XIII. La notte della trasformazione - seconda parte
L'ultimo giorno di festa giunse in fretta, tra fiumi di vodka e occasionali risse. Lukas non ne contò più di venti: considerato l'ambiente, era un bel traguardo di civiltà. Si diceva che una Maslenitsa senza almeno cinque morti e qualche pestaggio non fosse una vera Maslenitsa.
«Ehi, guarda chi c'è, il siberiano!»
Sergej Novikh stava tra i suoi, ai margini dell'area del ponte che Lukas stava attraversando affiancato da Kolja per raggiungere l'anfiteatro dove si sarebbero tenuti gli ultimi festeggiamenti. Il giovane vory aveva il suo solito sorrisetto, che gli ricordava quello di una carogna emaciata, e gli occhi iniettati di sangue. Non c'era Andrej con lui.
«Novikh, sempre un dispiacere vederti.»
«Mai quanto il mio. Dimmi, hai assoldato dei khachi nella tua druzina? Mi è giunta voce che stai mettendo su un campo di zingari. Cos'è, nostalgia delle origini?» Sghignazzò come compiacendosi della battuta, che generò ilarità tra i suoi.
Lukas gli rivolse un sorriso freddissimo. «Quanto andavi male in geografia per non sapere che la Siberia fa parte della Russia?»
«Sappiamo tutti che razza di sudicio miscuglio di razze sia la Siberia; non mi sorprenderebbe sapere che tua madre se la faceva con un nochčà o magari tuo padre era un calmucco.»
Usò il termine dispregiativo che si usava per i ceceni e Lukas glielo rigirò contro con soave calma. «Tuo fratello non se la forse coi ceceni? Uno dei suoi galoppini viene da Novgorod o sbaglio?»
«Chi, quel senza palle di Miroslav? Oh, sì, sì, e infatti Aleksandr lo tiene al suo posto. Mio fratello ha un sacco di difetti, ma non si può dire che non faccia rispettare le gerarchie.» Sergej fece un passo avanti, verso di lui. Tra le narici Lukas poté sentire il forte puzzo d'alcol che emanava il suo alito. «Tu invece che ti ergi come se ne avessi diritto...»
«Novikh, non rompermi. Sono russo quanto te e, anche se non lo fossi, varrei più della tua merda.» Fece anche lui un passo avanti. Avevano quasi la stessa statura, lui e Sergej, una cosa che non gli era mai piaciuta. «A proposito di galoppini, dov'è il tuo? Ha preso il trotto con qualcun altro?»
Novikh sorrise, sfregandosi un angolo della bocca. «Ringrazia che il tuo culo nero serva a qualcuno in questa città – non certo a me –, ma stai in guardia perché non servirà ancora per molto e quando verrà quel giorno...»
«Oh, ora siamo passati alle minacce?»
«Nessuna minaccia, siberiano, non ne vali la pena. Quando non servirai più non dovrò neanche sprecarmi a calpestarti. Intanto vedi di rimanere tra i ranghi, da bravo soldatino. Devo pisciarti in bocca perché tu senta il sapore del mare? Capisci l'antifona.»
«Conosci anche la parola "antifona", ma dai. Sergiski, sei una sorpresa ogni giorno di più.»
Lukas aveva le braccia incrociate e lo guardava con un sorriso annoiato. Tutta quella situazione lo annoiava, di fatto, perché non considerava Sergej un elemento per cui prendersi il disturbo, anche se le loro schermaglie, doveva ammetterlo, avevano un loro rozzo divertimento – gli ricordavano l'atmosfera della truppa.
Il figlio di Vor sparò qualche altro insulto, poi se ne andò col suo codazzo al seguito. Checché ne dicesse, l'allusione all'assenza di Andrej lo aveva irritato.
Lukas superò il ponte insieme a Kolja; l'anfiteatro apparve contornato di luci rade quanto le stelle bionde assise in cielo. C'era una pedana al centro dove il Vor Boris Novikh avrebbe tenuto il suo discorso – si festeggiava anche il suo compleanno. Si fermò all'entrata, dove si erano assiepate molte persone. Riconobbe alcuni della sua druzina, tra i quali Kirayev e i due fratelli ashkali. Non ci mise molto a capire che stavano scommettendo.
«Ti sfido a farlo con una persona.»
Colse la voce roboante di Levin, impegnato a parlare con Ilyas. Si avvicinò, incuriosito. Il sorriso del ragazzo scintillava come una lama.
«Vuoi offrirti volontario?»
Levin indugiò. Aveva spesse sopracciglia, ispide e dure come setole, che gli erano valse nella druzina il soprannome di Breznev, come l'antico capo di partito. Formarono una linea accigliata che rese più rincagnato il suo volto.
«Ehi, ragazzo, non tirare la corda.»
Non lo chiamavano più "khachi", notò Lukas e se ne compiacque. Da quando aveva vinto le gare di tiro al coltello sembrava che l'atmosfera tra i suoi uomini si fosse fatta più accomodante.
«Hai paura?» chiese Ilyas, alzando il mento in un gesto di sfida.
«Io paura? Non dire stronzate, ho solo ragionevoli dubbi sulla tua abilità.»
L'ashkale si stava rigirando un coltello tra le mani, uno dei suoi, non proveniente dall'armeria. Quando li avevano catturati, Lukas aveva sequestrato le armi dei due fratelli, salvo poi ridargliele, una volta entrati nella druzina. Entrambi possedevano pugnali kinzhal dal doppio filo e la lama leggermente curvata; erano pugnali tipici del Caucaso, armi da predoni, utilizzati per sventrare animali e uomini. Ilyas li usava come fossero un'estensione del corpo – aveva minacciato di evirarlo proprio con uno di quelli –, la sorella invece, a quanto pareva, preferiva la polvere da sparo.
«Cosa sta succedendo qui?» domandò, piombando nel mezzo del gruppo. Gli fecero ala e si azzittirono all'istante.
«Un'innocua scommessa» spiegò Grisha.
«Levin vuole farsi affettare i coglioni» sghignazzò Zachar e Lukas sorrise, rivolgendo l'attenzione al diretto interessato.
«Ah, sì? Non tieni alla tua virilità?»
«Ho sfidato il ragazzo a fare il suo numero "tre su tre" non su un bersaglio disegnato ma su una persona vera» rispose lui, stizzito. «Ma non sono così stupido da offrirmi volontario.»
«Guarda che non ti colpirei» disse Ilyas e arricciò le labbra. «Forse.»
«Se non provi, la scommessa vale comunque» si inserì timidamente Sasha Kirayev. Si schiarì la gola. «Insomma, hai sfidato Ilyas a farlo, ma se nessuno si offre volontario, lui non può dare prova della sua abilità. L'impossibilità di forza maggiore però in questo caso non recide il contratto.»
Lo guardarono tutti con tanto d'occhi. «Eh?»
«Quel che voglio dire...»
«Barchùk, parla come mangi!»
«Sì, sì, se mi fate spiegare! Hai emesso la sfida e puntato i soldi, ora se Ilyas non può fare il suo numero quei soldi vanno di diritto a lui perché...»
«Eh, no! Mica funziona così!»
«Levin, l'hai presa nel culo, rassegnati. Oppure prova.»
«Non ci penso neanche! Quei soldi ritornano a me se...»
Le voci si accavallarono una sopra l'altra in una cacofonia in cui il filo logico si sfilacciò. Gli unici a non intervenire erano Lukas e Aisha, lei intenta a guardarsi attorno con distrazione, lui impegnato a godersi la discussione. Erano i momenti che preferiva nella druzina, quelli che gli ricordavano la convivialità vissuta nella giovinezza e nell'esercito. Momenti senza regole e formalità, senza maschere e sotterfugi, dove un uomo può essere quello che è – anche se per metà lupo.
La discussione si stava alzando di tono: Levin minacciava un duello alla maniera moscovita, qualcuno propose di raccattare un disperato qualunque disposto a fare da bersaglio per due grammi di kradija, Ilyas stava dicendo che tutta quella paura di essere evirati era eccessiva se non si possedeva nulla di valore in mezzo alle gambe, quando, dal nulla, riverberò un basso sibilo.
Lukas si girò prima degli altri e vide Shanna, la bestia del generale Jagun, senza catena, apparsa tra le ombre addensate agli angoli dell'anfiteatro. I suoi occhi verdi rilucevano d'oro nel buio.
«Oddio!» questa era la voce di Sasha Kirayev, seguita da altre esclamazioni. «Un leopardo!»
Sia il nobile che gli altri uomini schizzarono indietro, spaventati. Kolja aveva già messo mano alla pistola, Levin si affannava alla ricerca della propria, Aisha si era raddrizzata dal muro, Ilyas era paralizzato al suo posto.
«Aspettate!» fece Lukas, cercando di calmarli. «Non sparate e non fate movimenti bruschi, è solo...»
«Shanna?»
In un primo momento non riconobbe in quell'interrogazione, bassa e colma di stupore, la voce di Ilyas. Si voltò a guardarlo, lui che fissava l'animale, interdetto. Lo vide socchiudere gli occhi e aprire la bocca; la voce gli uscì vibrante di una nota incerta.
«Shanna...» ripeté e stavolta non fu una domanda.
Davanti agli occhi di Lukas e dell'intera druzina il felino avanzò, muovendosi sinuoso, gli occhi fissi su Ilyas, e poi... poi si strusciò tra le sue gambe, tra le fauci un verso tiepido e roco, simile a un miagolio.
Non sapeva che espressione avesse assunto, ma non doveva essere tanto diversa da quella di tutti gli uomini che stavano assistendo stupefatti alla scena.
Sasha Kirayev aveva gli occhi sbarrati. «Aisha, tuo fratello... tuo fratello si sta facendo fare le fusa da quel leopardo!»
La ragazza sembrava essere diventata di sale, ma durò solo un attimo. Mentre il fratello si abbassava ad accogliere una lappata di Shanna, lo raggiunse, la pistola stretta nel pugno, la voce ridotta a un sibilo di avvertimento.
«Ilyas.»
Ci fu un fischio, breve e basso, e Shanna si voltò. Jagun Bezbòznij stava a pochi metri di distanza, circondato da un paio dei suoi uomini. Anche se l'illuminazione era bassa, proveniente dalle fiaccole appese per le mura dell'anfiteatro, Lukas poté scorgere con nitidezza il suo viso inframmezzato di ombre.
«Shanna, qui.»
Il leopardo passò da Ilyas al generale quasi fosse un innocuo gatto richiamato dal suo padrone. Aisha fece scattare la mano sul braccio del fratello.
«Ilyas, dobbiam...»
«Guarda chi si vede.» Jagun fece un passo avanti, e un altro ancora. La luce dei fuochi spioveva illuminandogli solo un lato del viso, quello senza cicatrice, lasciando l'altra metà in ombra. «Tenente.»
Ilyas, automaticamente, indietreggiò.
Se Lukas non fosse stato a corto di parole, rimaste incastrate in gola per la surrealità di quella situazione di cui il senso gli stava sfuggendo, avrebbe chiesto cosa diavolo stesse succedendo.
«Che mi prenda un colpo!» esclamò una delle guardie del generale, avanzando a sua volta. Aveva la faccia cosparsa di lentiggini grosse come capocchi di spillo. «Ilyas, sei tu?»
«Vi conoscete?» chiese uno dei suoi uomini. Lukas no; Lukas non riusciva a parlare.
Un senso di freddo, strano e inusuale, gli scese nel petto quando Jagun socchiuse le labbra e mormorò un semplice: «Sì.» E aggiunse, con voce perfettamente calibrata: «Non sapevo che accogliessi disertori nella tua druzina, Lukas.»
Il sentirsi chiamare in causa lo riscosse e gli fece recuperare la voce. «Non avevo idea... secondo le leggi un soldato che passa alla Organizatsya non può essere perseguito per...»
Prima che potesse completare la frase, Jagun lo interruppe con un cenno della mano, quello che aveva anche a Novosibirsk, quando gli bastava un gesto per riportare gli uomini tra i ranghi. «So benissimo qual è la legge, non ti sto accusando. Sono solo sorpreso.»
Parlava a Lukas, ma guardava Ilyas con un'intensità insistente, quasi ossessiva, come se tutto l'ambiente circostante fosse solo un contorno.
Il ragazzo aveva indurito i lineamenti. Al primo moto di stupore era subentrata la rigidità della postura e dell'espressione. Non con difficoltà Lukas vide la sua mano stretta sull'impugnatura del coltello, ma rimaneva immobile, teso come un animale davanti alla canna di un fucile.
Per la prima volta lo vide spaventato.
La sorella era ancora dietro di lui, gli stringeva il braccio, le nocche sbiancate. Si sporse per sussurrargli qualcosa all'orecchio, quando il soldato lentigginoso la scorse e sbottò in un'esclamazione: «Aisha? Ehi, ci sei anche tu.» All'istante il ragazzo si sistemò i capelli e sorrise gioviale. «Come va? Diavolo, questa sì che è una sorpresa. Al comando avevano detto... chiedo venia, generale.» Parve ritornare sui propri passi, fissando il suo superiore. «Sa lei quel che è successo, io avevo solo sentito...»
«Fai il tuo lavoro e basta, soldato.»
«Sissignore.»
Lukas fece un passo avanti e si frappose tra i due fratelli e il gruppo di militari. Guardava Jagun. «Non avevo idea che vi conosceste. Ora comunque sono nella mia druzina e...»
«Non sto dicendo nulla» ribadì lui, la voce ancora calma, fredda, gli occhi posati al di là di Lukas. «È Shanna che ha voluto avvicinarsi.»
Pur girato di spalle, percepì il suono di un fiato trattenuto tra i denti.
C'era qualcosa che non andava, qualcosa di storto. Il modo in cui lo stava guardando...
«Fra poco inizia la cerimonia» disse, non sapendo che dire. «Jagun, dovremmo...»
«Certo.» Di nuovo quell'alzata di mano, il gesto condiscendente di un comandante che ordina alle truppe di ritirarsi. «Stavamo andando anche noi. Buon proseguimento di serata, signori. Tenente.»
Un cenno del capo, quello sguardo scuro, penetrante quanto un taglio sul vetro. Poi il generale se ne andò, seguito dalle guardie e da Shanna, che emise un ultimo basso miagolio rivolto a Ilyas prima di allontanarsi. Attorno a loro, impigliato nell'aria, rimase il silenzio.
«Maledizione!» esclamò qualcuno e iniziò un ronzare di sussurri.
Tutti sbirciavano Ilyas, che se ne stava rigido e immobile a fissare il punto in cui i militari se ne erano andati, il braccio stretto dalla sorella.
«Tutto bene?» chiese Sasha, avvicinandosi.
Era la domanda che avrebbe voluto fare Lukas.
«... sì» rispose Ilyas, appena un sussurro morso tra i denti. Si liberò dalla stretta della sorella e si allontanò senza guardare nessuno. Lei aveva stretto le labbra.
«Era sotto il comando del generale Bezbòznij?» le domandò Lukas, una domanda del tutto inutile, a cui lei rispose con un cenno del capo.
Cosa è successo tra loro? avrebbe dovuto chiedere piuttosto. Non lo fece però. Capì, con sorpresa, di avere paura della risposta.
***
Il primo petardo scoppiò in cielo creando un anemone di luce rossa e dorata contro il nero della volta notturna. Il fragore fece tremare le magre chiome degli alberi; seguirono scoppi di risa e altri boati. I fuochi erano cominciati con alcuni minuti di ritardo.
Andrej aveva calcolato tutto: Sergej era con suo padre e gli altri nell'anfiteatro, fra circa un'ora si sarebbe tenuto il discorso di Boris Novikh. In quel momento tutti gli uomini e le donne presenti nel parco di Gorkij si stavano riunendo; i fuochi d'artificio erano il richiamo generale per l'ultima fase della Maslenitsa. A parte sporadiche coppie infrattate in angoli bui, tutta la Organizatsya era riunita nello stesso posto.
Aveva steso quel piano con Raisa, era stata lei a dirgli che quello era il momento migliore per agire. Della druzina di Sergej solo due uomini erano posti a guardia della gabbia del vulkulaki, gabbia che si trovava alla porta est dell'anfiteatro, pronta a essere aperta per prelevare l'animale e portarlo al cospetto del Vor allo scoccare della mezzanotte.
Vulkulaki. Animale. Non usava il suo nome. In quelle settimane, nei pensieri, aveva fatto di tutto per spersonalizzarlo, allontanando l'idea di un proprio simile per renderlo solo... una cosa. Un ostacolo, una pedina che doveva essere eliminata. Così in fondo ne aveva parlato Vosikiev e Andrej cercava di adattarsi. Cercava di eliminare dalla mente tutti i progetti precedenti, di salvezza e non di eliminazione, le "chiacchierate" che avevano fatto, anche se definirle chiacchierate era azzardato; allontanava dai ricordi il modo in cui il lupo lo aveva guardato, quando lo aveva immobilizzato nel suo tentativo di fuga, con ferocia e disperazione; come era scattato quella volta con Sergej...
Scosse la testa, furiosamente, mordendosi il labbro e occupandosi della pistola. La stava caricando, nell'ombra della sua tenda, perché non si poteva mai sapere – quella sera si sarebbe trasformato, ma era sempre meglio avere a portata di mano un'arma. Prima Sergej era passato intimandogli di sbrigarsi se non voleva perdersi i festeggiamenti. La sera prima Andrej gli aveva chiesto di andarci giù pesante con la cinghia. Le ferite non si erano ancora rimarginate: erano tagli lunghi, che pulsavano sotto le bende, sotto i vestiti, tagli che non erano niente in confronto al destino che aspettava il lupo bianco quella notte.
Sereb, il suo nome è Sereb.
Chiuse il caricatore con uno scatto e si alzò. Indossava solo un giubbotto leggero, ma non aveva freddo. La pelliccia lo avrebbe coperto più di qualsiasi indumento. Uscì dalla tenda col peso dell'arma, pesante ma confortante, contro il fianco. Come aveva previsto il campo era deserto. Le luci dell'anfiteatro si sfaccettavamo in lame oblique, illuminando a sprazzi il parco immerso nell'ombra. Continuava a ripetersi il piano in testa; ogni passo che allungava era un suo ricamo.
Doveva uccidere gli uomini di guardia sotto forma di lupo. Doveva aprire la gabbia, far uscire il vulkulaki, ucciderlo. Riguardo al corpo, doveva sbarazzarsene: una volta divenuto materia inerte sarebbe stato possibile per lui trasportarlo grazie al proprio potere. Portarlo via, lontano da lì. Poi doveva tornare. Una volta ultimato il lavoro, avrebbe raggiunto gli spalti poco prima del discorso di Boris Novikh, quando si sarebbero accorti di quel che era successo. Avrebbero pensato tutti di avere un lupo in libertà, liberatosi dopo aver sbranato i suoi custodi. A quel punto sarebbe stato il caos.
Un membro dei Khlysty, capace di manipolare la memoria delle persone, aveva il compito di instillare il ricordo di Andrej seduto nell'anfiteatro ad alcuni membri della druzina di Sergej – per dotarlo di un alibi. Se non fosse bastato ci sarebbe stata sempre la figlia di Ljuba Vosikiev, Soraya Vosikieva, che aveva il potere di creare illusioni: poteva convincere un uomo di essere morto, se voleva. Lui aveva un ampio margine di manovra: sarebbe stato coperto per tutta l'operazione anche nell'eventualità che non riuscisse a tornare in tempo per il discorso. E sempre che il lupo bianco non prevalesse.
Lo avevano imbottito di barbiturici, Andrej lo sapeva: un cocktail di roba in grado di addormentare un bue, ma non un giovane esemplare di lupo arrabbiato e oppresso. La gabbia era stata rinforzata così come i legami. Frastornato, l'animale sarebbe stato trascinato nell'anfiteatro per essere offerto come tributo al re delle Russie. Forse la morte in quest'ottica poteva apparire una salvezza o forse stava solo cercando giustificazioni.
Nel lato est dell'anfiteatro l'illuminazione era scarsa; distinse la gabbia e i due uomini che la controllavano. Dmitrij e Fëdor, due membri minori della druzina, abituati al lavoro sporco. Li conosceva a malapena: una volta con Fëdor aveva giocato con le carte della prigione, quelle che gli aveva prestato Lukas, vestigia del gulag in cui aveva rischiato di essere internato a vita. I quattro semi rappresentavano tutti simboli diversi: le picche erano vanghe per i ladri, i trifogli per i criminali in generale, i denari per gli informatori e infine i cuori per chi era alla ricerca di un partner romantico. Perché la prigione è dura, diceva Lukas, a volte vuoi solo che qualcuno ti sfiori con le dita.
«C'è qualcuno?» esclamò Dmitrij, il fucile imbracciato.
«Ehi.» Andrej avanzò, emergendo dalle ombre annidate agli angoli. Sul viso sperava di avere un sorriso rilassato. «Come va, ragazzi? Sergej mi ha ordinato di venire a controllare che fosse tutto a posto.»
Dmitrij abbassò l'arma. «Mi hai fatto prendere un colpo! Sì, sì, tutto a posto, glielo puoi dire al vory.»
Al suo fianco Fëdor sbuffò. «Facile delegare tutto agli altri e chiamarsi vory per questo. Non mi prendete per un pisciasotto, ma ogni volta che guardo questo lupo ho una fottuta paura.»
Il suo compagno rise. «Ma di cosa? Guardalo, sta nella gabbia. Hai paura che ti assalga la sua ombra?»
«E quando dobbiamo toglierlo? Ha quasi mozzato la gamba di Nikolaj e ha ammazzato Alesa.»
«È per questo che sono qui.» Andrej fece un altro passo avanti. Di sfuggita vide il lupo sollevare lentamente le palpebre. I suoi occhi erano neri come la notte attorno a loro. «Per aiutarvi.»
Fëdor aggrottò la fronte. «Non doveva venire Mikhail? E poi non è presto?»
«Sì» rispose. Un altro passo, un altro ancora. «È ancora presto.»
Dmitrij stava per dire qualcosa, ma la voce gli morì in gola. Spalancò gli occhi, non fece in tempo a urlare come Fëdor non fece in tempo a sollevare il fucile.
Sono solo umani, si disse Andrej. È solo un po' di sangue.
Tutti noi dobbiamo versare sangue, gli diceva sua madre quando era ancora viva.
La luna lo guardava, grande e pallida, indifferente.
***
Quando finì, sputò il sangue a terra, che venne assorbito quasi subito. Nel buio era scuro, una pozza di inchiostro. Andrej riassunse sembianze umane, il respiro moderatamente affannato. Cercò di riassestarlo, mentre superava i resti sanguinolenti dei due uomini.
Il lupo si era alzato e lo stava guardando dietro il vetro.
«Dobbiamo fare in fretta» gli disse, passando la targhetta nella fessura metallica della gabbia. Era ancora sporca della materia cerebrale di Dmitrij. «Abbiamo poco tempo prima che se ne accorgano.»
Lui balzò fuori, non scappò. Andrej era pronto a rincorrerlo, ma stranamente il lupo bianco sembrava docile. Forse lo avevano imbottito davvero troppo di farmaci: aveva gli occhi offuscati e i riflessi rallentati. Non pensò che avesse cominciato a provare paura o addirittura rispetto nei suoi confronti dopo aver fermato la sua fuga. L'importante era che camminasse. Andrej lo spinse a seguirlo.
Si diresse verso la Moscova, là dove l'ansito del fiume era più rumoroso. I passi venivano inghiottiti dal fischio del vento, l'erba sotto le suole era ghiacciata. I fuochi d'artificio erano finiti ed erano soli nel campo. Tutti i suoni erano concentrati nell'anfiteatro. Si chiese a che punto della cerimonia fossero. Questione di poco e sarebbe stata mezzanotte, il compleanno di Boris Novikh; questione di pochissimo e avrebbero scoperto la fuga. Si sentiva tutti i peli delle braccia rizzati, i sensi in allerta. Non ricordava un'altra occasione in passato in cui fosse stato tanto nervoso.
Fuori, devo portarlo fuori dal parco e lì ucciderlo. Trasporterò il suo cadavere. Nessuno lo vedrà. Nessuno saprà mai che è stato in questa città.
Nessuno a parte lui.
Nel silenzio risuonò una voce.
«Compagni, stiamo per salutare l'inverno e dare il benvenuto alla primavera!»
Andrej si immobilizzò, sentendo il ghiaccio scendergli nelle ossa. Per un attimo credette che Boris Novikh fosse dietro di lui col suo sorriso bianco e letale. Invece erano solo gli altoparlanti che diffondevano la sua voce in ogni angolo del parco.
Il Vor stava già parlando. Quanto mancava alla mezzanotte?
«Sbrigati» ordinò al lupo, pronto a correre, ma sentì un guaito.
Voltandosi si accorse che l'altro si era fermato.
«Cosa ti prende?»
Fece un passo avanti, nella sua direzione. La luna illuminava il suo manto facendolo apparire d'argento. Il lupo aveva abbassato il capo e scoperto i denti. Il fiato gli sibilava tra le zanne.
«... e questo accade ogni anno, da più tempo di quanto possiamo ricordare...»
La voce, bassa e suadente, di Boris Novikh risuonava scandita nella notte, simile al lamento lugubre di una campana. Il lupo abbassò ancora più il capo, lo vide tremare alla luce della luna. Spessi fiotti di fiato gli uscivano dalle fauci. Andrej provò ad avvicinarsi, ma lui gli ringhiò contro.
«Ehi» fece e stava per toccarlo, quando un violento tremito si impossessò del corpo del lupo. Davanti ai suoi occhi stramazzò al suolo e iniziò a contorcersi. Andrej per poco non urlò dalla sorpresa.
«Ehi, stai bene?»
Si chinò, cercò di calmarlo – non sapeva come: sembrava essere preso dal delirium tremens –, ma il lupo tremava, tremava e tremava, sbavando al suolo, gli occhi rivolti alla luna, la pupilla inghiottita dal nero dell'iride. Andrej emise un gracidio strozzato. Qualcosa si stava contraendo sotto le sue costole, come una presa di artigli sulle ossa: era un nodo di panico e allarme che gli iniettò le gengive di metallo e gli fece sobbalzare il respiro. Iniziò a scuotere il lupo, incurante della possibilità di venire ferito a toccarlo; lo scosse violentemente, affondò le dita nel suo pelo, lo chiamò.
Lo chiamò col suo nome.
«Sereb! Cosa ti succede? Non fare così, non fare...»
Io devo ucciderti.
«Non morire!» gridò, dimentico del suo proposito, dell'anfiteatro, della notte. La sua attenzione era totalmente avvinghiata a quel corpo sussultante sotto la luce della luna, preda di contorcimenti.
E poi accadde.
Sentì un calore serpeggiare sotto il pelo del lupo, trasmettersi alle sue mani. Indietreggiò, spaventato. Il manto bianco s'illuminò, divenne vero argento. Sereb smise di guaire. Andrej riconobbe l'alone che precede una trasformazione e sbarrò gli occhi perché davanti a lui, a pochissimi centimetri di distanza, un corpo nudo e bianco prese forma al posto del lupo. Il corpo di un ragazzo coi capelli dello stesso colore della luna piena.
«Oddio!» esclamò, balzando all'indietro.
Si alzò e imprecò. Imprecò vivamente, credendo a un'allucinazione, ma quel corpo era davvero lì, era reale, sotto i suoi occhi. Il corpo di un essere umano come lui, svenuto e riverso al suolo.
«Oh, Signore Benedetto.»
In pochi secondi aveva nominato Dio più che in ventidue anni di vita. Sergej doveva averlo contagiato.
E ora? si chiese.
La voce di Boris Novikh continuava a spandersi, più fredda delle ombre attorno a lui.
«È questa la notte, compagni, quando la vita rinasce dopo un lungo inverno. Questa è la notte della trasformazione.»
Credit immagine: https://www.deviantart.com/jessicasansiquet/art/Croc-blanc-427102803
Dal capitolo 7:
Si alzò, liberandolo, e lui non attese un istante: si addossò al muro, il fiato sibilante tra i denti, i capelli ancora sul viso, lo sguardo durissimo. Lo fissava dal basso come se lo stesse sfidando. E allora Lukas capì.
Non è la prima volta per lui, pensò con una consapevolezza chiara e limpida quanto il riflesso del sole sull'asfalto. Non era la prima volta che quel ragazzo si trovava nelle mani di qualcun altro, completamente alla mercé di qualcun altro. Una persona certe cose se le porta addosso come l'odore. Aveva un riflesso istintivo, da preda che si dibatte in una tagliola: troppo teso nella sua mancanza di paura, troppo attento, scoperto, in bilico. I suoi occhi erano quelli di chi ha già sperimentato la sua buona dose di abuso per non riconoscere il puzzo di una nuova minaccia.
Lukas lo poteva vedere – lo poteva sentire fin quasi dentro le narici.
In questo capitolo succede di tutto in realtà e ce ne sarebbe di cose da dire, a partire dal grande tempismo della trasformazione di Sereb (!!), che, giuro, ha una spiegazione, ma si scoprirà più avanti. Ho messo questo estratto sopra per ricordare una sensazione che Lukas aveva già avuto, e cioè che Ilyas fosse già stato "completamente alla mercé di qualcun altro". Come? Si scoprirà solo leggendo! Non dico niente, se non di prepararsi a tematiche molto delicate, e vi lascio con la suspense dell'ultima scena da brava sadica scribacchina *rolls*
In ultimo lascio una foto di Shanna *__* La quota felina, come mi ha detto qualcuno, mancava e chi mi conosce sa quanto ci tenga ;)
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