XVII. Una giornata di sole - seconda parte

Per l'iniziazione di Soraya Vosikieva era stata scelto come luogo la vecchia fabbrica nei pressi della foresta di Khimki, un ritrovo abituale per la comunità vulkulaki moscovita. Andrej stesso ne aveva varcato i cancelli più di una volta, ma mai per un'occasione così composita: quella notte la fabbrica fermentava di persone, uomini e donne, giovani e più anziani, tutti vulkulaki venuti ad assistere a ciò che si considerava a pieno titolo il "passaggio di scettro" del Vor Ljuba Vosikiev alla sua erede, il rito attraverso il quale il signore dei Khlysty designava senza indugi il suo successore.

C'era la crème, se così si poteva chiamarla: i Vosikiev e i loro rami collaterali e i più stretti collaboratori; c'erano i capi-clan e i capi-branchi dei dintorni di Mosca e San Pietroburgo, più altri venuti da più lontano; e poi stavano tutti gli altri, vulkulaki solitari inseriti nelle maglie di Mosca, come lo era lui.

Sereb, appena oltrepassata la soglia della fabbrica, si era fatto più vigile, lo aveva notato, ma camminava con fluidità, mischiandosi nella folla. Andrej salutò qualche conoscente, rispose a chi gli chiese chi fosse "quello spilungone coi capelli bianchi" con la panzana inventata da Vosikiev. Sorrideva a tutti, cercando di mostrarsi il più naturale possibile quando dentro si sentiva come se stesse camminando su un deserto di mine.

Non vedeva Lukas. Trovare una faccia amica in quel momento lo avrebbe aiutato.

«Fra poco inizierà, ci conviene affrettarci» disse al suo compagno, che lo guardò senza espressione.

«Come funziona?»

«In realtà non lo so. Io non ho mai fatto parte di un clan. Credo che ci saranno delle parole solenni e che a un certo punto la ragazza dovrà dimostrare i suoi poteri.»

«Un giorno hai detto...» lo interruppe Sereb, quasi un alito inconsistente la sua voce, «che tuo padre ha provato a ucciderti.»

Andrej si irrigidì. Quella frase lo colse del tutto impreparato.

«Te lo ricordi?»

«È la prima cosa che mi hai detto quando mi hanno catturato.»

Lo fissava con quegli occhi che non dicevano assolutamente nulla. Andrej inghiottì un bolo d'aria. Cercò di non mostrarsi a disagio e adottò un tono leggero.

«Sì, è stato così. Come vedi non ho avuto un clan. Sono cresciuto in una famiglia umana finché... beh, quando mi sono trasformato mio padre non l'ha presa bene.»

«Tua madre era una vulkulaki?»

«Non direttamente: era figlia di vulkulaki. Sua madre lo era stata, lei no. È passato a me questo...» Come avrebbe dovuto chiamarlo? Maledizione? Al tempo l'aveva vista così. «... questo potere. Quando successe me ne andai.»

Sereb non gli chiese cos'era successo ai suoi genitori, se li aveva mai più rivisti. Non era interessato e Andrej ringraziò mentalmente quell'indifferenza, non illudendosi neanche per un secondo che potesse trattarsi di discrezione.

«Vieni» gli disse e quasi gli sfiorò il braccio. «Seguiamo gli altri.»

Il rito d'iniziazione si sarebbe tenuto nella sala più grande della fabbrica, quella che un tempo era stata la mensa, atta a contenere più di trecento unità di operai. Guardandosi attorno, si accorse che l'ambiente era ampio ma angusto; sentiva il soffitto schiacciargli la testa. Forse era per via di tutta quella gente. Si sarebbe detto che si fossero riuniti tutti i branchi della Russia.

Era avanzato di pochi passi, seguendo la fiumana di vulkulaki diretti alla mensa, quando dovette fermarsi. Sereb era rimasto immobile nel mezzo del corridoio, le spalle rigide e il volto in tensione. Aveva le narici che fremevano, pallide e allargate.

«Cosa c'è?»

«Lo sento» bisbigliò, la voce ridotta a un sibilo. Lo vide chiudere gli occhi, respirando lentamente, intento ad assaporare qualcosa che Andrej non riusciva a sentire.

Un odore, forse?

«Cosa senti?» chiese, una domanda che sfumò in allarme quando colse lo sguardo dell'altro, una volta riaperte le palpebre. La pupilla aveva inghiottito tutta l'iride malgrado fosse difficile, anche in condizioni normali, distinguerla dal nero dei suoi occhi.

«È qui» sussurrò Sereb, poi si voltò e iniziò a correre.

Perché? si chiese solo Andrej, reprimendo un moto di sorpresa ed esasperazione prima di inseguirlo; perché fra tutti i vulkulaki che Sergej poteva catturare era capitato proprio uno così, un concentrato di bizzarria e disadattamento sociale? Ma un tipo normale proprio no, eh? Uno che non sente cose, non vede cose e magari si ricorda chi è e cosa caspita ci fa nel mondo? Sarebbe stato troppo semplice, vero?

«Sereb!» lo chiamò più volte, urlandogli dietro come un perfetto imbecille.

Dovette scusarsi per le sagome che scansava e le spalle che urtava. Un tale, Pavel Ramoshikov, uno dei primi vulkulaki che aveva conosciuto in città insieme a Lukas e Raisa, provò a fermarlo, ma lui non gli diede retta, blaterando scuse e proseguendo nel suo inseguimento.

Sereb correva rapidamente, come in forma animale. Era veloce, più veloce di lui. La sua nuca bianca risplendeva in quel grigio, tra i colori scuri delle giacche degli uomini e delle donne; era il punto di riferimento che Andrej cercava di non perdere mentre si muoveva nella calca. Quella chioma simile a una fiamma bianca, una sfregatura di luce in una foto opaca. Non doveva perderla perché se l'avesse perduta...

Finalmente Sereb si fermò. Lo vide bloccarsi dopo aver percorso a ritroso l'intera fabbrica. Erano tornati nel cortile esterno da cui erano entrati. L'aria gli schiaffeggiò il viso e fu un refrigerio, ma Andrej si sentiva lo stesso bollire di rabbia.

Allungò una mano per strattonare il braccio dell'altro e non badò per una volta alle distanze da tenere – non voleva toccarlo, stava sempre attento a non farlo; non voleva scoprire cosa un tocco gli avrebbe trasmesso.

Lo afferrò e lo scosse.

«Si può sapere cosa diav...» e poi la voce sfumò via, seccandosi sulle labbra in una punta interrogativa quando si accorse cosa l'altro ragazzo stava guardando.

Nel cortile c'erano quei tipi che aveva visto prima della Maslenitsa, i nuovi acquisti di Lukas. Il ragazzo nobile, il cugino di Sergej, e quell'altro che aveva la faccia di uno scotennatore, bella, certo, ma predace e scostante. C'era anche una ragazza e Andrej la riconobbe come la sorella dello straniero che aveva visto ancora prima, sempre insieme a loro, quella volta che erano sbucati nel Valhalla per parlare con Sergej.

Gli occhi di Sereb erano puntati sulla ragazza.

«Ehi!» Il nobile – Kirayev, si ricordò: Sasha Kirayev, uno dei Maliska – li vide. «Tu sei... Andrej, vero? O ricordo male? Ciao.»

«Ciao!» fece lui e sorrise, cordiale. Salutò anche gli altri due. «Come va? Siete qui per l'iniziazione? Domanda stupida, certo che siete qui per l'iniziazione.»

«Sì, sono molto curioso di vedere come si svolge» disse il nobile, entusiasta. Spostò lo sguardo da lui a Sereb. «Noi non ci siamo già visti, vero? Piacere, io sono Aleksandr, ma preferisco essere chiamato Sasha. Loro sono Ilyas e Aisha. Tu...»

«Lui è mio cugino Sereb» lo presentò Andrej, ancora quel cuneo di allarme nel petto che non ne voleva sapere di andarsene.

Sereb non parlava, come al solito; aveva quel suo sguardo strano, concentrato e tagliente, che metteva a disagio le persone. Socchiuse le labbra, indugiò. Era la prima volta che lo vedeva indugiare. Continuava a fissare la ragazza, solo lei.

«Adhez» sussurrò e Andrej lo guardò senza capire, stesso atteggiamento del nobile Kirayev. Gli altri due invece si irrigidirono.

«Come?» chiese il maschio, Ilyas. I suoi occhi si fecero duri, offuscati di sospetto.

«Conosci l'ashkale?» domandò la sorella e Andrej quasi miagolò una protesta.

Ma davvero: non si poteva mai stare tranquilli con quello lì! Ora che novità era quella?

«No» rispose Sereb e il modo in cui continuava a fissarla era troppo intenso per non far sorgere domande. «Io... me lo ricordo.»

La ragazza aggrottò la fronte in un cipiglio perplesso. Lo fissava a sua volta, smarrita, vigile, ma non con durezza. Il fratello invece aveva stretto gli occhi e le labbra. Si portò avanti, si frappose tra Sereb e la sorella e lo apostrofò aspramente.

«Che cazzo ti guardi?»

«Ilyas» fece subito lei e Sasha Kirayev borbottò qualcosa.

Andrej ritenne fosse il caso di intervenire.

«Scusalo, scusalo! Lui non è di qui. Viene da lontano, un posto dove...»

Non sapeva cosa inventarsi. Perché la fissava in quel modo? Con ossessività quasi, ma niente di viscido, niente di scomposto, solo una fissità vivida e forse stupita. Era attonito come una persona la cui coscienza sta definendo i contorni di qualcosa che fino a quel momento gli era rimasto precluso.

«Scusa» mormorò Sereb e fece un passo indietro. Non abbassò gli occhi, né sembrò intimidito dal ragazzo ashkale, ma senza dubbio si ritrasse.

Si stava scusando con lei; la sfiorò ancora con lo sguardo.

«Ilyas, andiamo.»

Solo la presa della sorella sul braccio convinse l'amico di Kirayev a ritirarsi. Aveva proprio la faccia di uno scotennatore, pensò Andrej: di uno che ti salta alla gola al primo passo falso.

I tre si allontanarono, Kirayev abbozzando un saluto poco convinto, l'espressione confusa, la ragazza trascinando il fratello che sibilava "ma guarda che testa di cazzo". Se ne andarono, inoltrandosi nella fabbrica. Rimasero loro due, da soli, gli altri vulkulaki già sgocciolati via, il cielo nero come una ferita in cancrena sopra di loro.

Andrej si stava trattenendo a stento.

«Senti, passino tutti i tuoi discorsi sconclusionati, le stranezze, gli sguardi torvi, ma si può sapere cosa ti è preso? Non si fissano le persone così! So che non sei abituato a stare in mezzo ad altri esseri umani, ma...»

«Non volevo» disse lui e si morse il labbro inferiore. D'un tratto era diventato nervoso, un atteggiamento che poco si accostava alla sua aria grave e fredda. «Volevo solo...»

«Che cosa? Consiglio spassionato: quanto ti piace una ragazza non guardarla come se fossi un maniaco!»

Sereb sussultò visibilmente. Aprì la bocca in una "o" di stupore e subito dopo strinse le labbra fino a farle sbiancare.

«Non la stavo guardando in quel modo.»

«No? Sembrava. Avevi proprio lo sguardo di un maniaco.»

Lui scosse la testa, l'espressione accigliata. «No, io non... non mi interessano queste cose.»

Andrej lo guardò con più attenzione. «Quali cose? Le ragazze?»

Non avrebbe voluto, ma un ricciolo di speranza gli si annidò all'imboccatura dello stomaco.

Sereb continuava a scuotere la testa. «Nessuno, non mi interessa nessuno.»

Ora lo fissò con aperta confusione. «Eh?»

«Senti, non c'entra niente, va bene? Non la stavo guardando per quello. Lei... è lei che ho sentito.» S'interruppe e trasse un profondo respiro. Il fiato gli sobbalzò in gola. «Quando sono venuto in questa città... l'ho riconosciuto ora, il suo odore... è lei che mi ha portato qui.»

Bene. Doveva ricordarsi di chiedere a Vosikiev un aumento.

«Non riesco a capire» fece, quasi sconsolato. «Vuoi dirmi che hai sentito l'odore di una ragazza che non hai mai visto e l'hai inseguito fino ad arrivare a Mosca?»

«Non è solo l'odore. Io l'ho sentita. Anche adesso. È come se qualcosa mi spingesse verso di lei. È quella visione, quel sogno, l'impulso di correre... non riesco a capire...»

Beh, non era l'unico. Se non si capiva da solo figurarsi se poteva farlo Andrej.

Si massaggiò le tempie, chiudendo gli occhi e prendendo piccoli e calmi respiri. Lì c'era da stare calmi. Era una suggestione o c'era una traccia di verità? Sereb non ricordava niente del suo passato: possibile che quella ragazza, anche se non aveva fatto cenno di riconoscerlo, c'entrasse qualcosa con la sua amnesia? Doveva parlarne a Raisa?

«Magari ti stai autosuggestionando?» tentò, incerto. «Hai sentito un odore che ti è sembrato familiare e...»

«No.» Di nuovo Sereb scosse la testa. «È lei. Ho visto lei in sogno senza vederla. La città mi ha chiamato perché c'era lei.»

Andrej rilasciò andare un lungo sospiro. «Senti, qualunque cosa tu voglia fare, comportati in modo civile. Se il fratello di lei decide di farti lo scalpo perché la guardi troppo, sappi che il culo non te lo salvo io.»

Sereb gli scoccò un'altra delle sue occhiate torve, quasi sdegnose, come a denotare l'importanza che dava al suo aiuto. Andrej non gli badò.

«Se vuoi parlarle...»

«Non voglio parlarle.»

«Dici di non ricordarti nulla, ma ti ricordi di una ragazza che non ti ha mai visto. Le soluzioni sono due: o hai battuto la testa troppo forte mentre scappavi dagli umani» ignorò la sua occhiataccia, «o c'è una spiegazione logica e l'unica cosa che mi viene in mente è che vi siate già incontrati, ma entrambi non ve lo ricordate. O forse lei sta mentendo, non so, anche se non vedo perc...»

«Lascia perdere» fece Sereb, brusco. «Non sono affari che ti riguardano.»

«In realtà mi riguarderebbero visto che sei sotto la mia custodia.»

A vederlo stringere di nuovo le labbra e non ribattere, richiudendosi nel suo impietrito silenzio, Andrej emise un altro sospiro e fece per riavviarsi verso la mensa.

«Vuoi ancora vederla questa iniziazione?»

«Sì» bofonchiò Sereb e lo seguì nell'ingresso ora quasi vuoto. Tutti i vulkulaki ormai si erano riuniti nella mensa.

«Cosa significa quella parola, comunque?»

«Quale?»

«Quella che hai detto in ashkale.»

Si pronunciava così? Non aveva mai sentito parlare di quella lingua prima d'ora.

Sereb diede un'altra delle sue risposte sibilline: «Non lo so.»

«Quindi hai detto una parola in una lingua che non conosci e non sai cosa significa?»

«L'ho sentita sulla punta della lingua appena l'ho vista» spiegò mentre attraversavano il lungo corridoio che portava al refettorio dove le voci degli uomini si accavallavano. «L'ho pronunciata anche se non sapevo cosa significava perché... perché era dentro la mia testa. Non so come ci sia finita, non la ricordavo fino a oggi, ma era lì e l'ho tirata fuori.»

«Ti rendi conto di sembrare più strano a ogni frase che dici?»

«Sì» rispose Sereb con tranquillità. «Ma non mi interessa il tuo giudizio, né quello di tutti gli altri.»

Andrej si chiese con sincerità cosa si provasse ad avere un pensiero del genere.

«Non ti capisco» disse forse per l'ennesima volta ed emise un altro sospiro. «Ma ci sarà una spiegazione... immagino...»

Il problema, pensava ora, era trovarla.

***

La fabbrica era affollata come si aspettava.

«Eccoci qui.» Lukas si appoggiò coi gomiti contro la balaustra di una passerella sospesa sull'ingresso. Sbirciò Yuri Petrov. «Che te ne pare?»

«Posticino lugubre. In confronto al lusso della stazione sembra una topaia.»

«Un tempo era una fabbrica a pieno regime, ora ci vengono giusto i lupi durante la notte.»

Le persone entravano dal portone di ingresso laterale: sciamavano e sostavano nell'ingresso prima di dirigersi verso la mensa. Anche Petrov era appoggiato contro la balaustra, l'espressione soltanto all'apparenza indifferente, lo sguardo che perlustrava la folla sotto di loro. A Lukas era stata insegnata l'arte di decifrare i moti di un viso, colse dunque l'attenzione che venava gli occhi dell'altro uomo, quasi stesse squadrando l'ambiente alla ricerca di qualcosa o qualcuno. La seconda ipotesi era molto più verosimile.

Fece finta di non accorgersene.

«La tua iniziazione com'è stata?»

Indirizzare la conversazione su lidi sicuri e innocui, ecco quel che doveva fare. Ljuba non gli aveva certo ordinato di fare amicizia. Quel tipo però gli destava curiosità. Non contravveniva a nessuna regola non scritta se ora si metteva a chiacchierare.

«La mia iniziazione?» L'altro scoprì i denti in un ampio sorriso, rivelando una chiostra di denti bianchissimi. «Sono passati talmente tanti anni... Il mio clan aveva la tradizione di cacciare.»

«A Vladivostok?»

«Nelle vicinanze, nei boschi, a poca distanza dalla frontiera. Ci trovavi di tutto.»

«Animali o esseri umani?»

Il suo sorriso si fece più affilato. «L'ho detto: di tutto.»

Prima che potesse chiedergli di essere più specifico, una voce si inserì tra loro.

«Ehilà, Volk!»

Lara Arkainova fece la sua comparsa sulla passerella. Lukas non la vedeva dalla Maslenitsa. Indossava un cappotto corto con inserti di pelliccia di renna che ricordava una malitsa. Era senza cappello, alta e ben piantata, le lunghe gambe leggermente divaricate. Il suo volto diafano risplendeva in contrasto con gli occhi scurissimi e la chioma corvina. Stava sorridendo.

«Speravo di incontrarti qui. È da tanto che non ti si vede.»

«Ah, se potessi, Lara, mi godrei di più la bella vita moscovita» disse Lukas, girandosi e salutandola con due baci sulle guance e uno leggero sulle labbra. Aveva una bocca carnosa, rossa e larga.

«Chi è il tuo amico?» Lara spostò lo sguardo da lui a Yuri, che si era già staccato dalla balaustra e già si stava presentando con un sorriso mille denti.

«Yuri Petrov, un agente dei Khlysty venuto a Mosca per lavoro, ma più propenso a venire qui per le belle donne.»

Lei non si impressionò. «Mai sentito nominare.»

«È qui di passaggio» spiegò Lukas. «L'ho portato ad assistere all'iniziazione.»

«Mi sembra giusto» fece lei con un cenno del capo.

Salutò il nuovo vulkulaki e si presentò. Rimase alcuni minuti a chiacchierare con loro; Petrov alla fine riuscì a strapparle una risata.

«Hai la faccia di un mascalzone» commentò Lara, divertita.

«Tra un mascalzone e un farabutto passa un intero mare, diceva il mio vecchio» dichiarò lui sempre con quel sorriso.

«Devo andare. Magari ci si vede in giro. Lukas, tu non sparire!»

«Ai tuoi ordini.» Lukas la guardò allontanarsi; aspettò che non fosse più a portata d'orecchio per rivolgersi all'altro: «Ecco, Mosca offre anche altro genere di bellezze.»

«Vedo» convenne lui, inumidendosi le labbra. «Ah, dopo tanto tempo passato a far la spia nel meridione temo di aver dimenticato il sapore di una donna. La signorina è impegnata, che tu sappia?»

Certo che non perdeva tempo.

«Non lo so.»

«Hai mai favorito delle sue grazie?»

«Un paio di volte.» Lukas sorrise al ricordo. «Le vulkulaki – o i vulkulaki – hanno una pista in più rispetto agli esseri umani. Dopo esperienze maturate in tal senso posso confermarlo.»

«Ah, anche i vulkulaki? Sei uno che non fa differenze?»

«Alle volte no. Dipende.»

«Capisco, io invece sì. Le donne, ah! Quelle mi piacciono tutte o perlomeno: le belle donne. Non ho la vocazione del martire in nessun campo della vita, figuriamoci nel sesso. Non faccio beneficienza: quando posso prendo il meglio.»

«C'è chi direbbe che il meglio può meritarselo solo il meglio.»

«Come non sono un martire non sono neanche una persona umile.» Petrov sorrise ancora più ampiamente. «La vita ci mette troppo poco a infilartelo su per il culo per permettersi di fare i falsi modesti. Prendo il meglio perché penso di meritarmelo.»

Bene, era arrogante. Lukas non si sentiva comunque infastidito: quella dell'altro era un tipo di baldanza che conosceva, che aveva visto tante volte, tra commilitoni per esempio, e che un poco era affine alla propria; non leggeva un senso di superiorità piuttosto un'onesta consapevolezza di sé, delle proprie abilità. Non che la bellezza fosse un'abilità, ma certo una bella faccia ti aiuta nella vita, anche questo poteva dirlo dopo esperienze maturate. E neanche lui era un martire in tal senso: le sue "prede" erano sempre state di gradevole aspetto, se non più che gradevoli. Per esempio, quello scriteriato di un ashkale: uno con un viso e un corpo diversi magari lo avrebbe mandato a fanculo da tempo.

Tornò a Yuri Petrov.

«Stavamo parlando della tua iniziazione.»

«Quanta curiosità. Siete tutti così loquaci voi lupi di Mosca?»

«Io vengo dalla Siberia.»

«Oh, un siberiano come me. Bene, bene, fammi indovinare: uno che deve averne viste e assaggiate tante.»

Quell'allusione lo spinse a guardarlo meglio. Aveva un sorriso ora del tutto diverso da quello elargito a Lara.

«Suvvia, vogliamo girarci intorno? Mi hai dato l'aria di un tipo diretto e sappi che apprezzo la franchezza. Sono pronto a scommettere che Vosikiev non ha mandato a controllarmi un lupo non svezzato.»

"Lupo svezzato" era un codice nel mondo dei vulkulaki per indicare chi si era cibato di carne umana.

Lukas rimase calmo. «Non sono qui per controllarti.»

«Già, sei qui per "accompagnarmi". Un simpatico giro di parole per esprimere la stessa cosa. Guarda che non me la prendo. I Vosikiev non si fidano e fanno bene: neanche io mi fiderei di uno come me.» Si appoggiò mollemente coi gomiti contro la balaustra e lo scrutò da sotto le palpebre socchiuse. «Allora, quanti ne hai mangiati?»

«Siamo passati dalle chiacchiere goliardiche ai fatti personali?»

«Vuoi sapere quanti ne ho mangiati io così da capire il mio livello di forza? Non è una cosa di cui mi vergogno, forse tu sì.»

Lukas incrociò le braccia al petto. Non rispose.

L'angolo delle labbra dell'altro si piegò. «Proprio no?»

«Non mi interessa sapere il tuo livello di forza» dichiarò, asciutto, ma si sentì turbato nel profondo dalla leggerezza che usava per un argomento come quello.

Se Ljuba gli aveva affidato quell'incarico significava che l'uomo davanti a lui aveva più o meno il suo stesso livello di forza... o no?

«A me interessa il tuo, invece. Giusto per capire chi ho davanti.»

«Ti posso assicurare che non hai a che fare con un cucciolo.»

Allora Yuri Petrov rise, una risata tra i denti. «No, questo no, direi di no. Quanti, avanti? Dieci? Venti? Una cinquantina? Un centinaio? Di più?» Piegò le labbra in una lama tagliente. «Si dice che se superi il centinaio cominci a non sentire più il sapore del sangue.»

«Tu lo senti ancora?» gli chiese allora, a bruciapelo.

«Sì, ma non come la prima volta. Ah, la prima volta... l'ho fatto per una donna: ho strappato il cuore di questo umano – un maschio? una femmina? un adulto? un bambino? non ha importanza – e l'ho mangiato davanti a lei, per lei, in suo tributo. Pensavo: ecco, questa è la metafora reale di un uomo che dona il proprio cuore alla sua amata. Sai cosa penso ora? Che erano tutte stronzate.» Sempre senza staccare gli occhi dai suoi, sorrideva ma non era un sorriso che raggiungesse i suoi occhi. «Perché così fai in queste situazioni: ti inventi immagini poetiche, rivesti un atto di macelleria di paroloni e siccome mi credevo innamorato, e anche un po' idealista, chiamavo i miei piccoli e sanguigni crimini atti d'amore.»

Lukas lo fissò. Restarono a guardarsi per lunghi istanti, nel brusio indistinto che percuoteva l'aria, finché il suo sguardo non oltrepassò le spalle dell'altro uomo e cadde sulla soglia d'ingresso.

«Parli del diavolo» sussurrò vedendola farsi avanti tra i vulkulaki che affollavano l'atrio. «È arrivata.»

Non ci fu bisogno di aggiungere altro: Yuri Petrov si girò immediatamente. Lukas ora poteva avere solo uno scorcio del suo profilo. Abituato com'era a leggere ciò che custodivano i lineamenti di una persona quella scarsa visuale non fu un problema: distinse con nitidezza il volto dell'uomo cambiare, anche se fu solo un breve, impalpabile sommovimento. Come i suoi occhi incrociarono la sagoma di Raisa, che in quel momento stava camminando al fianco di un membro del clan dei Vosikiev, il suo sguardo mutò. Con la stessa vibrazione di un sasso che turba la quiete di uno stagno si appuntò sulla donna, non la lasciò finché non scomparve varcando la soglia della mensa posta proprio al di sotto della passerella sospesa presso cui si trovavano. L'ultima cosa che videro di lei furono i suoi capelli, una fiamma dorata nell'ambiente gravato di ombre.

Petrov ritornò a guardarlo.

«Bene» fece dopo un po', quando il silenzio aveva già cominciato a sedimentarsi. «Va bene» soggiunse. Scosse la testa e si staccò dalla balaustra.

«Cosa fai?» chiese Lukas.

«Me ne vado.»

«Cosa?» Lo guardò stupefatto. Questa non se l'aspettava. «Vai via?»

«È quel che ho detto.»

«Quindi è davvero così? Non ti importa proprio nulla dell'iniziazione, sei venuto solo per vedere lei?»

Lui gli scoccò un'occhiata divertita. «Vosikiev non ti ha assoldato per l'acume, vero?»

Lukas sbuffò. «Mi chiedo solo che senso abbia.»

«Molte cose non hanno senso.»

Ci capiva sempre di meno.

Quando l'uomo gli volse le spalle con tutta l'intenzione, a quanto pareva, di dirigersi verso l'uscita, lui non riuscì a resistere: «Non ci parli neanche?»

L'altro si fermò. Le sue spalle erano dritte, la sagoma alta e asciutta. Quando si voltò, Lukas capì che il suo sguardo era uguale a tanti altri che aveva visto nel corso della sua vita: lo sguardo di chi ha vissuto una guerra e ne ha abbastanza di trovarsi tra le macerie.

«Non serve. Volevo solo vederla.»

«Perché?»

«Forse perché è passato troppo tempo. O perché ne è passato troppo poco. Forse perché volevo vedere se riprovavo quella sensazione. Sai, quella che si prova davanti al fuoco.»

Lukas lo guardò interrogativamente. Lui tornò a sorridere, un sorriso diverso da quelli che aveva sfoderato finora: sottile, discreto, con una traccia di dolceamara nostalgia.

«Ma sì, il fuoco. Sua sorella ha il potere del fuoco, riesce a dominarlo, lei invece era chiamata la Donna di Ghiaccio perché in confronto a Katrina sembrava una stalagmite – va bene che tutti noi, in confronto a Katrina, sembravamo dei cuccioli senza denti. Eppure, io ho sempre visto il fuoco in lei. C'è un passo di Dostoevskij, nei Demoni – ebbene sì, ho letto una volta Dostoevskij nella mia vita –, che dice: "Io davvero non so se si possa guardare un incendio senza un certo piacere".» Tacque, per un istante. Il suo sorriso assunse la forma di una mezzaluna. «Per quanto mi riguarda ho trovato la risposta a questa domanda molti anni fa.»

Fu con quell'ultima frase che si congedò. Un cenno del capo e nient'altro; si allontanò, sparendo come aveva fatto Raisa.

Lukas sospirò e maledisse ancora una volta Ljuba Vosikiev nella sua testa. Ci mancava giusto un nuovo lupo con una vecchia storia alle spalle a rendere l'equilibrio di quella città ancora più precario.

Avrebbe voluto parlarne con Raisa, ma non poteva, non solo per gli ordini del Vor. Non avrebbe saputo cosa dirle.

Con un altro sospiro si avviò anche lui, verso la mensa, con solo la luna già piena ai fianchi ad accompagnarlo. 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top