XX. Nel limbo - prima parte

Adhez

Si trovava in una stanza ampia e bianca. Del suo corpo non aveva percezione: si sentiva pura coscienza, librato in un'aria rarefatta, senza consistenza.

C'era di nuovo quel freddo.

... quale freddo? Conosceva quel posto? Ci era già stato? Ora perché ci era tornato? Era forse finito in un sogno?

Un silenzio gelido e informe si spandeva tra le quattro mura della stanza spoglia. C'era una sagoma distesa su un lettino. Un respiro si levava, tiepido e sottile, si perdeva nel bianco; anche lui era immerso nello stesso bianco, confuso in quel vuoto abbacinante, inconsapevole dei bordi della realtà ai quali aggrapparsi. Forse non c'era una realtà alla quale aggrapparsi: quel luogo era un limbo e il bianco di cui era fatto aveva un pallore diverso da quello della neve: non era un candore che pulisce, che salva, bensì un biancore che condanna; il silenzio di grida trattenute, l'afonia di cose mai dette.

Adhez

Aiuto...

Sereb sbarrò gli occhi ritrovandosi a guardare il bianco del soffitto. Dovette trattenere un conato di nausea. Si raddrizzò, le dita tremanti. Aveva l'intero corpo ricoperto di una pellicola di sudore freddo. Raggiunse il bagno in pochi passi e lì, inginocchiandosi a terra, vomitò la cena consumata quella sera – un'insipida borsch offerta dal suo coinquilino-carceriere.

Quando i conati finirono, poggiò la schiena contro il water e chiuse gli occhi. Mille puntini danzavano nella penombra delle palpebre disegnando immagini che non riusciva ad afferrare. Rivedeva il bianco, risentiva quell'assenza di odori, quel vuoto nauseante. Era sicuro che in quell'incubo, che aveva cominciato a sognare dal giorno dell'iniziazione della figlia di Vosikiev, ci fosse qualcuno insieme a lui...

«Sereb?»

Un fascio di luce strisciò nel bagno, lo vide socchiudendo un occhio. Sulla soglia, stagliato contro il lume smorzato del corridoio, Andrej Lazarev lo guardava con preoccupazione.

«Stai bene?»

Che domanda idiota, pensò. Stava per terra, sul pavimento di quel buco chiamato pomposamente "bagno", dopo aver rigurgitato una buona dose di succhi gastrici insieme a residui di borsch, e quello lì gli chiedeva se stava bene?

Non rispose.

«Ma hai vomitato! Oddio, non è che ti sta venendo l'influenza intestinale?»

Perché gli umani devono essere così stupidi? si chiese, scocciato. Tendeva a scordarsi di essere metà umano anche lui.

«Continuo a fare lo stesso sogno» disse una voce che faticò a riconoscere come propria. «Sono in una stanza bianca, c'è qualcun altro che non vedo, dice "adhez" e io non capisco.»

Era quella ragazza, quella che lo aveva portato a Mosca senza che lui sapesse perché? Sognava lei durante la notte quando le difese della sua mente si abbassavano?

Sentì Andrej borbottare qualcosa, poi distinse un: «Alzati, ti do una medicina.»

«Non voglio.»

«Almeno un po' di acqua e limone, allora. Per lo stomaco. Non boicottarmi sempre tutto.»

C'era una nota esasperata nel suo tono. Fu più per stanchezza che per persuasione che Sereb lo seguì in cucina, dove l'altro tirò fuori un bicchiere dal lavello, lo pulì alla buona e lo riempì d'acqua.

«Ehm, non ho il limone. Pensavo di averlo, ma...»

«Fa niente.»

Senza cerimonie afferrò il bicchiere che Andrej gli stava porgendo e bevve un lungo sorso, che gli rinfrescò la gola riarsa.

«Dimmi un po' com'è questo sogno.»

«Non ha importanza.»

«Io credo che ce l'abbia.» Andrej si era seduto e lo fissava, le palpebre socchiuse, una luce di curiosità mista a confusione incastrata nelle iridi. «Deve avere a che fare con quello che non ti ricordi, con quella ragazza. A costo di essere ripetitivo: e se le parlassimo? Perché non vuoi che ci parliamo?»

Sereb fece una smorfia. L'altro aveva insistito, anche subito dopo l'iniziazione della Vosikieva, che andassero a parlare con quella ragazza. Lui si era rifiutato perché... la verità era che non sapeva neanche come avrebbe potuto iniziare una conversazione. Cosa avrebbe potuto dirle, che la sognava? Che era convinto di averla già vista? Che qualunque cosa lo avesse portato lì, in quella città, aveva a che fare con lei? Lei non aveva dato segno di conoscerlo e lui ultimamente si fidava poco delle proprie sensazioni. Se solo avesse ricordato qualcosa...

«Mi fai paura così.»

Quella frase, un sussurro, lo riscosse. Fissò l'altro ragazzo, che continuava a guardarlo. I suoi occhi con quella penombra erano del colore del cielo prima dell'aurora.

Stava per aprire la bocca per dirgli di smetterla di fissarlo in quel modo – con timore? reverenza? non riusciva a capirlo –, quando il citofono suonò.

Era un suono impaziente, forsennato. Andrej saltò su, trattenendo un'imprecazione tra i denti.

«Ma chi è a quest'ora...»

Quando ritornò in cucina era pallido.

«Vai in camera tua e non uscire. Me la sbrigo in due minuti.»

Chiunque fosse, si vedeva che non poteva cacciarlo via. Sereb scrollò le spalle. Posò il bicchiere sul lavello e si avviò verso la propria camera. Una volta superata la soglia però non chiuse la porta. Rimase con uno spiraglio aperto così poté vedere, dall'angolazione che gli permetteva la posizione, la persona che entrò in casa.

Per poco non ringhiò.

Era quel tale, l'umano che lo aveva catturato. Quel tipo alto e biondo con gli occhi da cane sciolto. Così aveva pensato mentre era rinchiuso in quella dannata gabbia. Avrebbe voluto sbranarlo fin dal primo istante.

«Sergej!» La voce di Andrej, dietro l'apparente allegria, era nervosa. «Che ci fai qui?»

«Perché non rispondi al cellulare?»

«Mi hai chiamato? Ti giuro che non ho...»

«Hai una vodka decente in questo buco di fogna? Dai, dammi un sorso. Ti devo parlare.»

Li vide confabulare nel corridoio, a voce troppo bassa per sentire, e poi dirigersi verso la cucina. Fu più forte di lui: invece di chiudere la porta, isolando ogni evento, uscì. Non gli piaceva che quel tipo condividesse i suoi stessi metri quadri. La sua sola vista gli trasmetteva un odio incontrollato, vasto quanto viscerale. Non si era scordato la prigionia presso la druzina, come l'avevano trattato e come non vedessero l'ora di scuoiarlo. Non si era scordato neanche quel che l'uomo aveva tentato di fare con Andrej.

«Olè, chi cazzo è questo fantasma?»

Andrej, nel voltarsi e vederlo sulla soglia della porta, da pallido divenne cereo. Balzò quasi su di lui per allontanarlo.

«Nessuno! Nessuno! È mio cugino, è venuto in visita in città, è la sua prima volta. Ora lo mando...»

«Non mi avevi detto di avere un cugino» osservò Novikh mentre si accendeva una cicca senza chiedere il permesso. Il fumo gli uscì dalle narici avvitandosi in spirali. «Ma non avevano tutti tirato le cuoia nella tua famiglia?»

«Non proprio tutti tutti. Lui è un cugino alla lontana. Si chiama Sereb. Sereb, per favore, vai...»

«Un cugino alla lontana?» Qualcosa passò negli occhi stretti dell'uomo, il germe del sospetto. «Non vi somigliate per niente.»

Sembrava un'accusa e Andrej sembrava sull'orlo di un attacco di panico.

«Perché è alla lontana. Gli ho offerto ospitalità questi giorni. Te lo volevo pure presentare, pensa tu. Magari quando sarei tornato.»

Sereb strinse i pugni, scoccandogli un'occhiata, e Andrej lo guardò disperato.

«Uhm.» Novikh li fissava, poggiato contro il mobile del lavello, il sospetto per nulla smorzato nei suoi occhi slavati. Il suo sguardo era torvo, iniettato di sangue. A Sereb non piaceva come non gli piaceva nulla di lui, ma vide di rimanere impassibile. Non sapeva neanche perché era entrato in cucina. Sperava che la presenza di un'altra persona convincesse l'intruso a ritirarsi il più in fretta possibile.

«A proposito di quando torni» riprese Novikh, rivolto ad Andrej. «Devi tornare. La druzina è un bordello, io non sopporto più nessuno. Da quando quel lupo è fuggito vorrei ammazzare tutti. Che poi non ci credo manco per il cazzo che è sparito nel nulla. Qualcuno deve averlo trovato e adesso si starà godendo tutti i miei soldi. Giuro che se scopro...»

Andrej gli rivolse un'altra occhiata ansiosa, ma Sereb non mosse muscolo del viso. Guardava Novikh, immobile.

«Hai proprio l'aspetto di un fantasma» commentò l'uomo, interrompendo un attimo le sue imprecazioni per fissarlo. La sigaretta mezza consumata gli pendeva molle dalle labbra. «Sei albino? Sei più bianco di mio padre. Ma gli occhi... È tuo cugino di che grado esattamente?»

La domanda era rivolta ad Andrej, che rispose subito: «Terzo o quarto. Non mi ricordo bene. Molto alla lontana, sì. Non siamo in confidenza» precisò. «Sto facendo un favore a un mio zio. Sereb non ha mai visto Mosca e allora...»

«Non sei mai stato a Mosca?» Novikh sorrise, un sorriso storto. «E allora che aspetti? Portalo con noi stasera.»

«Portalo... in che senso? Stasera? Cosa...»

«Alzate il culo da questo tugurio e venite con me.» L'uomo si staccò dal mobiletto, schiacciando la sigaretta sul lavabo. «Qui a Mosca si dice sempre che la notte è una lupa affamata. Tu da dov'è che vieni?»

Prima che Sereb potesse rispondere, Andrej lo precedette: «Da Serghjev Posad. Pullula di miei cugini là. Senti però, Sergej, non è il caso. Cioè, io vengo, ma a Sereb non piace andare per locali, stava proprio per mettersi a dormire. Ecco, adesso va, dai un attimo a me per...»

«Va bene» lo scavalcò Sereb, tirando per la prima volta fuori delle parole davanti a Novikh. Fissava l'uomo, non il suo simile. «Vengo anch'io.»

Avrebbe potuto dire di voler scuoiare un lupo e Andrej sarebbe apparso meno sconvolto. Gli sgranò gli occhi in faccia, mentre Novikh iniziava a infilare la porta.

«Datevi una mossa. Vi aspetto fuori.»

«Ma che cosa ti è preso, si può sapere?» lo assalì subito Andrej appena l'umano uscì dall'appartamento. Lo fissava sgomento, allibito. «Vuoi uscire? Ma se non hai mai voluto uscire la sera in tutti questi giorni! E poi proprio con lui

«Voglio vedere come operano questi uomini» asserì Sereb, incrociando le braccia. «Quelli che mi hanno catturato, questa Mafiya che spadroneggia. Li ho visti solo da una gabbia.»

Voleva capire, conoscere il nemico. Li avrebbe uccisi tutti un giorno, ma non l'avrebbe fatto guidato dalla rabbia e dall'impulso. Non avrebbe fatto lo stesso errore due volte.

«Senti, se è una scusa per stare da solo con lui e sbranarlo...»

«Non riesco più a trasformarmi, ricordi?»

«A questo ancora non ci credo. E comunque per farlo fuori non c'è bisogno che ti trasformi.»

«Mi fermeresti nel caso?»

Sereb si volse verso di lui, gli piantò gli occhi addosso con un'intensità che, sapeva, lo avrebbe turbato. Infatti l'altro indietreggiò, quasi andò a sbattere contro il bordo del tavolo della cucina.

Lo aveva notato in quelle settimane: quando lo guardava come ora, dritto negli occhi, Andrej sembrava a disagio, in bilico su sentimenti difficili da decifrare, ritroso ma anche desideroso di un contatto.

Sereb faticava a capire quel ragazzo — e immaginava che la cosa fosse del tutto reciproca. I loro mondi, si vedeva, erano agli opposti. Per certi versi rappresentava tutto ciò che aborriva ed era solo perché si fidava ancor meno degli altri che aveva acconsentito a stare da lui. Eppure, nonostante le differenze, nonostante la diffidenza, se chiudeva gli occhi e si concentrava solo sul suo odore sentiva profumo di neve, di boschi vergini, incontaminati. Sentiva una purezza che non riusciva a spiegarsi.

«Se tu lo ammazzi, sarei morto nel giro di due secondi quindi, sì, ti fermerei eccome.»

Era una risposta che nella sua semplice logica Sereb poteva capire.

«Non lo farò. Voglio solo vedere questo mondo.»

Un mondo che non gli apparteneva, alieno e ostile. Un mondo in cui doveva immergersi, anche se solo con la punta delle scarpe, se voleva sopravvivere.

«Sono un disco rotto, ma davvero non riesco a capirti.» Andrej si passò una mano tra i capelli ed emise un sospiro rassegnato. «Va bene, andiamo. Niente sguardi strani, niente frasi strane, niente... cerca di non essere te stesso questa notte e stai sempre accanto a me. Mi hai capito? Non scherzo. Non mi lasciare.»

Non ti lascerò, avrebbe potuto dire. Erano parole tutto sommato semplici da pronunciare, ma sembravano troppo intime e quindi non le disse.

***

«L'ago deve penetrare così, perpendicolare alla pelle, due millimetri al massimo, non di più. Se sbagli l'angolo e vai troppo in profondità il colore entra nell'ipoderma e puff.» L'uomo fece un rumore, la lingua che schioccava contro il palato, e ridacchiò alle loro espressioni. «Non fate quelle facce. Non scoppia nulla, anche se in gergo si dice effettivamente che le linee "scoppiano". Il colore entra dentro, si espande e crea una specie di livido. Non puoi più rimediare dopo. Per questo non devi sbagliare.»

«E se sbagli?» chiese Sasha.

«Non fai questo lavoro.»

«Ma non puoi non sbagliare almeno una volta, soprattutto all'inizio.»

«Guardate qui.» Il tatuatore si sollevò le maniche della maglia, scoprendo gli avambracci su cui facevano mostra una sequela di ematomi del colore violaceo delle prugne. «Ecco tutte le mie prove. Quando ho iniziato, a tredici anni, non avevo certo supporti sintetici e la cotenna di maiale su cui ci esercitavamo noi apprendisti valeva il buco del culo di un khachi, senza offesa, ragazzo.»

Ilyas nemmeno ci fece caso. «Te li sei fatti tutti tu quei cosi?»

Il tizio annuì, orgoglioso. «Per esercitarmi, sì. Per diventare perfetto. Tatuare è un'arte.»

Lui non commentò, mentre invece Sasha chiese altri ragguagli, curioso e affabile. Da quando erano entrati nello studio del tatuatore, seguendo Kolja, il nobile non aveva smesso un attimo di fare domande, affascinato dal mestiere dell'uomo che gli stava davanti. Il suo nome era Aalim, non aveva detto il suo cognome. Veniva dalla Siberia.

«In Siberia verrei chiamato kol'sik, colui che punge, e nessuno direbbe che "faccio tatuaggi". I tatuaggi "si soffrono".»

«Oh.» Sasha era impressionato e non lo nascondeva. «Ho sentito parlare della cultura dei tatuaggi tra i criminali siberiani. Il capo della druzina – il nostro capo, intendo – viene da Novosibirsk e...»

«Conosco Lukas.» L'uomo sorrise nel pronunciare quel nome. «Non solo per i traffici della druzina. Sono stato io a "correggergli" alcuni tatuaggi negli ultimi anni. Gliene ho fatto anche uno nuovo l'anno scorso per quanto la prima volta che l'ho visto, lo ricordo, mi aveva detto che non aveva intenzione di farne più altri. Ma il tatuaggio è un linguaggio per noi, ciò che ci permette di raccontarci, di decifrare quello che sta sotto la pelle; la nostra lingua segreta. Si può forse abbandonare la propria lingua?»

Per essere un tatuatore era un tipo parecchio filosofico; Ilyas non se l'era aspettato. Quando gli avevano detto qual era la missione di quella notte si era aspettato tutto, sinceramente, tranne parlare di lingue segrete con uno che iniettava coloranti nella pelle di sconosciuti paganti.

«Ovviamente Mosca non è la Siberia, qui i tatuaggi si fanno per estetica, in ambienti sterilizzati, non certo con le bacchette che si usano in carcere tra i cosiddetti ladri della legge. Ma ogni tanto si incontra chi condivide le stesse idee. Tra i russi asiatici soprattutto. Il mio maestro veniva da Irkutsk infatti. È stato lui a insegnarmi la netta differenza tra il tatuaggio occidentale e quello orientale, l'esperienza del dolore fondante, quella di un'iniziazione simbolica e ancestrale. La sofferenza avvicina l'individuo alla morte; sopportare il dolore, attraversarlo, viverlo nella viva pelle, è al tempo stesso un'esorcizzazione e una liberazione.»

Sì, non c'era che dire: al tipo piaceva filosofeggiare. Altisonante e sommario, ma d'altronde non ci si poteva aspettare di più da uno che teneva quel bugigattolo sulla Komunalka refrattario alle norme igieniche standardizzate. Chissà, forse era una caratteristica di tutti i tatuatori lasciarsi andare alla filosofia spicciola dal retrogusto orientale. Sasha non era l'unico ad aver sentito parlare dei criminali siberiani, anche Ilyas ne sapeva qualcosa: sapeva per esempio che i loro tatuatori erano tenuti in gran considerazione, che nelle carceri assumevano quasi un ruolo sacro, non semplici pungitori ma coloro che erano capaci di trasformare in simboli le esperienze vissute dagli altri, rendendo in questo modo omaggio a una tradizione millenaria e da sempre ostile al potere costituito. Dove aveva sentito che gli antichi briganti delle foreste si tatuavano prima di assalire i convogli provenienti dalla Cina? Ne doveva aver parlato lo stesso Lukas, un giorno, nella druzina, mentre lui faceva finta di non ascoltarlo. Gli uomini tatuati si confondevano con i pellegrini e, non potendo acquistare croci, catene e immagini sacre, se le tatuavano. I tatuaggi erano un modo per mischiarsi e al contempo riconoscersi, un codice muto per rendersi fratelli.

Quella notte erano andati nello studio di quell'Aalim per conto di un clan mafioso minore, uno del libro paga della druzina, che aveva trovato nel tatuatore un originale canale di vendita. Aalim aveva creato un siero ricavato dalla kradija che iniettava nella pelle dei suoi clienti. Creava così tatuaggi che non solo parlavano una "lingua segreta" ma aiutavano gli uomini a entrare in "mondi diversi e meno tangibili" – così ne aveva parlato, sempre con quel piglio zen, quando Ilyas si sarebbe limitato a definirli "tatuaggi da sballo". Doveva ammettere comunque che era stata un'idea vincente e creativa; nel giro di pochi mesi i traffici di quel gruppirovka erano aumentati a livello vertiginoso e ora loro, in quanto scagnozzi della druzina, erano venuti a riscuotere, nonché ad assicurarsi che il tatuatore non facesse strani tiri, magari vendendo l'idea a clan rivali.

«Non volete provare?» Aalim, finito di pontificare, indicò la siringa che teneva in mano. Ne oscillava in equilibrio precario una goccia di inchiostro. «È uno dei miei strumenti speciali

«Oh, no grazie» si affrettò a dire Sasha. «Sarà un'esperienza sbalorditiva, lo immagino, ma evito la kradija. Mio cugino lo dice sempre: un bravo pusher la droga la vende, non la prende.»

Sorrise, un po' imbarazzato come sempre si mostrava quando parlava della sua famiglia. Ilyas non rispose. Guardava la siringa per una volta, la prima volta, tentato di provare. Si era sempre rifiutato nelle tante occasioni che gli si erano presentate in quel paese in cui iniettarsi dosi di droga nel plasma sembrava naturale come bere acqua. Non aveva mai voluto perdere il controllo. Si chiese ora cosa sarebbe successo se lo avesse perduto; se sarebbe stato così terribile o se avrebbe potuto non sognare, almeno per una notte.

Si riscosse da quei pensieri, distogliendo lo sguardo dalla siringa, quando Kolja Liperin fece il suo ingresso seguito da altri due della druzina.

«Abbiamo finito qui, tutto in ordine.»

«Ve lo avevo detto.» Il tatuatore sorrise. «I conti sono in ordine e i soldi sono giusti. Dovete controllare altro?»

«No. Grazie per la disponibilità.»

Ilyas un po' si rammaricò che non dovessero pestare nessuno. Non che glielo lasciassero fare a lui di solito. A volte gli sembrava di essere una bella statuina. Per quanto non apprezzasse lavorare per una druzina, detestava anche non far nulla e quindi quel tipo di lavori di fiacca a cui lo adibivano, ronde, giri di ricognizione, consegna delle merci e riscossione di soldi, sempre in compagnia di Kirayev poi, lo annoiavano.

Sasha gli si affiancò quando uscirono dallo studio.

«Incredibile, vero? Quanto ci scommetti che mio zio lo assolderà tra le sue fila?»

«Mm» commentò lui tanto per far capire quanto gli interessassero quegli intrighi da mafiosi.

«Tu hai mai pensato di farti un tatuaggio?»

«No» rispose d'istinto, poi esitò. «Forse.»

«Ah, sì?» Sasha sembrò entusiasta di aver trovato un argomento di conversazione. «E cosa hai pensato di tatuarti?»

Gli volteggiò per un attimo davanti agli occhi l'immagine del lupo nero dipanata sulla schiena di Lukas, un'immagine fragile eppure incredibilmente vivida. La ricacciò indietro all'istante.

«Niente.»

Non voleva pensare a quel lupo, a quella notte, a lui. Non ci aveva più voluto pensare da quando era uscito dal suo appartamento ed era intenzionato a proseguire con quella rimozione.

Sasha continuava a ciarlare intanto.

«Io pure ci ho pensato. Mi piacerebbe farmi qualcosa di significativo però, sai, non le solite cose. E niente a che fare con la mia famiglia. No, assolutamente niente che abbia a che fare con la mia famiglia. I miei fratelli si sono fatti tatuare entrambi una šaška, l'antica sciabola cosacca che è il simbolo della nostra casata. Che originalità, eh? Non potevano essere più banali neanche con mezzo cervello in due. Che poi Igor, quello che ha più droga che sangue nelle vene, se l'è tatuata sul sedere. Era fatto. Credo, almeno. Non riesco più a distinguere quando lo è da quando non lo è perché, in tutta sincerità, non penso ci siano più momenti in cui non lo sia...»

Ilyas si era abituato a lasciarlo parlare senza rispondergli. L'altro non sembrava irretito dalla sua scarsa collaborazione e lui stranamente non si sentiva così infastidito dalle sue confidenze. Continuava a irritarlo, certo, con quella sua aria da bravo bambino, da cucciolo non svezzato, ma doveva ammetterlo, dopo tutti quei mesi: Sasha Kirayev era il russo meno russo che avesse mai conosciuto. E per lui quello equivaleva a un complimento.

Stavano per riprendere le motociclette, a pochi metri di distanza dallo studio, quando una voce li fermò.

«Generalità, prego.»

Riconobbe subito il tono autoritario di un militare. Si girò senza sorprendersi nel trovare due soldati in divisa nel mezzo della strada, le facce bianche e anonime. Sentì un brivido attraversargli la colonna vertebrale – gli bastava vedere anche solo una mostrina, a volte, per provare l'impulso di scappare –, ma fece in modo di rimanere calmo mentre Kolja si faceva avanti.

«Cosa volete, soldati? Siamo membri di una druzina

«Le vostre generalità, per favore.»

«Eh? Non ci credete? Perché pensate che siamo in giro nel cuore della notte?»

«Abbiamo bisogno di vedere dei documenti. È l'ultima volta che lo chiedo» disse il soldato più anziano, un uomo alto e imponente, le guance giallastre che sembravano scavate con una sgorbia e occhi dalla fissità vacua che incutevano una certa soggezione.

Kolja cedette, anche se borbottando – era assurdo, mai gli era capitato di essere fermato dalle forze dell'ordine! –, e obbedì, seguito dagli altri. Ilyas porse il proprio documento malvolentieri, un oggetto che ne aveva viste tante negli ultimi due anni, attraversando frontiere e dogane, e di recente era stato rinnovato grazie ai Vosikiev, togliendogli l'incombenza di continuare a falsificare quell'odioso lasciapassare che gli permetteva di avere un'esistenza in quel paese, un seppur fragile e aleatorio stato giuridico. Non che per la Federazione facesse poi tanta differenza, lo sapeva. La sua vita non valeva più della sottile piastra metallica che ora quei due soldati stavano controllando.

«Kirayev?» domandò l'uomo che aveva parlato prima.

Sasha deglutì profondamente. «Già, sono il figlio di Lev Kirayev.»

Il soldato non fece altre domande. Passò a esaminare il documento di Ilyas, già vivisezionato dal suo collega. Dopo quell'attento scrutinio, lo tenne in mano, mentre gli altri li restituì.

«Lui viene con noi» annunciò e Ilyas non provò neanche sorpresa. In un certo senso se lo era aspettato dal momento in cui aveva visto le loro sagome apparire sulla strada. Il malessere che sentiva al centro del petto, quel nodo di paura e apprensione, non fece altro che compattarsi attorno al cuore.

«Cosa?» Sasha aveva gli occhi sgranati. «E perché mai? Perché deve venire con voi?»

«Questo documento non sembra vero.»

«Ma cosa dite! Certo che è vero! Diteglielo anche voi.»

Si rivolse a Kolja e agli altri uomini, che annuirono con vigore. Kolja aveva assunto un'espressione più dura, negli occhi le venature sanguigne di uno che stenta a stemperare la scocciatura.

«Tutto questo è assurdo. Il ragazzo lavora con noi da mesi e quei documenti sono veri. Sentite, probabilmente voi non siete di qui e non sapete come funziona a Mosca. Non siamo in una colonia militare, non c'è bisogno di tutti questi controlli. Non lo dico per criticare il vostro lavoro, sia mai, ho fatto parte dell'esercito anch'io. L'Ispettorato, per la precisione. Mi occupavo proprio della supervisione dei documenti, mentre il mio capo lavorava nel reparto di Sicurezza. Quindi credetemi che capisco lo zelo, ma non ce n'è bisogno. Consultate ora i vostri archivi e vedrete il mio nome, come quello del mio capo – Lukas Maraskin. Ci vuole un secondo e anzi possiamo telefonar...»

«Lui viene con noi» lo interruppe il militare, la voce atona e gelida, definitiva.

Si sporse per afferrare il braccio di Ilyas e lui non fece il gesto di scostarsi, sentendo un senso di impotenza dilagante iniettarglisi in ogni poro della pelle. Neanche rabbia riusciva a provare, quel sentimento che era sempre stato così naturale in lui, ma non in quel frangente. Non nell'esercito, di nuovo in quei confini in cui ritornava un numero tra tanti. Un anno, quasi due; era scappato da quasi due anni, eppure non era riuscito a liberarsi di quel cappio, pur con tutte le arie che aveva assunto, il disprezzo per le regole, l'illusoria sensazione di libertà che a volte aveva provato. Quegli anni gli avevano quasi fatto scordare chi era realmente, il posto da dove proveniva, ciò da cui non sarebbe mai riuscito a fuggire.

Sasha continuava a palesare la sua incredulità. Nella sua voce riverberava qualcos'altro: indignazione, pura e semplice.

«Lo state portando via solo perché è straniero!» sbottò, accalorato. «È solo per quello, altrimenti prelevereste anche noi. Cos'hanno di diverso i miei documenti, per dire? Potrebbero essere falsi anche quelli. Vi ho appena detto di essere il figlio di un Vor e mi credete così sulla parola? Se portate via lui, portate via anche me, non è affatto giusto...»

«Barchùk, non dire stronzate» sibilò Ilyas, recuperando facoltà di parola. Gli scoccò un'occhiata penetrante che ebbe almeno l'effetto di frenare quell'insensato flusso di parole. «Non fare il salvatore di questo gran cazzo. Piuttosto: avvisa mia sorella, dille di non preoccuparsi. Me la sbrigo in poche ore e ritorno alla base.»

Sperava di aver impresso nel tono la sicurezza necessaria. Ci mancava solo che quell'idiota col suo complesso del privilegiato di turno si mettesse nei casini.

«Dove lo portate?» chiese Kolja a labbra strette. «Questo abbiamo il diritto di saperlo.»

«Alla sede centrale della SAVKA.»

«È un cittadino della Federazione. Viene da una colonia militare di un territorio conquistato.»

«Dobbiamo solo fare degli accertamenti.»

Il soldato che lo teneva per il braccio sembrava esasperato. Non doveva essere abituato a essere ripreso mentre prelevava civili per strada.

Ilyas trovava il tutto ridicolo oltre che prevedibile e per questo ancora più deprimente. Kolja Liperin, in una parodia di rassicurazione, arrivò persino al punto di dirgli di stare tranquillo prima che i soldati lo caricassero in una macchina dalle insegne militari. Lui si limitò a ignorarlo e si sedette nel sedile posteriore mentre il più giovane degli uomini prendeva posto al suo fianco. L'altro si mise alla guida e partì, facendo stridere le ruote sull'asfalto.

Non parlò per tutto il tragitto. Guardava attraverso il vetro Mosca che scorreva buia e immota. Il guidatore gli lanciava ogni tanto occhiate dallo specchietto retrovisore. Disse al suo collega di aprire il finestrino.

«Non vomito, non vi preoccupate» fece allora Ilyas, la prima frase che rivolgeva a entrambi i soldati. Il tipo al suo fianco ebbe un moto sorpreso, l'altro rimase imperturbabile.

Ricordò il suo primo fermo, a Darial. Non doveva avere più di quindici anni. Lo avevano caricato insieme ad altri ragazzi dopo averli scoperti a rubare. Lui aveva saputo contenersi, un paio degli altri invece erano stati così spaventati da vomitarsi anche l'anima. Allora aveva capito perché i sedili delle camionette dei militari erano sempre senza imbottitura, ricoperti di plastica liscia. Una passata di disinfettante e via: andava via tutto, vomito, sangue e quant'altro.

Quando arrivarono alla sede centrale della SAVKA, fuori Mosca, era ancora piena notte, il cielo una nera distesa di stelle fredde e lontane. Dopo avergli sequestrato le armi, inclusi i pugnali, lo portarono in una cella che come unico pezzo di arredamento aveva una brandina di ferro. Gli dissero che doveva restare lì mentre facevano i loro "accertamenti".

Quando se ne andarono, Ilyas non si sedette; non riusciva a stare fermo. Cominciò a percorrere quei pochi metri quadri ad ampie falcate, cercando di mantenere il respiro fermo e la mente sgombra. Sapeva che l'importante era non farsi prendere dal panico. A Darial, dove vigeva la legge marziale e non c'era la Mafiya che scorrazzava libera come a Mosca, era stato abituato a quel genere di cose, i fermi e le nottate in prigione; gli era capitato di essere fermato persino quando era entrato nell'esercito – non ci credevano mai all'inizio che fosse uno di quegli abreki che avevano fatto carriera, un tenente addirittura; la sua pelle non doveva apparirgli abbastanza bianca per fantasie come l'emancipazione sociale. Fin dall'adolescenza era stato abituato a essere profilato, esaminato, guardato come uno scorpione saltato fuori da sotto un vaso. A Mosca, città più cosmopolita e meno controllata, poteva aver assaporato un clima diverso, ma non più di tanto.

Passarono forse un paio d'ore, forse qualcosa di più, prima che la cella si aprisse e due soldati, diversi dai precedenti, più giovani e smilzi, lo venissero a prendere.

«Posso andarmene ora?» chiese, il tono svogliato, fintamente sicuro.

Loro non risposero; lo guidarono fuori e lo fecero salire in un ascensore che percorse una decina di piani – li contò uno a uno – per approdare in un corridoio lungo e silenzioso. Le pareti erano spoglie come quelle della cella, c'erano tre porte per lato. Si ritrovò davanti all'ultima che si aprì dopo che uno dei due soldati bussò.

«Signore.»

Entrambi i militari si misero sull'attenti, rigidi e impettiti, davanti alla sagoma di un uomo che si trovava all'interno della stanza. Ilyas fu quasi tentato di imitarli e scoppiare a ridere, una risata isterica che sarebbe rimbalzata senza eco tra quelle pareti fredde.

Jagun Bezbòznij lo stava aspettando.

To be continued

Lo so, lo so, è da infami interrompere un capitolo così, ma su Wattpad già pubblico aggiornamenti superiori alla media, se mettessi i capitoli interi penso mi bannerebbero D:

Già lo dico, ma lo spiegherò meglio: il prossimo è un capitolo tosto. Non per quel che viene mostrato, bensì quel che viene ricordato, che sarà abbastanza pesante come forse si è capito dall'ultimo POV di Ilyas. 

Stay tuned e non abbandonate questi lupacchiotti proprio al momento del bisogno!

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