XIV. Il lupo bianco - prima parte
A un certo punto scoppiò il caos.
Lukas non capì: dal suo posto in tribuna insieme agli altri capi di druzina vide Sergej Novikh assumere la sfumatura del latte cagliato e inveire contro uno dei suoi. Lo raggiunse il fratello, ci fu una breve discussione e anche Aleksandr Novikh divenne più pallido della luna. Lukas guardò in direzione di Raisa. Lei fissava dritta davanti a sé, il profilo come incastonato nel bagliore lunare.
Vuoi vedere che c'entra quel lupo bianco?
Ebbe l'improvvisa sensazione che qualcuno gli stesse nascondendo qualcosa.
Non ebbe tempo di interrogarsi, comunque – come se non avesse già troppi pensieri per la testa –, perché Aleksandr Novikh scavalcò i suoi sottoposti, raggiunse il padre, che si era appena riseduto dopo il suo discorso alla platea, e si chinò al suo orecchio.
«Lukas.» La mano di Raisa scivolò sul suo braccio. Era una presa calma, ma, attraverso i sensi già tesi, avvertì una nota di allarme. «Abbiamo un problema.»
Neanche le chiese di cosa si trattasse, lo capì ancor prima che il Vor della Bratstvo si alzasse e riprendesse il microfono. Il suo volto era impassibile, ma gli occhi riverberavano di una fredda luce feroce.
«Chiedo di mantenere la calma, compagni. Mi è stato appena comunicato che c'è un lupo in libertà nelle vicinanze, un lupo vero.»
A quell'annuncio l'intera platea esplose. Al suo fianco Lukas sentì gli altri capi raddrizzarsi, di colpo attenti alle parole del Vor; qualcuno aveva già messo mano alla pistola.
«Il lupo appartiene alla Bratstvo!» dichiarò Boris Novikh, alzando la voce per sovrastare il rumoreggiare della folla. «Mio figlio l'ha catturato mesi fa. È scappato dalla sua gabbia e ha ucciso due dei nostri. Chiunque lo catturerà riceverà una ricompensa, ma deve essere catturato vivo. E...» Con quegli occhi di ghiaccio il Vor sorvolò l'anfiteatro. «Sia ben chiaro: chiunque tenterà di appropriarsene ne risponderà.»
Poi venne il caos vero e proprio.
Lukas si ritrovò quasi ad annaspare nella fiumana di uomini e donne che spingevano per riversarsi fuori dall'anfiteatro. La promessa di catturare un lupo, uno degli ultimi della sua specie, il cui sangue avrebbe permesso a chiunque di mantenersi come un vory per tutta la vita, aveva acceso gli sguardi, infiammato gli animi. Cercò i suoi uomini: buona parte erano già con le armi spianate, impazienti e in attesa di istruzioni. Non vide Ilyas, né la sorella.
«Buona caccia, Lukas» fece una voce bassa che riconobbe come quella di Jagun. Gli passò davanti, Shanna libera, senza catena al collo. «Io userò un segugio.»
Il leopardo emise un sibilo tra i denti. Fissava Lukas con sospetto.
Non ha un olfatto migliore del mio, pensò senza guardare il generale. Era diventato difficile affrontare il suo sguardo.
«Che vinca il migliore» si limitò a dire senza quasi muovere le labbra.
Lo osservò andar via, cogliendo il suo sguardo che curiosava tra le fila dei suoi uomini.
Diede i suoi ordini: dispose la druzina in gruppi, uno al comando di Lev, l'altro di Kolja e l'ultimo con lui. Non vedeva Raisa, che si era persa nella folla, anche lei forse impegnata a fingere di voler trovare il lupo con la sua druzina. Sperava che avesse le idee più chiare di quanto le avesse lui: era il braccio destro di Vosikiev a Mosca, in fondo, doveva essere informata del piano – perché c'era un piano, no? Non aveva più saputo cosa volevano fare di quel lupo dopo il tentativo di fuga fallito da parte di Andrej.
E a proposito di Andrej...
«Dove sta quel maledetto ragazzino?» sbottò e Kolja lo sentì.
«Ti riferisci a Ilyas? L'ho visto prima con la sorella alle porte. Forse si sono già messi a caccia.»
«No, non lui. Lascia perdere.»
Imbracciò la sua Makarov e si mosse. Il parco Gorkij risuonava del rombare delle moto e di urla selvagge che avrebbero spaventato anche una talpa. Umani idioti: pensavano forse di catturare un lupo con tutto quel fracasso?
«Deve essere ferito» rifletteva al suo fianco Georgij Zatenov, la voce addensata di eccitazione. «Se ha ucciso degli uomini... avranno già trovato una pista. Io dico di seguire gli altri e poi al momento giusto...»
«Cosa stanno facendo quei due?» gridò qualcuno e Lukas seguì il suo sguardo.
Ilyas e Aisha erano a pochi metri di distanza, mentre attorno a loro la folla sciamava. Lei aveva il fucile che le pendeva mollemente dalla spalla, lui setacciava uno zaino. Alzò gli occhi verso di loro, un bagliore dorato nel fondo. Non fece in tempo ad aprire la bocca: in poche, ampie falcate Lukas li raggiunse.
«Non dovete allontanarvi senza dirmelo» sibilò e forse era arrabbiato, non sapeva con chi.
Aisha non rispose, ma Ilyas scattò, alzandosi e riversandogli addosso il suo sguardo omicida. «Non darci ordini.»
Lukas avrebbe voluto prenderlo per i capelli e dirgli una buona volta di abbassare le arie, ma i suoi occhi stranamente vulnerabili quando avevano incrociato quelli di Jagun Bezbòznij non facevano che rimbalzargli in testa. Ora però erano ostili, infiammati. Trasse un lungo respiro, abbassò la voce.
«C'è un lupo in libertà, avete sentito? Se lo catturano siamo fottuti. Credo che lo abbiano già portato in salvo.» Lo sperava quantomeno: se quello era tutto un piano dei Vosikiev non voleva credere che si sarebbero fatti intrappolare così facilmente dagli umani. «Ma dobbiamo essere cauti. Fiutate.»
«Pensi che non lo stiamo già facendo?»
Aisha allargò le narici. «C'è una traccia lì.» Indicò verso il bosco che vibrava dei passi degli uomini che lo stavano solcando. «Ma è debole.»
Anche Lukas la sentiva, nel freddo della sera: debole, smorzata, come prima di una trasformazione. Non era l'odore di Andrej – riconosceva anche quello: un misto di aghi di pino e neve candida –, ma un altro che non aveva mai sentito. Per un assurdo istante gli parve di percepirne una traccia in lei.
C'è qualcosa di strano.
«La donna bionda non ti ha detto niente?» domandò Aisha, ma si tacitò quando gli altri uomini li raggiunsero.
«Cosa state facendo?» chiese Kolja.
Ilyas indicò lo zaino. «Armi.»
Lukas sentì il puzzo della menzogna fin dentro le narici. Stavano forse fuggendo? Dopo aver visto come avevano guardato Jagun non la considerò un'ipotesi tanto peregrina.
Ljuba era stato categorico anche riguardo loro: dovevano stare sotto la sua supervisione e, per tutti gli dèi che si rifiutava di invocare, lo sarebbero stati.
Agganciò la spalla di Aisha, provocandole un moto rigido, mentre gli occhi del fratello si assottigliarono. «Voi venite con me.»
«Ma...»
«Ho detto: venite con me.»
Non li avrebbe persi di vista. L'ultima cosa che ci voleva ora era avere ben tre lupi in libertà.
Vide Raisa. Stava dando istruzioni ai suoi e al tempo stesso teneva d'occhio il cellulare. I loro occhi si incrociarono. Aveva uno sguardo calmo, che calmò anche Lukas.
Ha tutto sotto controllo, pensò. Dobbiamo solo fingere.
Lasciò la spalla di Aisha, guardò i suoi uomini, cercando tra i loro visi un'esitazione, ma non la trovò. Avrebbero avuto lo stesso sguardo avido se avessero dovuto cacciare lui.
Fu un pensiero che sfuggì alle maglie della mente.
«Avanti, catturiamo questo lupo.»
***
Gli tremavano le mani.
«Merda, merda, merda» non faceva che ripetere in mezzo al baluginio dei fari delle macchine. Per poco non andò a sbattere contro una; sterzò bruscamente e rimase sulla strada per miracolo.
«Merda!»
Il ragazzo stava disteso sui sedili posteriori, ancora incosciente. Lento e smorzato si levava il suo respiro. Sembrava solo profondamente addormentato; se li avessero fermati, Andrej avrebbe potuto inventarsi che l'altro era troppo sbronzo per tenere gli occhi aperti. Sarebbe stato difficile giustificare l'assenza di vestiti, ma poteva provarci. Quella notte si sentiva in grado di fare qualunque cosa.
Arrivarono nella via di casa senza incontrare nessun blocco. La notte friniva silente, l'aria era ispida e fredda. Schegge di vetro di un lampione fracassato rimandavano il bagliore della luna che si rifrangeva sul marciapiedi. Andrej scese dalla macchina e aprì la portiera. Come aveva fatto fuggendo dal parco Gorkij si caricò il ragazzo, avvolgendo un braccio sotto la sua vita e aiutandosi facendo perno sul busto. Quantomeno ora era coperto. Trascinarlo nudo per circa cinquecento metri nel buio del parco fino all'accampamento dove lo aveva avvolto in una coperta, con chiunque che poteva vederlo, era una di quelle esperienze che avrebbe ricordato finché fosse stato in vita.
Vosikiev mi deve quantomeno mille rubli di più di quanto pattuito, pensò, stringendo i denti e sbuffando. Il lupo non più lupo non era proprio un peso piuma.
La via era deserta così come l'ingresso del condominio – topaia – in cui abitava. Non che si aspettasse di incontrare qualcuno: la gente era fuori in occasione dell'ultimo giorno della Maslenitsa e il portiere, Piëtr, quando era in servizio era più dedito a una bottiglia di vodka che ai condomini. Richiuse la porta con un calcio e per poco non perse l'equilibrio. Raggiunse con fatica l'ascensore, con la punta del gomito riuscì a centrare il pulsante. Aveva la fronte imperlata di sudore, il respiro ansimante. Nella tasca dei jeans sentì il cellulare vibrare: sperava fosse Raisa che rispondeva al messaggio che gli aveva mandato appena era stato al sicuro in macchina.
Si è tolto la pelliccia, le aveva scritto, lo porto con me.
Si augurava fosse abbastanza "enigmatico", poco comprensibile – e che diamine: lui non si intendeva di messaggi cifrati!
L'ascensore arrivò cigolando rumorosamente. Le porte non si aprivano in automatico, quindi dovette abbandonare il ragazzo contro il muro e poi riprenderselo in spalla. L'atrio angusto, con quel rivestimento alle pareti che ricordava la pelliccia di un topo morto, sparì una volta che le porte dell'ascensore si chiusero con un mugolio metallico. Schiacciò il pulsante del quinto piano e rimase in attesa dieci secondi buoni prima che quell'ordigno d'anteguerra decidesse di azionarsi. Cominciò la sua lenta salita; tra un piano e l'altro la luce, proveniente da un pannello al neon, andava e veniva e Andrej si sentiva sempre più schiacciato. Dalla poca aria presente nell'ascensore, dal corpo del ragazzo esamine premuto contro il suo, dalla notte e dall'intera situazione.
«Che merda» imprecò per l'ennesima volta.
L'ascensore si aprì.
Solo una volta dentro casa, quella casa che non sentiva sua, semplicemente un buco temporaneo in cui mangiava, dormiva e pisciava, solo una volta tra quelle mura tutta la tensione di quella notte scivolò via come un bacio in ritardo. Andrej si accasciò al suolo, una volta disteso il ragazzo sul divano, e si tirò le ginocchia al petto, conficcandosi le unghie nei palmi e impedendosi di urlare. Il pavimento era logoro, sporco; da quanto tempo non puliva? Aveva lasciato la finestra aperta, eppure quel persistente odore di sigarette e acqua di scolo non era scomparso.
Tirò fuori il cellulare. In meno di mezz'ora c'erano registrate tredici chiamate perse.
«Raisa?» fu la prima cosa che disse quando lei gli rispose.
La sua voce era calma, come al solito, ma in sottofondo riconobbe un'incrinatura diversa. «Andrej, dove sei?»
«A casa.»
«A casa?»
«L'ho portato a casa mia. Non sapevo... non sapevo che fare.» Si morse la lingua, si sfregò il pugno contro i jeans, trattenendo ancora una volta l'istinto di urlare. «La linea è coperta?»
«Non ti avrei chiamato con questo numero altrimenti. Come sta? È ferito?»
«No, no, sta bene.» Meglio di quanto stia io. «Ha cominciato a tremare, si è trasformato e poi è svenuto. Non ho capito bene cosa sia successo, ma...»
«Qualcuno ti ha visto?»
«No, erano tutti nell'anfiteatro.»
«Ora non più. Ora sono a caccia.» Solo in quel momento si accorse di rumori in sottofondo: rombi di motori, voci, grida. «Resta lì. Vengo da te.»
«Ma non...»
«Resta lì, ho detto. Soraya si sta occupando di illudere Sergej Novikh che tu sia andato a caccia con gli altri, Bogdan ha già instillato il ricordo della tua presenza nell'anfiteatro. Stai tranquillo: sei coperto. Ora assicurati che il lupo stia bene. A fra poco.»
Gli chiuse la telefonata in faccia e Andrej rimase a fissare il display per un tempo considerevole prima di voltarsi verso il divano.
Il ragazzo – Sereb – si era girato, gli dava le spalle. Un lembo della coperta gli era scivolato lungo il torso, scoprendo parte della schiena lunga. Era bianca la sua pelle, bianca quasi quanto i suoi capelli. Lo sguardo di Andrej era attirato lì: su quella massa bionda, troppo bionda, più chiara dei capelli di Raisa, persino di quelli di Boris Novikh. Era il colore della neve: quel ragazzo aveva capelli di neve.
Che cosa stai pensando? Scosse la testa, ritornando bruscamente alla realtà e a quella situazione a dir poco assurda. Non era il momento di pensare a quisquilie del genere. Trasse dei profondi respiri e si spostò in cucina. Nel frigo trovò una lattina di birra aperta: ne ingollò il contenuto in un unico, lungo sorso.
Si sedette sul tavolo, gomiti piantati sulla superficie, la testa incassata e preda di mille pensieri indistinti che gli si affollavano come uno stormo di rondini in volo. Era impossibile afferrarli e trovare un bandolo in quella matassa. Si sentiva le tempie bruciare.
Il lupo si è trasformato. Iniziò con quel pensiero: neutro, innocuo, qualcosa da cui partire. È andata bene. Non aveva dovuto ucciderlo: era andata benissimo. Le sue mani erano ancora pulite, perlomeno del sangue del suo simile – spazzò via dalla mente l'immagine dei resti di Dmitrij e Fëdor; li relegò in una tasca profonda della coscienza. E poi ecco che arrivò il secondo pensiero simile a un tappo che riemerge galleggiando sulla superficie di uno stagno: perché si è trasformato?
Non l'aveva fatto quando era fuggito, aveva detto di non esserne in grado e ora, quella notte, magicamente, si trasformava per svenire nudo su un prato come se si fatto un trip allucinogeno. Andrej non capiva e più ci pensava meno capiva.
Sentì un rumore. Raddrizzò la testa, i sensi tesi. Dal resto della casa silenzio. Si lasciò sfuggire un sospiro e si alzò. Andò in bagno, si spogliò, fece una doccia veloce, lo scrosciare dell'acqua che attutiva il rumore dei pensieri.
Raisa sarebbe arrivata, Vosikiev sarebbe stato avvisato. Non era più affar suo ormai, il suo lavoro l'aveva svolto. Lui era una semplice rotella di un ingranaggio più grande e le rotelle non pensano: obbediscono e basta.
Si infilò altri vestiti e lasciò la pistola nel cassetto del comodino. Quando ritornò nel salotto un brivido gli attraversò la colonna vertebrale, lento e freddo.
Il divano era vuoto.
To be continued...
Interrompo sul più bello, ma altrimenti il capitolo veniva troppo lungo :P
Finalmente posso mostrare la faccia di Sereb! Gli occhi sarebbero in realtà neri; non sono riuscita a farli con il programma di ritratti -- e, sì, hanno questo taglio allungato tipico di molti russi orientali, cosa importante per capire le sue origini ancora misteriose.
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