XII. Maslenitsa - seconda parte

Le tende erano una novità: non era mai stato in una tenda. Non era mai stato neanche in una druzina di mercenari, se per questo.

«Ci siamo accampati spesso» stava dicendo Aisha, laconica come sempre, mentre controllava il fuoco. «Perché me lo chiedi?»

«Così.» Sasha si passò una mano dietro la nuca. «Non so come funziona, sai, questa cosa del campeggio.»

«Non è che campeggiassimo» puntualizzò lei, girando gli spiedi, le fiamme che rendevano più scavato il suo viso incorniciato dalla corta chioma. I capelli le erano cresciuti in fretta in quelle ultime settimane: li aveva tagliati di nuovo. «Era per sopravvivere: trovavamo un posto, possibilmente vicino a una fonte d'acqua, cacciavamo e dormivamo all'addiaccio.»

«Alla che?»

«Significa dormire all'aperto, magari vicino a un gregge di pecore.»

«Oh.» Sasha si beveva ogni parola. Abbassò sensibilmente la voce. «E, dimmi, con "cacciare" intendi...»

«Sotto forma di lupi, già.» Aisha smise di girare gli spiedi e sollevò lo sguardo a guardarlo, un bagliore d'oro brunito che spezzava il castano dell'iride. «Dovresti imparare.»

«A cacciare? Da lupo? Oddio, io non...»

Ancora non sapeva trasformarsi a comando e avrebbe dovuto... cacciare? Uccidere degli animali, animali veri, grandi e grossi? Tanto valeva prendere il posto di quei polli sullo spiedo.

Si sentì chiamare. «Barchùk! C'è qualcuno per te.»

«Chi...»

Quando si voltò, si sentì gelare. A pochi metri di distanza, al limite dell'accampamento della druzina, c'erano i suoi fratelli. Ivan aveva un sorriso sufficiente, Igor si guardava attorno con la sua solita aria scocciata, gli occhi gonfi, iniettati di rosso.

«Oh, Signore Benedetto.» Sasha si alzò in fretta, lasciando Aisha, e si sfregò le mani di colpo umide sul tessuto dei jeans. Raggiunse i due con un palpito in gola. «Che ci fat...»

«Ecco dov'eri finito, idiota» esordì Ivan, allungandogli un pugnetto al petto. «Te l'avevo detto, Igor, no? La druzina senza padroni.»

«Che ci fai qui, Sasha?»

«Possiamo... possiamo parlarne da un'altra parte?»

Cercò di allontanarli. Igor allungò lo sguardo fino al falò dove Aisha stava cuocendo gli spedi e li stava guardando, forse.

«E quella?»

«Chi?»

«Quella zingara laggiù. Ma dove cazzo sei finito, in una bidonville o come diavolo si chiamano?»

«È una della druzina, lascia perdere.»

«Da quando i khachi sono ammessi?»

«Ti ho detto di lasciar perdere! Venite, venite, andiamo...»

Ivan lo afferrò per un braccio e lo costrinse a guardarlo dritto in faccia. Lui e Igor erano sostanzialmente identici, stessi capelli chiari, occhi color ghiaccio sporco, i visi emaciati. Ivan aveva una cicatrice sul mento, frutto di una rissa di molti anni prima, alle sue prime esperienze come vory. Era l'unico elemento che lo distingueva dal gemello.

«Sasha, ci eravamo preoccupati.»

Non se la bevve neanche per un secondo. «Scommetto che papà ha dato una festa invece, quando sono sparito.»

«Beh.» Igor sputò a terra e si spalmò sul viso un sorriso frastornato – doveva essersi fatto, come al solito. «C'è stata in effetti una festa, ma era per l'anniversario della presa di Krasnodar. Non potevamo certo rinunciare per te.»

«No, certo.»

«Ti abbiamo cercato» continuò Ivan, asciutto. «Che ti è saltato in mente di venire qui a Mosca?»

«L'ho scritto a mamma nella lettera: dovevo parlare con lo zio Vladimir e poi perché sarei dovuto rimanere se, come dite, neanche si notava la mia assenza?»

«Io sono stato bene, è vero» fece allegramente Igor.

Ivan scuoteva la testa. «E quindi vuoi rimanere qui? A fare la gavetta in una druzina mercenaria?»

«Papà è d'accordo: mamma me l'ha detto.»

«Io non ti capisco» disse lui e corrugò la fronte. «Non ti ho mai capito.»

«Lasciami.» Sasha si liberò dalla sua stretta e si guardò nervosamente attorno. «È questo il mio posto ora. Quando finirò, tornerò e...»

Non sapeva se sarebbe tornato, in realtà. Non ci aveva pensato. Al momento sapeva solo che più chilometri metteva tra sé e il Krasnodar, tra sé e la sua famiglia, meglio era.

«Stiamo andando dallo zio, vieni?»

«Come?»

«Lo zio Boris.» Igor sputacchiò un altro grumo di saliva giallastra a terra. «Vieni, avanti, invece di fartela coi meticci.»

Prima che Sasha potesse ribattere lo trascinarono via. Gettò un'occhiata dietro di sé: alcuni membri della druzina li stavano guardando, svogliatamente, Aisha invece era sparita.

Trattenendo un sospiro e sentendosi a ogni passo più pesante, li seguì. Qua e là persone emergevano dalle tende: erano tutti uomini dai volti solidi, come tagliati dall'accetta, e donne dallo sguardo duro e selvaggio. Si assomigliavano un po' tutti nell'espressione, coloro che lavoravano per la Mafiya, aveva potuto riscontrarlo negli anni: gente con negli occhi la spietatezza di chi considera la vita una moneta di scambio.

Il campo si estendeva per tutta la Moscova, un agglomerato di tende, teloni, metallo e fango. C'erano moto legate a catene, macchine simili a pachidermi in riposo tra le ombre. Il fiato degli uomini si svaporava in nuvole di condensa che si univano al fumo che saliva dai fuochi. Fuochi da campo: ce ne erano molti accesi, i carboni ardenti che sibilavano nell'aria pungente. La neve era di un color grigio sporco, la luna invece era argentea, quasi piena, avvolta da una rada foschia. Si chiese quanti lupi ci fossero nel campo in grado di avvertire la sua malia. Lui la sentiva, come un brivido freddo sulla pelle. Cercò di concentrarsi sul terreno che scorreva sotto le scarpe, evitando di guardarsi intorno e soprattutto di guardare l'astro assiso nel cielo.

La sistemazione del Vor della Bratstvo si trovava su una breve collina vicino alla Moscova, il punto più alto dell'intero parco. C'erano più guardie attorno alla sua tenda che membri della druzina di Maraskin, quasi. Li identificarono attraverso un occhio laser e li fecero passare, armi scintillanti nelle mani che mandavano riflessi metallici sotto il bagliore lunare.

«Zio.»

Fu Ivan a farsi avanti, quando entrarono. Un cenno del capo, quasi un inchino – anche Sasha ebbe la tentazione di inchinarsi.

D'un tratto sentì un gran freddo, eppure la tenda era riscaldata da bracieri che ardevano alti ai quattro lati. Suo zio stava in piedi dietro una lunga tavola invasa di carte, al suo fianco c'era il figlio, Aleksandr. Quest'ultimo alzò gli occhi, il Vor invece rimase concentrato sulle carte.

«Ivan, Igor e, oh, guarda chi c'è: il figliol prodigo.» Non si ricordava che Aleksandr avesse senso dell'umorismo. Un sorrisetto sottile gli increspò i lineamenti algidi. «Benvenuti, entrate pure.»

«Cari.»

Boris Novikh sollevò lo sguardo e Sasha dovette incassare il disagio, deglutendolo in fondo alla gola. Lo conosceva da quando era piccolo, ma ancora non si era abituato a quegli occhi freddi, di quel colore azzurrissimo, un azzurro così chiaro da rasentare la sfumatura del ghiaccio, occhi che sembravano senza vita nel posarsi su di te. Anche i suoi capelli erano chiari, un biondo che sfumava verso il bianco, le labbra sottilissime, strette sovente in un sorriso obliquo e serpentesco, le nari pallide e frementi. Aveva sempre sospettato, fin da quando era bambino, che suo zio avesse qualcosa dell'albino. Nella Organizatsya non a caso lo chiamavano il Master Belyi, il Signore Bianco.

«Zii» borbottò e fece scivolare lo sguardo nel fondo dell'ampia tenda. C'era odore di vino svaporato.

«Siamo felici di vederti sano e salvo, Aleksandr» fece il Vor, chiamandolo col suo nome intero. «Tua madre era molto preoccupata.»

«Si è voluto fare una gita fuori porta» disse Igor con indifferenza.

«Mi spiace averla fatta preoccupare.» Cercò di adottare un'espressione dispiaciuta senza però scadere nella costernazione. «Avevo bisogno... volevo provare a cavarmela da solo.»

«Sei stato irrespons...» stava iniziando Aleksandr, ma il padre lo interruppe. Una semplice alzata di mano che ebbe l'effetto di tacitarlo all'istante.

Sorrideva ed era terrificante. «Aleksi, non lo rimproverare. Da giovani si fanno tante pazzie. Tuo fratello mi ha fatto penare molto di più.»

«Sergej non è quello che prenderei come metro di paragone» disse il figlio, ma a voce talmente bassa che la frase ricadde nel vuoto.

«Avvicinatevi, ragazzi.» La voce del Vor era serafica, morbida come una carezza a tradimento. Li invitò al tavolo, spianando le carte con quelle dita sottili, simili a radici bianche filamentose. «Sapete cos'è questo?»

Sasha lanciò un'occhiata: lo zio stava visionando quello che aveva tutta l'aria di essere un progetto edilizio. Riconosceva i disegni, accompagnati da file ordinate di cifre. Una marea di cifre, a guardare bene.

«Uno stadio?» azzardò Ivan.

«Una nuova pattumiera a cielo aperto?» sogghignò Igor.

«È il Cremlino» fece lui, avvicinandosi, quasi sfiorando il braccio di Aleksandr. Strizzò gli occhi. «Mi sembra proprio il...»

«Esatto.» Boris Novikh stava ancora sorridendo. «Anche se sarebbe giusto dire: il nuovo Cremlino. Questo sarà l'aspetto del Cremlino quando finiremo i lavori. Ci siamo accaparrati tutti gli appalti e quando uso il plurale non lo uso a caso: i Maliska sono coinvolti, vostro padre è stato così gentile da fornirmi i suoi contatti con la Interkrup, che ha restaurato l'Ekaterinodar l'anno scorso. La mia intenzione è fare lo stesso lavoro a Mosca.»

L'Ekaterinodar, certo, Sasha ricordava. Era stata un'occasione per i gruppirovki del Krasnodar, quando era stato restaurato il palazzo di Ekaterina. Fin da quando era nato aveva sentito leggende su leggende su quel luogo, che era diventato la base dei Maliska, il simbolo attraverso il quale si propagava il loro potere. Era un palazzo alto, altissimo, diventato ancora più imponente l'anno prima: una colata di vetro e acciaio che dominava la città di Krasnodar, nata come dono della zarina Ekaterina ai cosacchi del Mar Nero. Suo padre diceva sempre che Krasnodar si poteva considerare a buon diritto la città dei cosacchi. L'Ekaterinodar era stato sviluppato allo scopo di rivendicare le radici del passato, che affondavano negli ataman, i signori della guerra, e negli ukhhodniki, gli avventurieri, che avevano combattuto lo zar ai tempi dell'organizzazione dei cosacchi di Zaporoze con le loro aspirazioni indipendentiste.

Indipendenza. Una strana parola. Pur con tutto il loro orgoglio e la loro fama di ferocia persino i Maliska, i cosacchi di suo padre, chinavano il capo al Signore Bianco di Mosca.

«Sarà la nostra nuova base» stava dicendo il Vor e per "nostra" Sasha capì "mia". Alzò lo sguardo verso di lui. «Hai intenzione di trattenerti a lungo, Aleksandr? Nel caso, come membro della famiglia, parteciperai al progetto.»

Di colpo la gola gli divenne secca. «Zio, ora sto facendo la gavetta in una druzina e non penso proprio...»

«Sei il figlio di un Vor» lo interruppe Aleksandr con una punta di inconfondibile sprezzo nella voce. «I figli di Vor non fanno gavette. Hai dei doveri nei confronti della tua famiglia.»

«Verso mio padre» insistette, sudando freddo, ma intenzionato a non mollare l'osso. «Non fraintendetemi, zii, ovviamente rispetto la Bratstvo, ma credo che dovrei...»

«Tuo padre è d'accordo» disse il Vor, lieve. «Consideralo come il tuo primo compito transfrontaliero.»

Sasha si sentì sgonfiare. Era già stato tutto deciso, come al solito. Senza consultarlo, come al solito. Il nodo alla gola si fece cappio, ma riuscì lo stesso a dire, abbassando il capo in quello che sperava suonasse come un gesto di contegnosa approvazione e non un deluso consenso: «Va bene.»

«Perfetto.» Per un momento paventò che lo zio si sporgesse a dargli una pacca sulla spalla. «Voi invece quanto vi tratterrete, ragazzi?»

«Solo per la Maslenitsa, zio» rispose Ivan prontamente. «Dobbiamo tornare a Krasnodar a fine mese.»

Sasha osservava con la coda dell'occhio il profilo di suo zio, la ritmica sincronicità del suo sorriso. Le sopracciglia seriche e arcuate davano al suo volto un aspetto da nibbio e quei capelli bianchi gli scoprivano la fronte ampia, percorsa da impercettibili rughe. Aveva un'espressione proprio da Divide et Impera, non poté fare a meno di pensare, rispolverando le sue conoscenze di storia. Quella di un dominus che si erge sopra gli altri col sorriso più amabile e letale dipinto in viso.

«Ti abbiamo portato un regalo» fece Igor. «Per il tuo compleanno; speriamo che ti piacerà.»

«Oh, i regali dei miei nipoti mi piacciono sempre. Sergej quest'anno lo vedo misterioso.» Il Vor si volse verso il figlio. «Sai cosa ha in mente? Mi ha detto che rimarrò senza fiato a vedere la sua sorpresa.»

«Ah, non ne ho idea.» Nell'espressione di Aleksandr si leggeva tiepida sufficienza. «Mi auguro solo che non farà saltare in aria il parco o l'intera città.»

«Sei sempre così diffidente con tuo fratello» fece il padre, ma non con tono di vero rimprovero. Ritornò ai nipoti. «Vi aspetto venerdì, ragazzi, per la giornata in famiglia. Vostra madre mi ha raccomandato di trattarvi come principi e sapete com'è vostra madre.»

«Non accetta mai un no, già» disse Ivan e sorrise. Sorrideva tantissimo in presenza dello zio. Persino Igor metteva da parte i suoi modi da pescatore cencioso del Volga per mostrarsi quasi civile.

Quando uscirono dalla tenda, dopo aver consumato le ultime chiacchiere, fu proprio Igor ad assalirlo, conficcandogli un gomito nel fianco. Sasha sputò aria e stridette i denti. Lo guardò, allibito.

«Ma che...»

«Guarda che stronzetto fortunato. Te ne vieni a Mosca in vacanza e finisci a lavorare per lo zio. Tu, quello che vomita se vede sangue.»

«L'ho fatto solo una volta» puntualizzò lui a denti stretti, intento a massaggiarsi il fianco. «E non era semplice sangue. Cazzo, quel tipo era stato spappolato!»

«Non hai lo stomaco, né le palle per questo lavoro, perché lo zio dovrebbe...»

«Igor.» Ivan mise una mano sulla spalla del gemello. Pareva una presa ferma, decisa. «Perché non pensi mai?»

Igor lo guardò, torvo. «Cosa dovrei pensare? Non mi sta bene che questo bastardello...»

«È tutto a favore della famiglia: Sasha fa parte della famiglia.» Ivan spostò lo sguardo su di lui e si vedeva che stava rimarcando quelle parole per autoconvincersi. Sasha non se la prese: erano anni che sia lui che Igor lo trattavano come un inetto. «Se sta con lo zio, stiamo anche noi con lo zio. So che il tuo piccolo cervello non ci arriva, ma...»

«Avrai tu il cervello piccolo» sbottò Igor. «Più piccolo del tuo cazzo» soggiunse, sorridendo della battuta.

Ivan sospirò. «A parte il fatto che siamo due gocce d'acqua, quindi ti stai insultando da solo, comunque vedila così: è un'occasione per Sasha di avvicinarsi allo zio. Se lo prende a ben volere è solo un vantaggio per tutti.» Ritornò a guardarlo. «Vedi di sfruttare l'occasione.»

Sasha neanche gli rispose. Continuò a massaggiarsi il fianco.

Il padiglione di suo zio, posizionato sopra quella breve collina, si trovava di fronte a un altro accampamento. Riconobbe con facilità il simbolo dei Khlysty, che garriva nello stendardo posto all'ingresso del campo: un lupo bianco e un lupo nero, che si fronteggiavano. Vosikiev, certo: giusto loro potevano avere come simbolo un'immagine del genere. Quello della sua famiglia era una šaška, l'antica sciabola cosacca, quello dei Novikh invece un serpente che stritola un lupo.

Stava pensando a quanto inquietante fosse quella scelta di simboli, quando, dall'altro accampamento, ci fu un movimento: gli uomini che stazionavano l'entrata si spostarono per far uscire due persone. Erano due ragazze, anche con quel poco lume riuscì a visualizzarne le sagome: due ragazze alte, ben coperte, dai capelli scuri. Ivan fischiò.

«Ehi, Inessa!»

La più alta delle due, quella coi capelli legati in una treccia, si voltò. Il suo viso chiaro si contorse in una mezza smorfia. «Oh, guarda chi si vede.»

«Anche per me è un piacere rivederti.»

Con uno scatto da maratoneta Ivan si portò davanti alle ragazze, seguito da Igor. A Sasha non restò che imitarli. Mentre camminava, al centro dello stomaco cominciò a formarglisi un obolo pesante, di cui non capì l'origine: una sensazione di disagio, più ambigua di quella che provava verso suo zio. Una volta raggiunte, guardò le due ragazze, avvolto da una strana soggezione. Non capiva perché. Sentiva qualcosa di diverso nell'aria...

Ivan era tornato di nuovo tutto sorrisi smaglianti. «Ti ho vista oggi: quei dardi li hai scagliati come se volessi crivellare un culo nero.»

«In realtà ho immaginato la tua faccia. Sai, per concentrarmi meglio.»

«Ottimo metodo.» Lui non abbandonò il sorriso e si voltò verso l'altra. «E tu, Soraya? Niente gare?»

«Lascio l'onore a Inessa» fu la risposta pacata.

Sasha la guardò meglio: aveva lineamenti più morbidi dell'altra, occhi limpidi, le ciglia lunghe a ombreggiarle gli zigomi alti.

«C'era anche Leda Dazla» si intromise Igor e fece schioccare la lingua, sorridendo come se avesse appena pronunciato un'indecenza.

«Sì, l'ho vista» rispose distrattamente la ragazza chiamata Soraya.

Dovevano essere le figlie del Vor Ljuba Vosikiev, capì Sasha in quel momento. Ne aveva sentito parlare di sfuggita e quella mattina aveva visto la ragazza con la treccia gareggiare con la sua balestra. Non ci aveva fatto molto caso: stava pensando alla scommessa su Ilyas al tiro dei coltelli. Ora che le ebbe davanti, si ritrovò a ingoiare un ulteriore bolo di disagio. Erano figlie di Vosikiev, questo significava che...

Un movimento. Soraya Vosikieva spostò gli occhi su di lui. Aveva allargato le narici, impercettibilmente.

«Lui...»

«È il nostro fratellino, Sasha.» Ivan lo prese per le spalle in un gesto amichevole e fraterno. Si vedeva proprio che voleva fare bella figura: di solito lo prendeva solo a cazzotti. «Non vi siete mai incontrati, vero? È la prima volta che viene a una Maslenitsa moscovita e non ha mai partecipato alle vostre feste a San Pietroburgo. A proposito, a quando la prossima? Mi devi un ballo, Inessa.»

«Preferirei farmi un culo nero, Ivan» disse lei, col sorriso nella voce.

«Beh, chi disprezza compra» ribatté lui filosoficamente e mollò Sasha, che tossicchiò.

Soraya Vosikieva lo stava ancora guardando.

«Ehm, ciao» la salutò, un po' impacciato.

Erano delle vulkulaki anche loro, forse riuscivano a sentire il suo odore. Cercò di reprimerlo nel modo in cui gli avevano insegnato Aisha e Maraskin, concentrandosi sul pensiero, stemperando l'ambiente circostante nella mente. Non era facile: a detta del Volk loro erano come quei felini ricoperti di ghiandole in tutto il muso, capaci di captare ogni odore, e quindi per nasconderlo ai propri simili ci voleva più che concentrazione, ci voleva...

«Piacere di conoscerti, Sasha.»

... forza...

Gli occhi di lei erano grigi, grigi come quelli del padre, profondi, imperscrutabili. Lo stavano fissando con una intensità tale che, per un istante, fu tentato di scappare. Ma resse lo sguardo e vide.

C'era una donna, una donna che piangeva, con un uomo accanto a lei, che non la toccava. L'ombra attorno a loro era densa e scura. C'erano due bambine, una distesa su un letto, preda di spasmi violenti, legata alla testiera per impedirle di spezzarsi la schiena a forza di contorcersi; l'altra bambina che la guardava inchiodata al muro, terrorizzata. C'era un lupo stagliato contro il bagliore del fuoco, un lupo dal manto scuro, dagli occhi grigi come peltro, un lupo pronto a spiccare un salto e...

Come se davvero un lupo fosse scattato ad azzannarlo, Sasha indietreggiò, quasi inciampò nei propri piedi. Gli sfuggì un gemito strozzato. I suoi fratelli e Inessa Vosikieva si voltarono verso di lui.

«Ehi, tutto bene?» chiese lei.

La sorella continuava a fissarlo, in silenzio.

«Sì.» D'un tratto sentì un gran freddo. Si strofinò la fronte e la trovò gelata di sudore. «Scusate, non... ho bevuto prima.»

«Non regge un cazzo» disse Igor. «È l'unico in famiglia.»

«Io odio bere» dichiarò Soraya, lieve. «Dovresti bere dell'acqua» suggerì.

«Sì, sì, certo.» Sasha non ricambiò l'occhiata. Fissò il terreno con insolita concentrazione.

«Stiamo andando dai Dazla, ci vediamo domani, ragazzi.»

«Certo!» Ivan raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. «Domani le donne potranno scegliere i loro partner per la notte. Tu lo farai, Inessa? Hai già pensato a chi...»

«Non te, sicuro» disse lei, voltandosi e incamminandosi. La sorella la seguì, non senza prima avergli scoccato un'ultima occhiata.

«Buona serata.»

Se ne andarono, avviandosi lungo il sentiero che fiancheggiava la riva destra della Moscova. Appena non furono più a portata d'orecchio Ivan si batté una mano sulla coscia. «Ah, un giorno me la scopo.»

«Lei non sembra dello stesso avviso» osservò Sasha, cauto.

«E tu che ne sai di donne? Oh, sì, un giorno implorerà per avere il mio cazzo nella sua fighetta riottosa.»

«Secondo te chi la lecca meglio tra la Vosikieva e la Dazla?» Il viso di Igor era soffuso di rossore; continuava a far schioccare la lingua. «Per me Soraya: dietro quell'arietta da principessa sembra avere la lingua dura.»

Al di là del chiedersi come si facesse a capire quando una persona ha la lingua dura, Sasha gli rivolse uno sguardo confuso. «Cosa stai dicendo?»

«Lei, l'erede di Ljuba Vosikiev, è una leccafica.»

«Peccato.» Ivan sospirò teatralmente. «A quanto pare gli uomini proprio non le interessano.»

«Perché non ha mai avuto un vero uomo che la facesse godere» fece convinto Igor. «Scommetto che se provasse con me...»

Sasha li lasciò a parlare tra loro, un discorso condito delle volgarità più discinte, inframmezzato da risate. Guardava il punto dove le ragazze erano scivolate via, favorite dall'ombra. Non si erano portate nessuna guardia dietro – erano lupe, d'altronde: di quale guardia avrebbero avuto bisogno?

Continuava a provare quella sensazione di disagio, mischiata ora però alla curiosità.

Per un momento, ritrovandosi nella mente dell'erede di Ljuba Vosikiev, per un solo momento gli era sembrato di conoscerla da sempre...

Credit immagine capitolo: https://www.deviantart.com/culpeo-fox/art/Common-Wolf-Snake-737667286

E finalmente conosciamo anche Boris Novikh, il più importante villain della storia insieme a un altro, che deve ancora apparire e che sarà comunque un cattivo più "ambiguo".

Ritrattino:

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top