito, così, morto di stecco, come per un infarto. Fenrir a malapena si reggeva in piedi. Non ci vedeva più da un occhio, aveva le orecchie maciullate e un osso che gli usciva dalla zampa. Mio padre mi disse di sopprimerlo. Ormai era moribondo e, anche a curarlo, non si sarebbe mai ripreso. E allora io... non lo feci. Andai da un veterinario, di nascosto da mio padre. Fenrir ci mise un intero mese per guarire. Quando lo riportai a casa ero tutto orgoglioso.»

Come non gli capitava da anni, si rivide quel giorno: un ragazzino alto e allampanato, baldanzoso in quel modo stupido e pericoloso, che entrava nella stalla dove stava suo padre con appresso il suo cane resuscitato, un cane che da quel giorno non sarebbe più riuscito a mangiare che carne macinata e riso, senza più il morso d'acciaio che lo aveva reso un campione. Era vivo però e a lui sembrava l'unica cosa importante, l'unica che contasse, come se si trascinasse dietro, con le sue zampe malferme, un'energia buona, un senso di riscatto – la speranza.

Suo padre non aveva detto niente. Se ne era stato in impietrito silenzio a guardare Fenrir per un tempo interminabile. Poi, aveva infilato una mano nella tasca della giacca e aveva tirato fuori la sua pistola, una vecchia Tokarev TT-33 semi-automatica. Gliel'aveva passata, gli aveva detto che era sua, che era arrivato il momento di usarla.

Uccidilo, si era limitato a dire.

«Mi sono trasformato quel giorno, quando mio padre mi ordinò di uccidere Fenrir. Non so... come successe... ricordo solo che ero arrabbiato e avevo così paura... Mi sono ritrovato per terra in preda ai contorcimenti e mio padre era lì in piedi che mi fissava terrorizzato. Come se non mi vedesse, capisci? Come se non mi vedesse più.»

Per la prima volta si chiese cosa dovesse aver provato suo padre quel giorno nel ritrovarsi davanti agli occhi un lupo dove prima c'era suo figlio. Non ci aveva mai pensato più di tanto perché era stato tutto così veloce, repentino, e non aveva più voluto ricordarlo. In un certo senso aveva voluto credere non fosse mai avvenuto. Che suo padre non si fosse slanciato per prendere il fucile e puntarglielo contro. Che sua madre non avesse aperto la porta della stalla in quel momento.

«Mia madre...» iniziò, ma faticò a continuare. Ebbe l'impressione che tutte le parole che gli vibravano in gola gli rimanessero impigliate nel fondo, come un pugno chiuso, come un roveto.

«È morta?» gli chiese Sereb con semplicità.

«Ha provato a salvarmi. Quel giorno... aveva sentito le grida, ha aperto la porta, si è messa tra me e mio padre... lui non voleva ucciderla, lo so, ma io... io non ci ho visto più, non ero in me o forse lo ero, non lo so, so solo che... che è per questo che...»

«Hai ucciso tuo padre?»

«Sì» rispose e tacque a quel punto. La gola gli bruciava, sentiva la terra mancargli da sotto i piedi. Forse per la prima volta, davvero, era senza parole. Aveva indicato il dolore a qualcuno che non fosse se stesso e gli sembrava sconcertante. Era una novità, una vertigine – assomigliava a un reato.

«Mi dispiace» disse dopo un po' Sereb e Andrej, che aveva fatto scivolare lo sguardo tra i tigli, ritornò a guardarlo, allibito. «Non me l'avevi raccontato così, la prima volta.»

«Non ci conoscevamo ancora, la prima volta.»

Sereb assentì. Un cenno del capo quasi brusco.

«E il cane?»

«È scappato. L'ho rivisto qualche anno più tardi, quando sono ripassato alla dacia. Lo aveva preso una famiglia, aveva dei cuccioli. Ho pensato a un'allucinazione e invece era vero.»

Sereb fece un altro cenno col capo.

Andrej si sentiva adesso stranamente tranquillo, quasi fosse al termine di una lunga corsa o di una scalata sul fianco di una montagna, dopo aver camminato per ore in carenza di ossigeno e aver infine trovato, alla sua meta, l'aria pura e azzurra.

Il sole brillava nel cielo come un occhio opaco. Era sceso un nuovo giorno su Mosca.

«Dovremmo andare, fra poco verrà gente.»

Andrej si alzò e si guardò intorno. Non si vedeva anima viva, c'era ancora il silenzio, ma non sarebbe durato a lungo, lo sapeva.

Sereb lo imitò, issandosi un po' a fatica. Aveva i capelli scarmigliati, qualche filo d'erba incastrato tra le ciocche. Per l'ennesima volta Andrej ebbe la tentazione di allungare una mano per sfiorarlo e per l'ennesima volta si trattenne.

«Allora ti va bene provare a recuperare la memoria? Posso parlarne con Raisa?»

Sereb non rispose: si limitò ad annuire di nuovo. Andrej si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto.

Quando erano già sul sentiero, dopo aver messo parecchi metri tra loro e lo stagno, Sereb, che lo seguiva a pochi passi di distanza, parlò: «Non ti ho mai ringraziato per avermi liberato.»

Quella doveva essere la notte – anzi, ormai il giorno – delle sorprese. Andrej per poco non inciampò sui propri piedi. Si volse a guardarlo, consapevole di avere il più puro sbigottimento dipinto in viso.

«Non c'è bisogno» balbettò e tagliò l'aria con un gesto impacciato. «Non serve, davvero. Non l'ho fatto perché mi fossi grato.»

Sereb lo guardava. Il suo era uno sguardo difficile da reggere in condizioni normali, eppure quel giorno sembrava diverso. Forse per via della luce che cadeva su di lui, sul parco, tra le ombre dei tigli; la luce che si sfrangiava in riflessi abbacinanti sul selciato e gli ammorbidiva i lineamenti alteri, si scioglieva tra i suoi capelli bianchi e ne ritagliava la sagoma, solida e incorporea al tempo stesso, contro il cielo azzurro.

«Facciamo che mi ringrazierai un'altra volta, eh?» propose Andrej. «Mi ringrazierai per qualcosa di diverso da un obbligo tra simili. Qualcosa di più vero. Che ne dici?»

Sereb ancora una volta annuì.

«È una promessa.»

Il libro a cui si riferisce Andrej è Il Maestro e Margherita di Bulgakov: è incentrato sulla visita di Woland, il Diavolo, che si presenta nell'Unione sovietica degli anni '30 sotto le vesti di un turista straniero. Un capolavoro della letteratura russa (e mondiale) che consiglio vivamente se non lo avete mai letto. 

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