XVI. Notti randagie - prima parte
Il ricevimento che suo zio aveva organizzato per festeggiare il nuovo progetto del Cremlino si teneva nel suo palazzo a Kolomenskoe, costruito sulle fondamenta dell'antico palazzo degli zar, un'area tanto prestigiosa quanto maledetta. Nell'Ultima Guerra erano state rase al suolo le ultime vestigia del palazzo e della chiesa Kazanskaja per farne un centro di tortura dei prigionieri. C'era chi diceva che dove un tempo venivano intonate litanie e tra le stesse pareti che avevano visto la nascita della zarina Ekaterina I ora si potessero sentire solo le grida dei morti.
Sasha si tormentò il colletto; per l'ennesima volta se lo allentò e poi tornò a stringerlo. Stava soffocando dal caldo. La sala da ballo coi suoi stucchi dorati e i lampadari a gocce di cristallo rifletteva una luce soffusa e languida che rendeva l'ambiente torbido. Il risuonare dei calici di champagne insieme alle chiacchiere riproduceva una cacofonia che cozzava contro i pensieri e le emozioni delle persone presenti, pensieri che non riusciva del tutto a isolare. Doveva ancora allenarsi: era molto migliorato nel controllare quel potere, così come ora riusciva a trattenere il proprio odore, ma qualche guizzo di umanità altrui penetrava ancora nella sua mente e allora gli sembrava di rubare pezzi di esistenza.
Ivan gli diede una gomitata. «Lo finisci o no quello champagne?»
«Sì, un attimo. Lo sto gustando.»
«Io vorrei una cazzo di vodka» borbottò Igor.
«Mamma vuole che ritorni a Krasnodar» disse Ivan, annoiato.
«Le ho già detto di no.»
«Vedi di dirglielo meglio perché non ce la faccio più a sentire le sue lagne.»
Sasha non ribatté. Fissò il contenuto del suo calice, perdendosi nella trasparenza ambrata dello champagne. Emise un breve sospiro. Si era dimenticato come comportarsi alle feste dell'alta società.
Nella sala insieme ai balli si consumavano conciliaboli e accordi: vedeva suo zio Boris intento a parlare col Vor Mikhail Dazla; poco lontano c'era il figlio Aleksandr, affiancato da Raisa, la vulkulaki che aveva visto varie volte con Lukas Maraskin. I due stavano discorrendo coi figli di Roksana Vrubel, l'unica Vor donna delle alte sfere dell'Organizatsya. Quest'ultima lui l'aveva giusto intravista durante la serata: una signora avanti con gli anni, dallo sguardo di amianto.
Si soffermò più del dovuto sulla sua simile, Raisa: indossava un abito bianco che metteva in risalto la folta chioma bionda, simile a una cascata dorata lasciata sciolta sulle spalle. Si chiese cosa si provasse ad avere a che fare con una donna del genere. A dire il vero la prospettiva gli trasmetteva un po' di soggezione.
Prima gli era sembrato di vedere anche le figlie di Ljuba Vosikiev...
«Vado in bagno» annunciò e svirgolò via, facendosi largo tra la folla cangiante di vestiti. L'orchestra aveva iniziato a suonare una musica più vivace che spinse i più giovani a lanciarsi in pista.
Il palazzo era più grande di quanto avesse immaginato. I passi lungo il corridoio risuonavano simili a detonazioni di cannoni. Sulle pareti erano affrescati episodi della storia russa a partire dalla lotta ai boiari di Ivan il Terribile, la Prima Guerra del Nord e la Rivoluzione fino a sconfinare a fatti più recenti, l'Ultima Guerra e le dispute dei Vor. C'erano anche affreschi allegorici. In un riquadro era ritratto un lupo che ululava alla luna; stava vicino alla riva di un lago che rifletteva la sua immagine agonizzante nel sangue.
Accelerò il passo.
A un certo punto pensò di essersi perso. In quel dedalo di corridoi si ritrovò, non seppe come, in una stanza tutta nera. I paramenti erano scuri, color viola e antracite, il pavimento di marmo aveva delle venature biancastre. Al centro della stanza stava una piscina: un lago di acrilico nero simile a una pozza di inchiostro. Si fermò sulla soglia strabuzzando gli occhi. L'intera camera emanava la forte sensazione di trovarsi in un simulacro; il silenzio era uguale a quello che si consuma all'ombra di un chiostro medievale.
Si stava voltando per tornare indietro quando sentì delle voci. Voci di donne.
«Ti trasferirai a Mosca?»
«Con mio padre, sì.»
«E quando pensavi di dirmelo?»
«Te lo sto dicendo adesso.»
Sasha si acquattò contro il muro. C'erano dei paraventi che dividevano la stanza in due parti; quella in cui si trovava la piscina era al momento il luogo di una discussione. Non ci fu bisogno di sporgersi per capire a chi appartenesse almeno una delle voci. L'aveva già sentita, alla Maslenitsa. E se non fosse bastata la memoria uditiva aveva quella sensoriale dei ricordi che aveva captato.
Soraya Vosikieva stava parlando.
«Ho prima voluto esserne sicura.»
«Cazzo, Soraya!» La voce dell'altra donna – una ragazza? gli sembrava familiare anche questa – era alterata. «Da quanto tempo lo sai? Hai voluto essere sicura di cosa esattamente? Non ti è passato per l'anticamera del cervello che almeno accennarmene avrebbe avuto...»
«Vuole farmi sposare, Leda.»
Leda. Quel nome gli attraversò la massa del cervello con la subitaneità di un proiettile: Leda, la figlia del Vor Mikhail Dazla. Non poteva che essere lei. Abitava a San Pietroburgo come la maggior parte della sua famiglia, ma era venuta per la Maslenitsa e si era trattenuta; Sasha l'aveva vista poco prima nella sala da ballo insieme ad altri giovani vory, alta e quasi spigolosa nelle forme come negli atteggiamenti, coi corti capelli castani che le accarezzavano le spalle, gli occhi dello stesso colore, caldi e penetranti.
Ripensò a cosa aveva sentito dire da Igor riguardo lei e la Vosikieva. Leccafiche. Per poco non si morse la lingua, sentendo l'imbarazzo salirgli alle guance. Per tutti i santi che nessuno invocava: era forse finito nel mezzo di una discussione amorosa?
Decise di svignarsela; non era proprio opportuno origliare una conversazione privata come quella, ma un movimento da parte della Vosikieva gli impedì di scivolare via. La ragazza si spostò di qualche passo, mettendosi al centro della stanza, poco lontano dalla piscina; Sasha dovette arretrare e nascondersi più a fondo dietro i paraventi. Lo spazio era minimo e si sentiva il cuore pulsare al ritmo di mille tamburi.
Ah, se Igor e Ivan fossero stati con lui... non voleva immaginare la scena.
«Che cosa hai detto?»
Intanto le due vory continuavano a parlare.
«Vuole che mi sposi. Leda, me l'ha detto.» C'era una nota stanca nella voce di Soraya. «Lo sapevo già, in realtà. Lo sospettavo. Fra poco compirò ventun anni e sai come va nella mia famiglia.»
«Vi sposate giovani e solo tra di voi. Sì, sì, lo so, me l'hai detto tantissime volte e in tutte quelle volte ho pensato fosse assurdo.»
L'altra non rispose.
«Dovresti decidere tu cosa fare della tua vita. Credi sia giusto che tuo padre decida per te?»
«È mio padre. E tu non capisci: abbiamo delle tradizioni da rispettare, la nostra famiglia...»
«Fanculo le tradizioni! Pensi che non abbia anch'io dei doveri nei confronti della mia famiglia?»
«Non è la stessa cosa.»
«Perché non sono la primogenita? È vero, te lo concedo: ho molte meno responsabilità di te, ma, Cristo, Sori, neanche mio fratello è stato costretto a sposarsi ad appena vent'anni! Hai tutto il tempo per...»
«No, non ce l'ho. Non capisci, non puoi capire.» Un altro movimento: Soraya camminò lungo il bordo della vasca nera, il ticchettio dei tacchi che riverberava nella stanza dalle grandi volute come nella navata di una chiesa vuota. «Devo farlo. È già deciso.»
Seguì un momento di silenzio, poi un sibilo: «Sai già chi è?»
«Uno dei miei cugini, forse Kirill.»
«Ti piace?»
Una mezza risata, amarissima. «È un bravo ragazzo. Immagino che potremmo riuscirci. Ad andare d'accordo, intendo.»
«Questo vuoi da un matrimonio, andare d'accordo? Vuoi dividere la vita con una persona che trovi simpatica? E se dovesse...»
«Cosa?» la incalzò l'altra dolcemente.
«Mi hai sempre detto che nella tua famiglia ci sono stati casi di instabilità mentale. E mi chiedo come non potrebbe: tutte queste unioni al limite dell'incesto... Io davvero non vi capisco.»
«Non c'è niente da capire.» Dal suo angolo, Sasha vide Soraya serrare le labbra. Leda Dazla era di fronte a lei, non ne scorgeva altro che i capelli scuri. «Sei preoccupata per me?»
«Non voglio che finisci come tua madre, Soraya.»
Quella frase dovette toccare un tasto delicato perché il viso della Vosikieva cambiò, anche se solo per un secondo. Qualcosa affiorò nel suo sguardo, nascosto e fragile come il riflesso agitato della luna sulle acque prima immobili di uno stagno.
«Mia madre amava mio padre» disse piano, appena un bisbiglio.
«Allora perché è così infelice?»
«Lui l'ha delusa.» Soraya scosse la testa, Sasha la vide distogliere lo sguardo. D'un tratto le sue labbra assunsero una piega dura. «Non voglio parlarne, lo sai.»
Leda Dazla parve ritrarsi. «Sì, lo so, scusa. È che sono... vorrei... cosa ne sarà di noi?»
Oh, no, pensò lui in preda all'allarme. Sei un ignobile ficcanaso, Aleksandr Levakovic Kirayev, si rimproverò mentalmente.
«È per questo che volevo parlarti.»
Soraya si era avvicinata. Sasha chiuse gli occhi e cercò di estraniarsi. Se adesso si baciavano e magari decidevano di andar oltre in quella stanza vuota, lontane da tutti, poteva dire di aver superato il limite della decenza, soprattutto considerando che l'idea gli trasmetteva un pungolo di eccitazione. Erano entrambe giovani e avvenenti e...
Pensa ad altro, pensa ad altro, pensa a...
«Dovremmo finirla.»
La frase arrivò così, col sentore di una sentenza, accolta nel silenzio. Sasha non vedeva nessuna delle due, ma udì distintamente il sobbalzo del respiro di Leda Dazla.
«Cosa?»
«Dobbiamo finirla.» L'altra lasciò perdere il condizionale. «Tu tornerai a San Pietroburgo, io resterò qui, mi sposerò e... dobbiamo finirla prima che faccia troppo male.»
Ancora silenzio.
Sasha si mise a fissare le venature del marmo. Creavano un disegno intricato, come affluenti di fiumi che cercano lo sbocco di un mare che non esiste.
«Non ci posso credere.»
La voce della Dazla vibrava di qualcosa di più dello stupore: era una nota incrinata, incredula e spezzata insieme. Gli fece pensare a un bicchiere di vetro percorso da una crepa invisibile.
«Leda...»
«Lo stai facendo davvero.»
«Leda, ascoltami...»
«Ho sempre saputo che saresti stata tu a rompere. Queste cose uno se le sente: c'è chi tira di più in una relazione e quella parte sono sempre stata io. E va bene, mi andava bene: potevo cedere un po' di potere perché comunque sapevo che, a modo tuo, ricambiavi. Ma questo...»
«Cerca di capire.»
«Cerca di capire cosa? Che non vuoi nemmeno provarci? Che tutto, tutto sarà sempre più importante?»
«Non ho mai detto che tu non sia importante!»
Soraya aveva alzato la voce, quella di Leda, al contrario, si era fatta un sibilo.
«Ma non sono importante abbastanza. Lo neghi forse?»
«Perché devi essere sempre così estrema? È tutto bianco e nero per te ed è proprio per questo che sarebbe sbagliato rimanere insieme. Non sei una persona che cede a compromessi, neghi tu questo?»
«E allora leviamoci il problema dai piedi.»
«Smettila, per favore. Smettila di mettermi in bocca parole che non penso. Tu non sei un problema, ma sarebbe un problema continuare. Un giorno mi ringrazierai di averla chiusa prima che sfociasse in un casino.»
E allora Leda Dazla scoppiò a ridere, una risata senza eco, che rimbalzò nella stanza e trasmise a Sasha un brivido di freddo.
«Certo, certo... ovvio: ti ringrazierò. Tu fai sempre la cosa giusta. Non la più ortodossa forse, ma sempre quella giusta, quella necessaria. Un giorno ti ringrazierò per avermi spezzato il cuore, hai ragione. Scusa se ora vorrei solo prenderti a pugni.»
«Leda...»
«Non toccarmi.»
Un movimento: pur con gli occhi chiusi Sasha lo avvertì – erano i suoi sensi di animale ormai in grado di captare ogni singola vibrazione nell'ambiente che lo circondava. Leda si allontanò dal braccio dell'altra proteso verso di lei.
«Non sono neanche sorpresa, se proprio vuoi saperlo. Era ovvio che nel momento in cui fossi stata chiamata a scegliere tra me e la tua famiglia avresti scelto quest'ultima. Sono stata solo io la stupida, quindi ora lasciami andare via da perfetta stupida senza inseguirmi con finte parole di rammarico o peggio: "possiamo rimanere amiche". Giuro che se mi dici...»
«Perché dobbiamo comportarci come delle bambine? È possibile che non riesci a prenderla in maniera meno...»
«In maniera meno emotiva? Mi spiace, sei tu l'esperta in quel campo, non io.»
Leda si stava avviando verso la porta. Sasha si era sporto per vedere da dietro il paravento, non resistendo alla curiosità. Pensava che sarebbe uscita senza pronunciare altra parola, chiudendo con un tonfo la porta – una perfetta uscita melodrammatica come se ne vedono nei film –, ma a pochi centimetri dalla soglia si voltò. Si girò verso la Vosikieva. Non aveva gli occhi lucidi di pianto o l'espressione addolorata. Era normale, il volto pallido e affilato, incorniciato dai capelli castani, gli occhi fermi sull'altra ragazza, rilucenti di una intensità in bilico su sentimenti più ambigui. C'era la traccia di una ferita in quello sguardo, pulsante e dolente, ma anche una strana risolutezza.
«Fammi giusto dire una cosa, Soraya. Ti ricordi quando mi hai confessato la tua paura più grande? Non avevamo neanche sedici anni, forse. Fu quando Inessa fece il suo apprendistato tra i Krasnij. Mi dicesti che il tuo desiderio più grande, che era anche la tua più grande paura, era diventare come tuo padre. Beh, non so cosa ne pensi ora, ma fattelo dire: ci sei riuscita. I miei complimenti, sarai un ottimo Vor.»
E se ne andò, sbattendo la porta.
Sasha, che desiderava il dono dell'invisibilità già da diversi minuti, rimase fermo e in silenzio dietro il paravento. La curiosità lo spinse a guardare tra gli spiragli per cogliere l'espressione di Soraya Vosikieva. La ragazza non aveva mosso muscolo del viso. Le ricordò il padre in una maniera inquietante. Le ricordò anche sua madre, Nadja, inaspettatamente: le stesse labbra serrate, la contrazione impalpabile delle guance, unico indizio che si stesse consumando qualcosa sotto l'armatura sottile della pelle, qualcosa che non sarebbe venuto alla luce; un'emozione custodita, segreta e inviolabile. Poteva sentirla e poteva sentire quanto lei non volesse rivelarla, neanche a se stessa.
Soraya rimase forse un minuto così, immobile, a fissare la porta chiusa, poi sembrò riscuotersi. Uscì dalla stanza, il volto impassibile. Sasha aspettò che la sua chioma corvina scomparisse prima di muoversi.
Bene. Aveva appena assistito a una litigata con gran sprezzo della privacy, ora cosa doveva fare? L'idea di tornare al ricevimento gli strinse lo stomaco in una morsa sgradevole.
Adducendo un mal di testa lancinante – Ivan lo guardò con disprezzo; "solo le donne hanno mal di testa" –, si ritirò. Salutò gli zii perché così imponeva l'etichetta e fu fuori da quel palazzo il prima possibile. Suo zio Boris lo aveva mandato a prendere con una macchina provvista di autista e fu così che tornò alla druzina, ringraziando che fosse notte fonda così da non subirsi le battute e gli sguardi degli uomini che lo avevano seguito quando era salito in quella macchina lussuosa. Avrebbe dovuto trovarsi un appartamento – aveva cominciato a pensarci.
Posso mischiarmi a loro, ma non mi prenderanno mai per uno di loro, si era detto. Anche coi fratelli ashkali era così: per quanto si sforzasse rimaneva quel confine, una linea invalicabile che li rendeva estranei e distanti. Loro non avevano niente da spartire con lui e d'altronde neanche lui con loro.
Si fermò davanti alla porta della stanza di Aisha, senza bussare. Sospirò. Si chiese se lei sognasse e cosa sognasse, se erano incubi a popolarle le notti o qualcosa di più dolce.
Vedeva una casa in fiamme a volte, i giorni in cui non riusciva a trattenere i propri poteri. Nei ricordi di lei c'era la solita stanza bianca contenente un lettino con delle cinghie, ma c'erano anche altre immagini, se ne era sorpreso: quelle di una donna bellissima dagli occhi verdi che sorrideva mentre metteva del cibo in tavola e di una bambina che giocava con un lupo nei boschi, una bambina che rideva. I suoi occhi erano belli, scuri e profondi, il colore della corteccia, della resina dorata. Gli facevano pensare a terre morbide e fertili che non aveva mai visto.
Poggiò la fronte contro la superficie di legno, dalle labbra gli sfuggì un altro sospiro.
Esistono ferite, lui lo sapeva, che non si possono guarire, che al solo sfiorarle riprendono a sanguinare. Avrebbe potuto tenderle la mano, ma a cosa sarebbe servito? Anche lui aveva delle cicatrici, solo più trasparenti, nascoste come quel che aveva intravisto nel volto di Soraya Vosikieva. Non era adatto per un dolore come quello di lei; forse non lo sarebbe mai stato.
Non bussò, né si mosse. Rimase in quel silenzio profondo quanto un respiro prima che la stanchezza lo reclamasse. Si allontanò da quella porta muta, seguito dal riflesso della luna.
***
Ljuba lo aveva convocato quella sera a un orario insolito, ma Lukas non se ne sorprese più di tanto: se aveva imparato qualcosa in quegli anni a Mosca era che il Vor dei Khlysty non faceva quasi mai niente che gli altri si aspettassero.
«Sto per andare al ricevimento dei Novikh» rivelò mentre si infilava la giacca. «Una farsa come tutto quello che li riguarda, l'occasione per festeggiare la costruzione del nuovo Cremlino facendo credere che ogni gruppirovka avrà la sua parte nel progetto quando saranno loro a tenerne le redini. Hai saputo della SAVKA?»
«Cosa c'entra lo Stato Maggiore?»
«Avrà un ruolo in questo progetto. Il Cremlino diventerà la nuova base operativa del Comando.»
Un accordo con le alte gerarchie dell'esercito: puro stile Novikh, in effetti.
«Perché mi hai convocato?» volle sapere Lukas. «Per le conoscenze che ho nell'esercito? Se è per questo caschi male: ho avuto a che fare al massimo con ufficiali. I ranghi maggiori mi sono sempre stati preclusi.»
A parte Jagun, che aveva incontrato prima che lo promuovessero generale. Jagun Bezbòznij che pensava di conoscere... Magari era proprio per questo progetto che era venuto a Mosca, per ordine dei suoi superiori.
«No, non per questo. Ho già i miei contatti nell'esercito.» Ljuba finì di abbottonarsi e sollevò lo sguardo. «C'è un'altra questione per cui mi serve il tuo aiuto.»
Se c'era una cosa che odiava erano i giri di parole, attitudine naturale dei nobili.
«Cosa? Avanti, dimmelo.»
«Si tratta di un uomo, un altro vulkulaki. Fra una settimana sarà qui a Mosca. È uno dei nostri agenti in incognito tra i clan, è assegnato a sud. Deve fornirmi un rapporto più dettagliato sui recenti massacri di cui parlavamo l'altro giorno.»
Lukas non stava capendo. «E?»
«Ho bisogno che tu lo controlli.»
«Prego? Prima i lupetti spiantati capitati tra capra e cavoli, ora un vostro agente? Sul serio, Ljuba, mi hai preso per una balia?»
«Non è un lavoro da balia. Te lo chiedo perché ho estrema fiducia nelle tue competenze.»
«Che sarebbero?»
«Mettiamola così: ho molti vulkulaki al mio servizio, ma pochi hanno il tuo livello di forza, perlomeno qui a Mosca.»
«Dimentichi Raisa.»
Una volta sola avevano lottato, l'unica che lei aveva concesso. Era stato uno scontro che ancora ricordava col sorriso sulle labbra. Si era concluso in un pareggio, più o meno; lei gli aveva dato filo da torcere fino all'ultimo secondo.
Ljuba scosse la testa. «Non posso affidare questo compito a Raisa.»
«Oh, capisco: lei è adibita a compiti più importanti, io invece sono adatto al lavoro sporco.»
Ora lui roteò gli occhi. «No, non è affatto così. Non posso chiederlo a lei perché conosce quest'uomo.»
«E quindi?»
«L'ultima volta che si sono visti lei voleva ucciderlo» dichiarò e, davanti all'espressione di Lukas, proseguì: «Ecco perché mi servi tu. Anche se è un nostro agente da un anno, non mi fido del tutto di quest'uomo. Ha un potere molto particolare: riesce a neutralizzare in parte i poteri altrui. Persino mia moglie ha avuto difficoltà. Ho messo alla prova la sua lealtà, ma permangono delle zone d'ombra. Apparteneva allo stesso clan che comandava Raisa; ci era entrato dopo aver lasciato il clan della sua famiglia. Successivamente ha lasciato anche questo clan ed è ritornato all'ovile per poi passare dalla nostra parte. I voltagabbana non sono mai persone di cui fidarsi e se non puoi controllarli...»
«Aspetta.» Lukas stava cercando di raccapezzarsi. «Quando dici "clan che comandava Raisa" intendi quello in cui stava questa fantomatica sorella di cui lei non mi ha mai parlato?»
«Esatto.»
«Come si chiama questo tizio?»
«Yuri Petrov.»
Cercò nella memoria, ma non trovò nessun riferimento. «Non mi ha mai parlato neanche di lui.»
«Immagino che non ne parli volentieri. Anch'io so pochissimo: so che, quando venne a sapere della sua fuga, Raisa non la prese bene. Ora sono dalla stessa parte; vorrei evitare che vecchi rancori si traducano in una resa dei conti all'ultimo sangue.»
«Pensi che Raisa potrebbe ucciderlo e vuoi che lo eviti?» Fischiò breve, stupito. «Va bene, controllerò questo tizio, ma fattelo dire: mi sembra assurdo. Sono passati... quanti anni?»
Ljuba sospirò pesantemente. «Lukas, conosci qualcosa di più duraturo del rancore di una donna?»
Ci pensò su e dovette ammettere che no, non lo conosceva.
«Continuo a ritenere i tuoi timori infondati e sai perché? Perché quando Raisa vuole una cosa, la ottiene. Se non ha stanato questo Petrov ai tempi, significa che non voleva davvero ucciderlo.»
«Può darsi.» Lui alzò le spalle. «A quanto so avevano una relazione.»
Oh, ora si spiegava meglio.
«Ho sempre avuto la sensazione che fosse il tipo di donna che non si fa remore ad ammazzarti» commentò Lukas, soprappensiero. «Ora addirittura me lo confermi...»
Avrà avuto le sue ragioni, suppose. Non riusciva a pensare a Raisa, una persona così calma, controllata, sempre attenta a scegliere il male minore, a contenere per quanto possibile le perdite; non poteva immaginarla preda di una furia omicida senza motivo.
«È un vulkulaki forte e potente: è appartenuto a quel clan e ora fa il doppio gioco, quindi...»
«Aspetta, aspetta.» Dovette di nuovo interromperlo. «È nel clan della sorella di Raisa? A proposito, com'è che si chiama?
«Katrina» fu la risposta. Il Vor si massaggiò il mento. «No, non appartiene a quel clan, ma ha dei contatti, contatti preziosi. È il nostro unico ponte, fragile ma l'unico.» Fece una smorfia: si vedeva quanto non approvasse la situazione. «Ho bisogno che non ci siano questioni... private a frapporsi. Posso contare su di te?»
Lukas cosa avrebbe dovuto rispondere? Emise un sospiro.
«Sono qui, ma ti avviso: se lei lo vede e vuole ucciderlo non glielo impedirai. Dovresti parlarle.»
«Lo farò.»
«E intanto io mi prendo la patata bollente. Ma bene, mi piace vedere quanto sono apprezzate le mie qualità: da balia di lupacchiotti sperduti a guardia del corpo di una mina vagante. Complimenti a me.»
Ljuba sorrise, un sorriso sottile.
«Apprezzo le tue qualità, Lukas, lo sai. Questo è un momento delicato: voglio essere cauto. È già successo in passato che ci fossero lupi ribelli, ma non erano mai stati così organizzati e metodici. Non voglio sottovalutare nessun elemento, neanche quelli strettamente personali.»
Non si fida di lei, capì in un istante. Era così: per quanto il Vor nutrisse stima e fiducia nei confronti di Raisa, che nel corso di quegli anni si era integrata nella comunità vulkulaki moscovita fino a diventare la sua più stretta collaboratrice in capitale insieme a Dimitrij Berekovskij, per quel particolare frangente esitava. C'era una sorella di mezzo e, a quanto pareva, un vecchio amore.
«Farò quanto mi hai chiesto» promise. «In tempi di guerra si può sempre contare sull'onestà di un mercenario.»
Ho messo come immagine del capitolo la copertina perché il quadro che Sasha intravede qui rimanda a quella ;)
Sotto il ritratto di Leda Dazla. Auguro a tutti buone feste ^^
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