XXI. Chi piange nella notte - prima parte

Quel posto era l'inferno, lo capì in pochi secondi. E dire che lo chiamavano "paradiso".

Sereb perse di vista Andrej appena arrivarono. Neanche il tempo di attraversare l'ingresso che vide Novikh trascinarlo via. Colse lo sguardo del suo simile prima di seguire l'umano, azzurro e trasparente. Sembrava volergli urlare qualcosa. Stai attento, forse. Torno subito.

Il locale era buio, ogni tanto una scarica blu attraversava l'ambiente illuminando i corpi accalcati. Sollevò gli occhi e vide luci tonde incastonate nel soffitto di vetro; davano l'impressione di essere piscine vuote ribaltate. Per tutta la sala c'erano tavolini e poltrone seminati attorno a una pista; il loro ordine apparente non bastava a disperdere la sensazione di smarrimento che si avvertiva entrando. O forse era solo lui a provarla. Appena varcata la soglia, lo aveva aggredito un senso di vuoto nauseante.

«Sono i tuoi veri capelli?» gli chiese una delle ragazze.

Non aveva ancora capito i loro nomi: Novikh in macchina le aveva presentate sbrigativamente. Erano entrambe bionde, una più alta e coi capelli lisci, l'altra minuta e riccia. Era stata quest'ultima ad apostrofarlo. Lo guardava incuriosita da quando erano partiti.

«Sì.»

«Sono come quelli del Vor, anzi sono proprio bianchi! Forse anche tu sei mezzo albino. Non lo pensi anche tu, Vanessa?»

«Oppure si è preso un grosso spavento. Ho letto una volta che i capelli possono diventare bianchi dopo che si è stati terrorizzati a morte.»

«Perché, tu leggi?»

«Ogni tanto. Dovresti farlo anche tu, Irina.»

«E perché mai? Per essere più intelligente? L'intelligenza è così noiosa.» La ragazza riccia ridacchiò e rivolse a Sereb uno sguardo d'intesa. «Non lo pensi anche tu? Tutte le virtù alla lunga diventano noiose. Posso dirlo senza aver letto nessun libro.»

«Non hai tutti i torti» osservò l'altra, poi li invitò a seguirla lungo una scala che portava a uno spazio rialzato e privato, circondato da uomini alti almeno due metri. C'erano divanetti di pelle bianca e un tavolo colmo di cibarie e bottiglie infilate in secchielli di ghiaccio.

Sereb si sedette su uno dei divani, mentre le due aprivano le bottiglie e cominciavano a versarsi dosi generose d'alcol nei bicchieri. Continuavano a fargli domande, soprattutto la riccia chiamata Irina, a cui lui rispondeva a monosillabi.

«Come sei tetro!» commentò lei con un piccolo sospiro affranto. «Non somigli per niente ad Andrej, sai? Non solo fisicamente. Sei davvero suo cugino?»

In allerta, ecco come stava. Sul ciglio del divano come sul ciglio della conversazione, attento a qualsiasi gesto o parola potesse sfuggirgli. Potevano sembrare innocue ragazze, ma orbitavano attorno ai Novikh; non dovevano essere affatto ingenue e spensierate come volevano far credere.

«Sì, sono suo cugino. Alla lontana.»

Lei avrebbe voluto chiedergli qualcos'altro, si vedeva, ma fu interrotta dall'arrivo di un uomo affiancato da due tipi robusti. Sereb non lo aveva mai visto: alto e biondo, una figura che risaltava anche in quella calca. Notò una vaga somiglianza con Sergej Novikh, i colori, forse, la postura eretta di chi si crede il padrone del mondo, ma i suoi occhi erano freddissimi e vigili, occhi che sembravano poter svelare un uomo fin dentro le viscere.

«Aleksandr, ciao!» Entrambe le donne salutarono il nuovo venuto con brio, invitandolo a sedersi. Lui rifiutò con un cortese cenno del capo. Si guardava attorno.

«Dov'è Sergej?»

«È andato nella sua ala privata. Aveva delle faccende da sbrigare.»

«Sì, immagino quali» replicò l'uomo con una mezza smorfia. I suoi occhi azzurri si posarono su Sereb. «Chi sei tu?»

«Oh, un amico.» La ragazza chiamata Irina si sporse per sfiorargli il braccio e dargli un pizzicotto, gesto che fece irrigidire all'istante Sereb. «Un campagnolo. Gli stiamo mostrando la civiltà di Mosca. Ce l'ha chiesto tuo fratello.»

Fratello? Quel tipo era il fratello di Sergej Novikh?

«Si mette pure a far da guida turistica ora? Ma bene. Sono sempre impressionato dai mille modi che trova per non rendersi utile. Qual è il tuo nome, ragazzo?»

«Sereb Lazarev.»

«Ah, Lazarev.» L'uomo assentì, come a confermare una teoria. Aveva sempre quella smorfia appesa sulle labbra. «Imparentato con Andrej Lazarev? Suo cugino? Capisco ora. Beh, ragazze.» Si rivolse alle donne, perdendo interesse per lui. «Dite a Sergiski, appena concede l'onore di rifarsi vivo, che sono passato e ho bisogno di parlare con lui. Niente stronzate, ditegli anche questo. Sono stanco di star dietro a tutte le sue stronzate.»

L'uomo se ne andò, seguito dai due macisti. Sereb lo seguì con lo sguardo. Vide che si dirigeva verso un'altra ala riservata di quel dedalo di divanetti e tavolini, protetta da cordoni e da altre guardie del corpo. C'era un uomo che lo accolse, un uomo alto, scuro di capelli e dai tratti orientali.

Non si trattenne dal chiedere: «Chi è quello?»

«Chi, il Russo?» Irina ridacchiò. «Non conosci nemmeno lui? Beh, in effetti anche molti moscoviti non lo conoscono. Non si fa vedere granché da queste parti, Zatlan Heng. Gli Heng saprai chi sono, no?»

Scosse la testa e vide di adottare un'espressione smarrita. «Non conosco nulla della Mafiya. Andrej ha provato a spiegarmi, ma, sapete, ho sempre vissuto in campagna, mi sembra tutto così complesso...»

Le sue capacità di simulazione erano irrisorie, ma non ci voleva molto a fare la parte del beota e loro erano abbastanza brille da cascarci.

«Zatlan Heng è il figlio di Jian Heng, il Vor dei Zanyiy. Li chiamano Ronin, gli Uomini onda» spiegò in tono quasi cattedratico quella Vanessa. Stava fumando una sigaretta dal lungo bocchino e leccò via un pezzo di cartina rimastole incastrato sulle labbra prima di continuare. «Sono più cinesi che russi, da sempre legati alle Triadi della mafia cinese anche per legami di sangue, e proprio come le Triadi seguono l'imperativo del "facai", "arricchitevi".»

«Oh, quante cose sai, Vanessa!»

«Io ascolto quel che dice Aleksandr, cara Irina, al contrario di te.»

«Quindi sono... compagni dei Novikh?»

«Compagni?» La donna sembrò trovare quel termine divertente perché scoppiò in una risata piena e rauca. «Nessuno qui è un "compagno", un tovarish, come si dice tra commilitoni. Sono tutti lupi che si guatano l'un l'altro.»

Una cosa che aveva notato: gli umani avevano molti modi di dire che contemplavano i lupi. Anche la notte come "lupa affamata" di cui aveva parlato Sergej Novikh... dov'era finito a proposito? Perché Andrej non tornava?

Continuò a interpellare le ragazze.

«E come funziona esattamente?»

«Che cosa?»

«La Mafiya. I gruppi. Come mai, se non sono compagni, non sono sempre in guerra tra loro?»

«Oh, tu non sai proprio nulla, vero?» Vanessa lo guardò con una certa condiscendenza, poi fece un gesto con la mano, ruotandola, come a dire che c'era fin troppo da raccontare. «Un tempo si facevano la guerra molto più spesso. In pratica sempre. Ed erano guerre vere, non come quelle di adesso, che possono essere considerate scaramucce di confine. Vere e proprie faide che finivano in carneficine, soprattutto a Mosca, San Pietroburgo, Vladivostok o Ekaterinburg. Poi un giorno il padre del Master Belyi, Sergej Novikh – non questo Sergej, suo nonno –, diede inizio a quella che è stata chiamata l'Ultima Faida – già, un'eco dell'Ultima Guerra –, l'ultima grande faida da cinquant'anni a questa parte tra i gruppirovki più importanti. Sai come fece a vincerla, costringendo tutti gli altri grandi clan, Vosikiev, i Dazla, i Vrubel e gli Heng, a riconoscergli definitivamente la giurisdizione su Mosca?»

Ovviamente Sereb non lo sapeva. Scosse la testa; la guardava con attenzione.

«La Bratstvo non ha mai smesso di controllare il suo territorio. Tutti gli altri grandi Vor e i loro vory negli anni si erano man mano allontanati dai quartieri, delegando i traffici a capozona dalla dubbia fedeltà. Gli interessava solo una rendita fissa di denaro liquido e si limitavano spesso a prendere una tangente su ogni piazza. I Novikh no. I Novikh erano e sono vecchio stile. Trattano, importano, esportano, stipendiano, controllano fino all'ultimo rublo. La liberalizzazione, ho sentito dire una volta da Aleksandr, funziona, e neanche tanto bene, nelle democrazie, non in Russia che non è e non sarà mai una democrazia.» Fece una pausa, come studiata, prendendo una profonda boccata di fumo. «Sergej Novikh viveva a Mosca ma era originario del Krasnodar: grazie all'alleanza coi gruppirovki del Distretto Meridionale, in primis i Maliska e i Razin, e alla sua rete in tutta la Federazione, ha sconfitto il gruppirovka che prima controllava Mosca, i Cruscev. Ha poi costretto gli altri due grandi clan della regione della Neva, i Khlysty dei Vosikiev e i Krasnij dei Dazla, a ritirarsi. A Mosca ha importato il cosiddetto "metodo di Krasnodar": lo smercio di qualunque tipo di merce, dalla droga agli armamenti, a livello industriale e il finanziamento a corporazioni petrolchimiche e cibernetiche che lavorano in parallelo alla macchina burocratica e alle schiere militari dell'ex Komsomol. Ora anche la SAVKA, lo Stato Maggiore dell'esercito federale, è nel libro paga dei Novikh, ma questa è un'altra storia: la storia del padre di Aleksandr e Sergej.»

Sereb era moderatamente impressionato: aveva avuto ragione a pensare che non fossero ingenue ragazze, quantomeno quella che stava parlando.

«Upiri» gli scappò e loro lo guardarono interrogative.

«Cosa?»

«Niente» si affrettò a dire e, per mascherarsi ai loro occhi, allungò la mano a prendere un bicchiere, uno dei tanti che avevano messo sul tavolino.

Quella parola, upiri, gli era galleggiata in mente dopo quel discorso. Proveniva da un anfratto della memoria, come quell'altra, adhez. Ma se quest'ultima era emersa quando aveva visto quella ragazza all'iniziazione, non sapeva invece l'origine di upiri, perché ora gli fosse venuta in mente. Gli upiri erano i vampiri dalla sete di sangue smisurata delle leggende russe. Cosa c'entravano con quel che aveva detto quella donna?

«Ci hai capito qualcosa?» gli chiese Irina.

«Più o meno. È tutto nuovo per me.»

«Son cose che sanno tutti» tagliò corto Vanessa. «Se ti interessa, chiedi ad Andrej: potrebbe parlare con Sergej e, chissà, trovarti un posto. I Novikh sono sempre alla ricerca di nuove leve e sanno ripagare generosamente. Meglio che sorvegliar galline, no?»

La sola idea di entrare in quel giro bastava a disgustarlo, ma annuì, sperando di suonare convincente, e bevve un sorso del liquido ambrato che stava nel bicchiere. Era spumante, gli disse Irina, ed era ghiacciato, frizzante. Gli andò subito alla testa: nello svuotare il primo bicchiere già vedeva l'ambiente attorno a lui tremolare. Anche le donne tremavano davanti ai suoi occhi, dorate e sguaiate, le loro risate fredde quanto la neve, una neve diversa da quella dei suoi sogni.

Era arrivato in quella città in una notte piena di neve, ricordò, il pensiero che stava cominciando ad allentarsi, sfrangiandosi in cerchi concentrici. Era arrivato alla ricerca di qualcosa che adesso non riusciva a ricordare. Tutta la sua vita, il suo passato, era immerso in un bianco indefinito, una pagina intonsa da riscrivere. Erano rimasti solo frammenti di memoria nella sua testa, immagini spezzate di un branco che correva, della steppa innevata sotto le zampe, di un cielo nudo che si spalancava. Di un fuoco all'orizzonte, incastonato tra nebbie siderali. E poi un ricordo più netto, quello di una voce molto lontana, dal timbro maschile e severo.

La voce di un padre forse?

«Immaginati un gruppo di lupi, mal'chik» diceva quella voce, chiamandolo "ragazzo" quando lui non ricordava, no, di essere mai stato un ragazzo, un umano... «Un gruppo messo piuttosto male, che non mangia da tempo. Il vecchio lupo capo branco cerca di tranquillizzare tutti: fra poco avvisteremo un po' di cinghiali, vedrete, fra poco i nostri denti affonderanno nella carne morbida e la nostra pancia sarà piena. Ma c'è un giovane lupo che non ha nessuna voglia di aspettare. Decide di uscire dal bosco e andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo prova a fermarlo, ma il giovane lupo è ribelle come solo i giovani sanno essere e non lo ascolta. Una volta approdato al villaggio, gli uomini cominciano a nutrire il giovane lupo coi loro avanzi e ogni volta che lui si riempie lo stomaco pensa di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però lo prende il sonno e rimanda il suo ritorno finché non dimentica la vita di branco, il piacere della caccia, l'emozione di dividere la preda con i compagni.»

A questo punto la voce si fermava, seguiva il rumore di un profondo respiro – le storie hanno bisogno di essere respirate, non solo ascoltate – e proseguiva con quella bassa intonazione, come una cantilena, o una preghiera.

«Il giovane lupo comincia ad andare a caccia con gli uomini. Un giorno, durante una battuta, un lupo viene ferito e cade a terra. Il giovane lupo corre verso il suo simile per portarlo al suo padrone e, mentre cerca di prenderlo con i denti, lo riconosce: è il vecchio lupo. Si vergogna, non sa cosa dirgli. È l'altro a riempire quel silenzio con le sue ultime parole: "Ho vissuto la mia vita come un lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, così adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la libertà per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi, né a quello degli uomini... Cosi capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più".»

Si riscosse con un sussulto, tornando in sé, vacillante e frastornato. Ritornarono anche le voci, le donne, il buio del locale, quel senso di smarrimento e nausea incipiente. Guardò il bicchiere che teneva in mano e lo avvicinò alla bocca.

Io sono un lupo degno, fu l'ultimo pensiero compiuto che ebbe, i denti contro il freddo bordo di vetro, e poi continuò a bere senza più ricordare nulla.

Ed eccomi qui, finalmente ho aggiornato.

La storia del lupo degno riportata da Sereb è un'antica fiaba siberiana. Ho linkato nel capitolo la versione originale; io l'ho giusto un po' rimaneggiata ;)

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