XVIII. L'iniziazione - prima parte
Adhez.
Nel silenzio la parola risuonava e riverberava come un sasso gettato in un pozzo o il suono di una lastra di metallo percossa dall'incudine.
Adhez.
Aiuto...
«Stai bene?»
Distogliendo lo sguardo dal vuoto in cui per un momento si era persa, Aisha trovò gli occhi di Sasha che la fissavano, un po' incerti.
«Sì» rispose e il mondo ritornò coi suoi contorni e i suoi colori. Anche il viso di lui tornò, lungo e pallido, dai lineamenti morbidi, una presa sicura sulla realtà.
«Non pensare a quel tipo» le disse, sedendosi accanto a lei. Ilyas era già seduto e perlustrava il resto della sala. «C'è gente strana in giro.»
«Solo tra voi russi» sibilò Ilyas, smettendo di squadrare l'ambiente circostante.
Avevano trovato una buona posizione in una delle file più alte di quelle gradinate, costruite, si vedeva, in un'epoca più recente della costruzione della fabbrica. La sala, che avrebbe potuto contenere almeno trecento persone per quanto era ampia, aveva un soffitto altissimo ed era fredda. La mancanza di una fonte di calore si sentiva anche se erano stati accesi dei fuochi. Le fiamme troneggiavano andando a sfiorare la calce del soffitto, lingue rosse fumiganti attorcigliate come belve in lotta tra loro. Per via dell'ombra dei fuochi l'atmosfera era sinistra, stagnante; Aisha si guardava attorno trovando solo facce estranee.
«La stranezza non è prerogativa dei russi» stava borbottando Sasha, al che Ilyas gli scoccò un'occhiataccia.
«Sarà che tutte le teste di cazzo le ho incontrate qui.»
«Tu sei così normale invece!»
«Voi russi credete sempre di avere diritto a tutto, è questo il vostro problema.»
«Come fa a conoscere l'ashkale?» si chiese lei, per nulla interessata al loro battibecco. Ne avevano uno ogni cinque secondi, tanto.
«Non ci pensare. Se lo rivediamo gli pianto un coltello nelle viscere.»
«Ilyas, smettila.»
«Cosa dovremmo fare? Quello non è ashkale, si vede, e non capisco perché...»
«Smettila di fare così.» La voce risuonò stranamente dura anche al proprio orecchio. «Prima non dovevi porti in quel modo.»
«Che cosa?»
«Me la so cavare benissimo da sola. Smettila di metterti sempre in mezzo.»
«Io voglio solo...»
«Non sono più una bambina. So badare a me stessa, quindi non metterti in mezzo.»
Sentiva Sasha, accanto a lei, che accennava un moto d'accordo.
Ilyas si rabbuiò, ma non replicò. Tornò a fissare davanti a sé con quello sguardo cupo. Era cupo da giorni, in realtà, da quando aveva rivisto il generale. Aisha cercava di capirlo, tentava di giustificare i suoi sbalzi d'umore e le sue maniere più irritanti di una pianta d'ortica, ma a volte era davvero difficile.
Videro una faccia conosciuta, finalmente, in quella torma di gente. Lukas Maraskin stava parlando con qualcuno a pochi posti di distanza da loro, in piedi. Sasha sventolò una mano in sua direzione. L'uomo li raggiunse pochi minuti dopo, il passo elastico, cadenzato, la luce dei fuochi che rendeva i suoi lineamenti, se possibile, più affilati e la forma delle spalle più ampia. Indossava una giacca scura di pelle e la sua piastra d'identificazione militare spezzata.
«Siete venuti alla fine.» Non fissava nessuno di loro in particolare, ma le parve – e fu strano rendersene conto – che evitasse di guardare nella direzione di Ilyas. D'altronde anche Ilyas stava guardando da un'altra parte.
Fu Sasha a rispondere: «Sì, vogliamo vedere, nessuno di noi ha mai assistito a un rito d'iniziazione.»
Gli occhi azzurri dell'uomo si posarono su di lei. «Neanche tu?»
Aisha scosse la testa. «Noi abitavamo solo con nostra madre, non in un clan. Lei è stata costretta ad andare via dal suo.»
«A volte succede. Un clan ti fa sentire al sicuro, legittimato quasi, e aggirarsi con un branco è certo meglio che aggirarsi da solo, ma a volte le maglie si fanno troppo strette.»
Parlava in generale, non sapendo quanto ci aveva preso. La madre di Aisha e Ilyas era stata scacciata dal suo clan perché si era innamorata di un umano, il padre di Aisha. Aveva preferito l'amore alla sicurezza, un uomo ai suoi simili, e aveva dovuto pagare un caro prezzo: la solitudine e l'esilio.
Una volta, lo ricordava ancora nonostante fossero passati anni – non poteva averne più di sei, Ilyas quattro più di lei –, alcuni membri del clan di sua madre erano venuti per portare via Ilyas. Lei se ne era andata, aveva ripudiato la sua specie, ma suo figlio era uno di loro, un vulkulaki puro. Erano entrati di prepotenza, nonostante le sue proteste; si erano chinati sul bambino, che era sfuggito nascondendosi dietro le gambe della madre. Aisha si era svegliata, destata dai rumori; vedendo la scena, era scivolata nell'ombra, accanto al fratello. Lui le aveva stretto la mano. Sua madre aveva riparato entrambi.
«Andatevene via da qui» aveva ordinato con solo un coltello in mano.
Loro erano in cinque, tutti uomini più forti di lei. Aisha ricordava ancora i loro volti, quei volti dai lineamenti duri e aspri, tipici della gente del Caucaso. Avevano esitato. Quegli uomini avevano esitato davanti a una donna e due bambini. Dovevano aver visto qualcosa negli occhi di lei che li aveva spaventati. Solo anni dopo Aisha aveva capito cosa.
Loro l'avrebbero uccisa, non c'era speranza per lei di sopraffarli. L'avrebbero uccisa e avrebbero portato via Ilyas, forse anche Aisha, che nonostante fosse il frutto di un'unione mista rimaneva comunque una potenziale vulkulaki. Sua madre però si era frapposta e aveva tirato fuori il coltello. L'avrebbero uccisa, sì, ma lei non se ne sarebbe andata senza portare almeno uno di quegli uomini con sé. E nessuno di loro aveva voluto rischiare di essere quell'uomo. Questo dovevano aver visto nei suoi occhi, in quella notte cieca.
«Godetevi lo spettacolo, ragazzi» disse Lukas, affabile. Si allontanò con un cenno di commiato e sia lei che Sasha lo salutarono, mentre Ilyas fissava gli spalti di fronte a sé, immobile e corrucciato.
«Non era un po' strano?» chiese Sasha, guardandoli. «Mi è sembrato diverso, a voi?»
«Sì, anche a me» concordò lei.
«Insomma, di solito fa sempre battute, non perde occasione di stuzzicare.» Lo sguardo del nobile si allungò fino a Ilyas. «A te non è sembrato strano?»
«Cosa vuoi che me ne freghi?» replicò irritato lui e Sasha si ritirò.
Guardò Aisha e abbassò la voce. «Per me hanno litigato.»
Di nuovo si ritrovò d'accordo. Assentì col capo.
«Deve essere stata una litigata grossa.»
«È difficile non litigare con Ilyas.»
Il diretto interessato a quel discorso si raddrizzò, fulminando entrambi.
«Cosa state bisbigliando voi due?»
«Niente, niente!» gli assicurò Sasha e ritornò a guardare in basso, il cerchio vuoto intorno a cui correvano gli spalti e che a breve sarebbe stato occupato dai Vosikiev. Le bisbigliò ancora, all'orecchio: «A volte mi chiedo, un po' per scherzo, come fai a sopportarlo tu.»
Lei sospirò, ma non disse nulla. Era vero: a volte, fin troppe volte, avere a che fare con Ilyas era difficile. Era complicato parlarci, conviverci, addirittura toccarlo in quei momenti in cui si sottraeva, insofferente a qualsiasi contatto umano. Per chi non lo conosceva quanto lei era semplicemente impossibile. Ma era suo fratello, la persona più cara che avesse. Era il ragazzo che per ben due volte l'aveva salvata. Prima dall'incendio del loro villaggio, poi a Darial, quando quegli uomini in camice bianco l'avevano imprigionata nei loro laboratori asettici. Come sua madre in quella notte di tanti anni prima anche lui aveva fronteggiato il pericolo e l'aveva tenuta al sicuro. Non era dovere: non lo faceva perché la loro madre gli aveva detto, prima di lasciarli per sempre, che dovevano proteggersi l'un l'altro, sopravvivere insieme. Era qualcosa di più viscerale, profondo e autentico, che Aisha si chiedeva a volte se avrebbe mai condiviso con un altro essere vivente.
Si girò verso di lui mentre le voci continuavano a rimbombare e le fiamme sibilavano alte contro il soffitto screpolato. Gli sfiorò il braccio.
Lui si voltò lentamente.
«Non mi piace che confabuli con lui» borbottò, tra i denti.
«Guardate che vi sento, sono qui» cantilenò Sasha, ma non si intromise. Stava lasciando loro quel momento.
«Non stavamo dicendo nulla di male» disse Aisha e raggiunse il suo polso, gli accarezzò la mano. Lui parve rilassarsi, fece persino una battuta a Sasha, che diventò quasi della stessa sfumatura dei capelli.
All'improvviso le voci tacquero. Se n'era levata una, capace di zittire l'intera platea. Ljuba Vosikiev era apparso al centro della sala, in quel cerchio che sembrava un'arena. La sua voce si elevava più alta del sibilo delle fiamme.
«Benvenuti!» esclamò e fu accolto da un ruggito di assenso. «Benvenuti all'iniziazione di mia figlia dinanzi all'unica deità che riconosciamo, la Madre Luna, che suggella il passaggio della nostra discendenza. Che possa continuare a regnare come hanno fatto i nostri avi.»
C'era uno squarcio nel soffitto. Aisha non lo aveva notato. Come una smagliatura si apriva sul cielo notturno e il lume della luna spioveva in obliquo, illuminando parte degli spalti e il volto del Vor. Dal nulla apparve sua figlia, quella Soraya con cui aveva parlato settimane prima alla Maslenitsa. Era sottile, vicino al padre sembrava inconsistente, i capelli così folti e neri da inghiottire ogni raggio di luna.
«Ma prima di presentare mia figlia al mondo» continuò Ljuba Vosikiev, «permettetemi di sfruttare l'occasione per omaggiare alcuni membri dei Khlysty che hanno dimostrato il loro valore e dato un contributo essenziale alla nostra causa.»
Un fremito di sorpresa corse tra la folla. Doveva essere una novità, nessuno se lo aspettava. Vennero chiamati, al centro della stanza, degli uomini. Cinque uomini e due donne per l'esattezza, che parevano i più stupiti di tutti ma coi volti atteggiati in un sorriso di trionfo. Aisha non li conosceva, non le sembrava di averne mai visto nessuno in precedenza. Forse quello biondo alto, alla Maslenitsa, o la donna dai capelli rossi tagliati corti e le labbra carnose, ma non ne era sicura.
Vosikiev fece spazio alla figlia. «Soraya.»
I vulkulaki erano disposti al centro, i Vosikiev, padre e figlia, stavano su una pedana rialzata, attorniati da guardie dei Khlysty. Lei fece un passo avanti, superando il Vor. In quello stesso istante gli uomini al centro dell'arena cominciarono a gridare l'uno contro l'altro.
«Cosa stai facendo?» Una delle donne, quella dai capelli rossi, tirò fuori la pistola. La puntò contro un uomo, gli occhi sbarrati. «Abbassala! Abbassala!»
«Io...» iniziò l'uomo, che non aveva nessuna arma in mano.
La sua voce venne inghiottita dal rumore della detonazione. Il sibilo di quel primo sparo riverberò alto, crepitante, il rumore di un tuono prolungato nel fitto degli alberi. L'uomo cadde come un sacco di fieno, un fiotto denso di sangue che schizzò dalla sua bocca come un getto d'acqua da una fontana dissestata. Gli altri uomini attorno a lui sfoderarono le pistole, i volti di colpo tesi. Una pioggia di spari cominciò a rimbalzare nella mensa in un fragore metallico, la cui eco si diffuse tra la folla assiepata sugli spalti, attraversandola con un brivido di paura.
Qualcuno provò a sporgersi, a fermarli. Altri cercavano di difendersi, ma Aisha si accorse, dopo aver frenato lo scatto di Ilyas, che gli spari non arrivavano fino a loro. C'era una specie di cupola di energia a cingere l'arena, separando il centro dal resto della sala. Qualcuno tra i Khlysty doveva averla creata per impedire che gli altri venissero colpiti dal ritorno di fiamma.
«Ma cosa stanno facendo?» chiese Sasha, sgomento.
La stessa domanda se la stavano ponendo tutti gli uomini e le donne presenti che fissavano la scena dei loro simili un attimo prima schierati uno accanto all'altro a ricevere onori e ora intenti a trucidarsi sotto i loro occhi.
«Si... si stanno uccidendo» continuò Sasha, gli occhi sgranati. «Ma per...»
«È lei» fece Aisha fissando il palco. Guardava la Vosikieva che anche da quella distanza era visibile, minuta e sottile e con gli occhi che non perdevano un movimento della scena sotto di sé. «Li sta uccidendo lei facendogli credere... facendogli credere che si stanno uccidendo tra loro.»
Anche solo pronunciare quelle parole le lasciò un profondo senso di turbamento. Sentì la paura, una paura oscura, paralizzante, diversa da qualunque altra avesse mai provato, ghermirle il petto, spezzarle il respiro. La paura per un pericolo invisibile e incombente. Non era possibile, si diceva, entrare così a fondo nella testa di una persona, manipolarla in quel modo fino a spingerla a uccidere qualcuno perché convinta di essere attaccata. Non era umano quel potere, non era neanche animale. Era mostruoso...
Gli uomini dei Vosikiev intanto morivano uno dopo l'altro. La donna rossa fu uccisa dalla seconda donna che fu freddata a sua volta da un uomo, strangolata da mani forti e disperate. La scena era agghiacciante eppure teneva inchiodato lo sguardo. Aisha non riusciva a distogliere gli occhi come tutti gli altri. Si accorse che molti si erano alzati in piedi, altri invece stavano ancora seduti, quasi aggrappati agli spalti. Erano tutti attoniti e muti, le labbra impietrite. Stavano tutti fissando la figlia di Ljuba Vosikiev.
A un certo punto, quando in piedi erano rimasti solo in tre, grondanti sangue e con il terrore negli occhi, uno degli uomini nell'arena sembrò risvegliarsi. Aisha vide l'uomo biondo della Maslenitsa scuotersi e barcollare, strizzando gli occhi come se un riverbero di luce accecante lo avesse colpito.
Con quello sguardo d'un tratto lucido si voltò verso la Vosikieva.
Qualunque cosa volesse fare – aveva già il braccio mezzo sollevato, la pistola in pugno – non fece in tempo: qualcosa lo colpì in pieno viso, perforandogli il cranio e facendolo cadere all'indietro. Il sangue schizzò insieme a pezzi di materia cerebrale. Aisha vide confusamente Inessa Vosikieva, la figlia minore del Vor, abbassare la sua balestra. Stava poco lontana dalla sorella e fissava l'arena con attenzione. Le parve di vedere Soraya lanciarle un'occhiata, ma se avvenne fu solo un attimo, poi la ragazza tornò a guardare gli uomini che morivano sotto di lei.
L'ultimo vulkulaki rimasto in piedi, dopo essere stato ferito allo stomaco e aver ucciso il penultimo sopravvissuto, si portò la pistola alla bocca e premette il grilletto. La sua testa esplose in una poltiglia rosata; ad Aisha parve di scorgere qualche filamento di borsch uscirgli dal ventre squarciato e mischiarsi alle viscere fumanti e al sangue venoso. Si ricordò quel che le aveva sempre detto Ilyas: che per morire con dignità come nei film bisognerebbe avere intestino, vescica e stomaco vuoti. Altrimenti puoi star sicuro che ti scoppieranno come palloncini ripieni di merda.
L'eco di quell'ultimo sparo riecheggiò basso come un sospiro trattenuto. Quando la sua eco si spense il silenzio instabile della sala si ruppe e cominciarono ad accavallarsi sussurri ed esclamazioni tra le gradinate. Tutti continuavano a fissare l'arena, il palco – la ragazza.
«Vladimir Demidov, Svetlana Rybakova, Borimir Stasevich, Vanya Gorskiya, Danil Jusov, Ostap Daikovich e Igor Zlatopolsky» elencò Ljuba Vosikiev sovrastando ancora una volta, con la sua voce bassa ma profonda, il brusio della folla. «I primi quattro erano in combutta contro i Khlysty: passavano informazioni ad alcuni branchi della Jacuzia che abbiamo motivo di credere siano legati a un clan ribelle intenzionato a seminare il caos. Gli ultimi tre hanno ucciso degli umani dopo che gli era stato ordinato di non farlo. Le regole sono sempre state molto chiare nel nostro clan: per chi tradisce, come per chi disobbedisce mettendo in pericolo la nostra esistenza, esiste una sola via d'uscita, la morte. È una lezione che ho imparato anch'io, alla mia iniziazione.» Il Vor si girò verso la figlia, un attimo, e tornò poi a guardare la platea. «Compagni, lasciatemi presentare mia figlia che oggi designo ufficialmente, al cospetto della Madre Luna, come mia erede, l'anello che congiungerà la mia stirpe, il mio sangue, verso l'eternità.»
Doveva essere una formula rituale, pensò Aisha, ancora turbata da quel che aveva appena visto ma anche affascinata dal procedere dell'iniziazione. A lei non era mai successo così; loro – lei e Ilyas – non avevano mai avuto una stirpe, soltanto una famiglia che, per quanto spezzata era stata, era riuscita a tenersi in piedi.
Sbirciando verso Sasha, si accorse che anche lui aveva tutta l'attenzione rivolta verso l'arena, lo sguardo concentrato, solo una lieve punta di inquietudine a macchiargli il chiarore delle iridi.
«È finita» lo sentì mormorare quando iniziarono a sgombrare i corpi dall'arena e i Vosikiev, padre e figlie, si ritirarono accolti da un silenzio reverente e frastornante.
Era finita, sì, eppure a lei sembrava che fosse appena iniziata.
***
«È stata un'iniziazione... interessante» disse lui nel prendere posto.
Raisa lo scrutò a fondo, cercando di cogliere quel che pensava senza utilizzare i suoi poteri.
«La tua com'è stata?» chiese, incuriosita.
Erano seduti uno di fronte all'altra nel locale sotto la giurisdizione dei Vosikiev, il Vseslav, il cui nome si rifaceva al leggendario principe stregone Vseslavu di Polock, capace di trasformarsi di notte in lupo, correndo da est a ovest, da Kiev fino a Tmutorokanĭ, per andare incontro al dio Chursu.
Lukas l'aveva invitata dopo l'iniziazione quando la folla si era dispersa, ancora parlando di quel che era successo. Un bicchierino non ti farà male, aveva detto col suo sorriso tagliente e Raisa aveva accettato. Ormai era notte fonda e sarebbe stato inutile andare a casa; sapeva che non si sarebbe messa a dormire. La compagnia di Lukas poi le faceva sempre piacere. Lui aveva una qualità che apprezzava oltremodo nelle persone: non aveva paura del silenzio.
«La mia iniziazione?» Scoprì i denti in un ghigno e iniziò a raccontare dopo aver preso un sorso robusto di vodka. «Avevo meno anni della Vosikieva e avevo già affrontato delle scaramucce di confine con altri lupi di clan avversari. Era una notte come questa, ma più bella, gelida e nitida come lo sono solo le notti dell'estremo nord. Fu mio zio a prepararmi, mio nonno mi aspettava dall'altra parte. Dovevo affrontare un prigioniero, guadagnarmi il mio posto nel branco. Fu il primo vulkulaki che uccisi.»
Raisa ascoltava, in silenzio. Vedeva la scena come se ce l'avesse avuta davanti: un Lukas più giovane, sempre con quella rabbia intrappolata nelle maglie di un rigido autocontrollo esercitato sin dall'infanzia; Lukas sotto forma di lupo che affrontava un suo simile. Non era un'immagine difficile da visualizzare, soltanto i suoi occhi non riusciva a vedere.
«E tu?»
Bevve anche lei un sorso di vodka prima di rispondere. Le luci erano tagli nel buio, sciabole blu elettrico che fendevano l'aria simili a fulmini inesplosi, ma loro si trovavano nella zona rialzata dei privés; c'era la luce delle lampade, calda e soffusa, e la musica della pista arrivava a ondate smorzate.
«Nel nostro clan, il clan di mio padre, la tradizione era che i giovani vulkulaki si spingessero in territorio nemico, quello degli umani. Dovevi tornare con un trofeo.»
«Il tuo quale fu?»
«Una testa. Un uomo adulto, un contadino forse. Provò a difendersi con un coltello, ma io fui più veloce. Successe nella valle dei monti Tatra dove era nata mia madre. Attesi l'alba lì prima di ritornare al mio branco.»
Un'alba azzurra, ricordava, incastonata tra i Carpazi come una promessa.
«In Polonia?»
«Ora la Polonia non esiste più. È stata annessa alla Bielorussia da anni, ormai fa parte della Federazione.»
«Dicono che i polacchi siano un popolo fierissimo. Forse anche più dei siberiani.»
«Mia madre diceva che i polacchi sono stati conquistati da tutti, ma non si sono mai piegati a nessuno. Almeno così ricordo. Sono poche le cose che ricordo di lei.»
«Non parli granché della tua famiglia, è vero.» Lukas si prese un altro sorso, gli occhi su di lei. «Io ti ho raccontato vita, morte e miracoli del mio clan, tu a malapena della morte prematura di tua madre e di quella di tuo fratello e di tuo padre. Non sapevo neanche che avessi una sorella.»
Le dita di Raisa si strinsero attorno al bicchiere. Il vetro era freddo, ma non più freddo della sua voce.
«Mi dispiace.»
«Non c'è bisogno di scusarsi. Se non hai voluto confidarti avrai avuto le tue ragioni.»
«Non è una parte della mia vita di cui parlo volentieri.»
«La parte prima di arrivare a Mosca, intendi?»
Lei annuì, lentamente. Lukas si limitò a guardarla. Non la voleva forzare, si vedeva; il suo silenzio era discreto e morbido, simile a una sciarpa che le avvolgeva il collo.
«Non ti ho mai parlato di Katrina perché... è come se fosse morta per me. Nella mia testa, almeno. Lei, la ragazza che è stata, mia sorella, la sorella che amavo... lei non esiste più.»
Avvicinò la vodka alla bocca, ma non bevve. Rimase con le labbra sul bordo di vetro del bicchiere; lo riposò, non sottraendosi al suo sguardo dritto.
«Katrina è sempre stata ribelle. Ha sempre voluto più di quello che aveva. Era la versione femminile di mio padre e lui l'adorava infatti, ma anche lui la redarguiva. Il fatto è che, se soffi su una fiamma, si spegne solo se è debole, altrimenti divampa e diventa un incendio, e Katrina era così: incontrollabile.»
Di sotto stavano spandendo una musica più lenta, quasi languida. Le luci parvero abbassarsi, ma nella sala dove si trovavano i contorni erano nitidi e precisi, lo spietato azzurro degli occhi di Lukas perfettamente visibile.
«Quando mio fratello morì...» Dovette fermarsi, per un attimo. Come se non avesse già respirato quella frase infinite volte, quell'episodio, quel giorno; come se dovesse sempre mozzarle il fiato in gola riportarlo nell'orizzonte dell'espresso. «Quando mio fratello morì, Katrina cominciò a diventare più irrequieta. Si attribuiva la colpa: Aleksej era tornato indietro per salvarla; era morto per liberarla dai cacciatori che l'avevano catturata. Immagino che non riuscisse a perdonarsi.» Neanche Raisa, forse, l'aveva fatto. «Fin da bambina provava una forte ostilità verso gli esseri umani, a causa della morte di nostra madre, sicuro, e a causa del tipo di vita che conducevamo, sempre nascosti, sempre guardinghi. Devi sapere, Lukas, che nella regione di Brest dove vivevamo sono rimaste credenze e superstizioni molto più forti di qua, nelle città del cuore della Russia come Mosca, Ekaterinburg o San Pietroburgo. È territorio bielorusso, a confine con l'ex Polonia. Forse è per via dalla foresta di Bialowieza, un posto di cui si sono raccontate leggende e orrori per secoli. In quei luoghi la gente non fatica a credere che esistano esseri soprannaturali. Sono posti in cui si cerca ancora Dio, per capirsi.
«Abbiamo sempre dovuto combattere gli esseri umani. Fin da piccola sapevo che la loro carne era una fonte di potere. Mio padre mi ammoniva, ma era stato il primo a nutrirsene per diventare più forte. Dopo la morte di mio fratello, seguita a poca distanza da quella di mio padre, qualcosa si ruppe in Katrina. Un equilibrio, non so. Cominciò a uccidere, a uccidere deliberatamente, senza motivo. Abbiamo avuto discussioni infinite sulla possibilità di servirci di umani come "scorta", come fossero animali da allevare e poi mangiare. Lei avrebbe voluto, accecata dall'odio, a me sembrava una pazzia. Era una pazzia. Alcuni membri del nostro clan erano figli di umani, non lo avrebbero tollerato. Io stessa non potevo tollerarlo. Punire gli assassini di mio fratello? Sì, questo potevo farlo, l'ho fatto, ma cominciare a cacciare umani come fossero cervi...»
Scosse la testa. Lukas la stava guardando, non con orrore o raccapriccio, il suo volto era soltanto concentrato.
«Dopo la morte di Aleksej, fui io a prendere il comando del clan mentre Katrina guidava i nostri branchi. Aveva più carisma di me: sapeva – sa – attirare le persone. Le lasciai molti margini di manovra, troppi, solo dopo me ne resi conto.»
«Ha cercato di soppiantarti?» chiese lui allora.
Di nuovo scosse la testa. «Sono io che gliel'ho lasciato fare. Quel che diceva era terribile a volte, ma altre... altre era necessario. Per difenderci, per sopravvivere, per far prosperare il clan, dovevamo prendere scelte difficili e addossarle a lei era... oh, era così facile, Lukas. Così straordinariamente facile. Sono stata così vigliacca.» Abbassò la voce. «Quando ho provato a fermarla ormai era troppo tardi. Quasi tutti erano dalla sua parte, mi sono ritrovata isolata e ho provato... non volevo ucciderla, ma è stata la lotta più violenta che abbiamo avuto. Per poco non ci ho rimesso un braccio. Era forte, più forte di me. Già allora aveva mangiato tanta di quella carne umana da esserne assuefatta. Ora sono passati sette anni e non voglio immaginare...»
«Quindi sei convinta che sia ancora viva?»
«Sì, non ho dubbi.»
«E credi che sia lei ad assalire i villaggi?»
Assentì.
«Perché solo ora però? Insomma, questi massacri sono iniziati da appena un anno, ha detto Ljuba. Perché non...»
«Deve aver ingigantito le sue fila, allargato il clan. Quando era più giovane era impulsiva, ma si è fatta più riflessiva da quando ha diviso il comando con me. Deve aver capito che non è azzannando direttamente alla gola che si raggiunge l'obiettivo, piuttosto accerchiandolo, attendendo nell'ombra, tra le sterpi, in attesa del momento giusto.»
«Vuoi fermarla?»
Invece di rispondere gli fece un'altra domanda: «Riesci a immaginare perché voglia arrivare a Mosca?»
Lui corrugò la fronte. «In realtà no.»
«Qui ci sono i Vosikiev, qui a Mosca e a San Pietroburgo, la zona della Neva. I Vosikiev rappresentano per i vulkulaki russi ciò che sono i Novikh nella Organizatsya: una rete di sicurezza, ciò che ci impedisce di scagliarci l'uno contro l'altro. Se non ci fossero loro, non ci sarebbero confini; saremmo liberi e completamente nel caos.»
Un moto di sorpresa strisciò allora nel viso di Lukas e gli irrigidì i lineamenti. Socchiuse le labbra, la voce ridotta a un sibilo: «Vuole soppiantare i Vosikiev? È questo che pensi?»
Raisa prese il suo bicchiere e ne bevve tutto il contenuto. La vodka scivolò nella sua gola, liscia e bruciante, un sollievo e un castigo. Cercò gli occhi di lui, si specchiò nelle sue pupille, cogliendo il proprio riflesso annegato nell'azzurro.
«Può esserci solo un motivo perché abbia aspettato così a lungo per muoversi. In questi anni deve aver creato un esercito.»
«Ma è solo una...»
«Solo una vulkulaki? Solo una donna? Tu non la conosci.» Strinse forte le labbra e fu quasi tentata di chiudere gli occhi. «Mia madre raccontava che noi per antenati avevamo nobili della Szlachta, l'antica nobiltà polacca che praticava il sarmatismo, una sorta di pacifismo che voleva l'uomo a contatto con la natura, con la vita nei villaggi. Un nostro avo si ribellò: mise a ferro e fuoco le sue stesse terre per cacciare gli usurpatori. Quel germe di violenza distruttiva è rimasto, a sentir lei; ha continuato a contaminare la nostra famiglia.»
Ricordava. Ricordava come fossero state ieri le parole di sua sorella, la sua risolutezza, il morso che aveva, negli occhi, nel corpo, così simile a un animale incatenato che agonizza la libertà, quella libertà senza confini, che può essere spaventosa a guardarsi.
Si può essere liberi senza essere crudeli? si chiedeva – lo chiedeva a Raisa, le notti e i giorni.
Lei non aveva ancora trovato una risposta a quella domanda. Forse, aveva capito dopo molti anni, non l'avrebbe trovata mai.
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