XI. Incontri - seconda parte

C'erano i lampioni accesi, globi di vetro inghirlandati di neve che pulsavano di luce. Per alcuni istanti Andrej rimase a fissarli come una falena attirata dalla fiamma; si diede del cretino poi, per star sprecando tempo in quel modo.

Numero quarantatré. Era lì che doveva andare. Si guardò intorno, disorientato. Era la prima volta che capitava in quella parte di Mosca. Quello era un quartiere residenziale, poco lontano dall'Arbat, niente a che vedere con le ville della Rublyovka in cui abitavano i Vor e le loro famiglie, ma certo non era neanche assimilabile al posto dove viveva lui. Si muoveva circospetto nella taiga delle case ordinatamente disposte, in quelle strade linde e ampie. La neve scricchiolava sotto la suola delle scarpe a ogni passo. Stava nevicando, tanto per cambiare. Si alzò il bavero della sciarpa e rivolse un'occhiata al cielo nero, così scuro da apparire crepato dalle luci fredde delle stelle.

Quaranta, quarantuno. Vide una casa la cui forma ricordava vagamente quella di un cetriolo. Dall'interno proveniva una luce calda, suoni di voci, risate di bambini. Ombre come quelle delle lanterne di carta. Quarantadue, quarantatré. Si fermò davanti a una villetta bianca, candida come una colomba, contornata da un paio di betulle dai riflessi argentei alla luce acquosa dei lampioni.

Vive qua, pensò ed esitò. Non sapeva perché, ma si era aspettato qualcosa di diverso. Forse qualcosa più in linea con l'immagine che si era fatto di lei, una donna fuori dalle convenzioni, mentre quella pareva una casa costruita sul più puro e innocuo modello borghese.

Alzò le spalle e suonò il campanello. Lei gli aprì quasi subito.

«Ciao» esordì Andrej sulla soglia, spolverandosi la neve dal cappotto sul pianerottolo. Stropicciò le labbra in un sorriso di scusa. «Scusa la piazzata, non voglio disturbarti, ma... ho bisogno di parlarti.»

Raisa non sembrava sorpresa di vederlo. Nel corridoio, stagliata contro la luce morbida che le accarezzava gentilmente le forme, sollevò il sopracciglio. Il suo viso rimase immobile.

«Chiudi la porta» disse soltanto, voltandosi e invitandolo a seguirla. Andrej, un po' impacciato, obbedì.

Lasciò il cappotto nell'attaccapanni all'ingresso, che non era occupato da nessun altro indumento. Bene, non aveva ospiti. Sarebbe stato imbarazzante piombare mentre si stava intrattenendo con qualcuno, magari Aleksandr Novikh. Molto imbarazzante, per non dire incauto – come avrebbe potuto giustificare la sua presenza?

Con le mani in tasca, continuando a guardarsi intorno senza abbandonare quella sensazione di smarrimento, si trascinò fino al salotto. Lei era in piedi davanti a una vetrinetta, stava tirando fuori una bottiglia.

«Whisky?»

«Whisky?» ripeté lui. «Intendi whisky vero?»

«Che altro?» Prese due bicchieri e chiuse la vetriera con un fianco. «Un Macallan di prima della guerra.»

«Wow! Un regalo?»

«Bottino di un raid.»

C'era un basso tavolinetto con un divano di pelle bianca e due poltrone attorno. Raisa posò il whisky e i calici sul tavolino e si sedette su una delle poltrone. Andrej non aspettò il suo invito per imitarla. Si mise sul divano, mentre lei apriva la bottiglia, che aveva un'aria molto vecchia in effetti, l'etichetta sbiadita.

«Immagino che tu abbia bisogno di bere.»

«Hai già letto i miei pensieri?»

«No.» Non alzò gli occhi, impegnata a svolgere il tappo. «Quando posso non lo faccio mai.»

Andrej si morse la lingua e non parlò più, mentre lei versava il liquido nei calici. Lasciò vagare lo sguardo in quel salotto ampio, provvisto di un camino finto, una gola di marmo vuota in cui scoppiettava un fuoco bluastro digitale. Le pareti erano bianche dalle venature color smeraldo, il pavimento le riproduceva. C'era un tappeto, quello che pareva un pezzo pregiato, ma a parte questo l'arredamento era ridotto all'essenziale. Sembrava la casa di qualcuno di passaggio, qualcuno che non era riuscito a lasciarvi un'impronta.

Notò la fotografia.

Lo sguardo vi cadde inevitabilmente: era l'unico oggetto personale di quella stanza parsimoniosa di tracce di vita. Era racchiusa in una semplice cornice argentata, una foto un po' sbiadita nei colori, ma ancora nitida e lucida. C'erano tre ragazzi: un ragazzo alto e biondissimo in mezzo a due ragazze poco più basse di lui. Riconobbe una giovane Raisa, il volto ovale, le sopracciglia fini e le labbra piene tese in un sorriso non convinto. Aveva il capo leggermente piegato sulla spalla del ragazzo, parte del volto nascosta dai lunghi capelli, il cui colore scintillava come grano sotto il sole. Una posa, quella, che gli fece pensare a qualcuno che volesse nascondersi, dall'obiettivo della macchina fotografica, da chi avrebbe guardato in futuro quella fotografia. Gli altri due ragazzi erano più spavaldi e guardavano dritto l'obiettivo, il ragazzo con gli occhi socchiusi per via del riverbero; il suo sorriso era ampio, il candore dei denti risaltava come la fiamma di un fiammifero sfregato. Anche l'altra ragazza sorrideva, una criniera di ricci dorati attorno a un viso simile a quello di una giovane dea, così bello, di una bellezza acerba ma già fulgente, da far quasi impressione – come facevano impressione tutti e tre, così alti, biondi e abbagliati dal sole.

L'ultima ragazza aveva occhi verdi col riflesso dorato dei gatti nel buio. Andrej si voltò verso Raisa incontrando lo stesso verde.

«I tuoi fratelli?»

Lei seguì il suo sguardo. Il suo volto era ancora immobile; si limitò a un cenno di conferma.

«Non sapevo che avessi dei fratelli» disse tanto per dire qualcosa. «Anche loro sono lupi?»

«Lo erano.»

«Oh, mi spiace.» Ora insieme alla lingua avrebbe voluto mordersi le labbra. «Non sapevo... non immaginavo... scusa, dannazione, non volevo essere indiscreto.»

«Non fa nulla. Sono passati molti anni da quando Aleksej è morto.»

Nella sua voce colse, per la prima volta forse, qualcosa di umano: la traccia di una profonda, impalpabile tristezza.

«Mi spiace» si limitò a ripetere.

Lei non rispose. Gli passò il calice colmo a metà di whisky. «Perché sei venuto?»

Andrej deglutì profondamente. Abbassò lo sguardo sul bicchiere, lo prese in mano, avvertendo il vetro freddo. Trasse un profondo respiro. «Sono stato convocato da Ljuba Vosikiev tre ore fa.»

Lei sapeva già? Forse non c'era bisogno di saperlo, bastava intuirlo perché era un'intuizione facile, solo lui era stato così cieco.

Raisa non parlava, neanche lo sollecitava. Restava in silenzio, seduta sulla poltrona, avvolta nel suo maglione bianco, i capelli sparsi sulle spalle. Sembrava una regina assisa sul suo trono – lontanissima.

«Mi ha chiesto... mi ha ordinato...»

«Lo so» lo trasse d'impaccio con un sussurro. Sollevando il capo Andrej si accorse che lo stava guardando dritto negli occhi, costringendolo a reggere il suo sguardo. «Ti ha ordinato di ucciderlo.»

Non era una domanda, ma lo stesso assentì col capo, il collo rigidissimo. D'un tratto sentì insopprimibile la voglia di bere. Alzò il bicchiere e se lo portò alla bocca, ingollando un sorso robusto. Tossì un po', dopo.

«Non vuoi farlo?»

«Non importa quel che voglio io» fece, la voce rauca. «Il Vor è stato chiaro: ne va del nostro segreto e io sono l'unico là... alla Maslenitsa, mi ha detto, fra due settimane, poco prima che lo portino da Boris Novikh. Dovrò approfittare della confusione e del fatto che avranno allentato la guardia, sentendosi al sicuro – ora è controllato giorno e notte, non posso più entrare nella camera dove è imprigionato. Mi avvicinerò, sopraffarò le guardie e... e...»

Prese un altro sorso e tossì cavernosamente quando l'alcol gli andò alla testa, infiammandola. Raisa continuava a fissarlo in silenzio.

«Immagino che mi avrebbe comunque mandato da te» continuò, allungando la mano verso la bottiglia di Macallan. Non le chiese nulla, si servì da solo, versandosi una dose generosa nel bicchiere. Le dita gli tremavano. «Per vedere se sono intenzionato ad andare fino in fondo. Vorrà... vorrà avere una prova, no? Una garanzia. E tu puoi sezionare un uomo più di un bisturi, quindi...»

«Io posso cogliere solo il presente.»

«E cosa "cogli" adesso?» I denti batterono sul bordo del vetro. «Che cosa vedi?»

«Che sei spaventato, che non vuoi farlo, ma che lo farai.»

Bevve tutto d'un fiato stavolta.

«Merda» sibilò tra i denti. Il vetro tintinnò quando riappoggiò il bicchiere sul tavolo – sentiva male alla testa, le tempie gli bruciavano. «Questo coso, questo whisky, dico, è forte.»

«Andrej.» In tutto ciò lei non ne aveva assaggiato neanche una goccia. «Sai che è necessario, vero?»

«Lo so.»

«Se lui sapesse trasformarsi...»

«Lo so, lo so.» Scosse la testa, più volte. Sfiorò con lo sguardo quella fotografia piena di luce. «È che io non ho mai ucciso un mio simile. Mi sembra... mi sembra così sbagliato...»

«È come uccidere un essere umano.»

«Beh, non mi sono mai trovato a mio agio neanche con quello.»

Non aveva mai ucciso deliberatamente. Era successo per difendersi o in strada, per lavoro, nella druzina. Aveva ucciso una decina di uomini e li ricordava tutti, non sempre i loro nomi, ma i loro volti sì. A volte gli apparivano durante il sonno, come echi lontani. Il volto di suo padre...

Aveva sempre avuto una ragione, non era mai stata una cosa così, a sangue freddo, premeditata.

Devi ucciderlo perché potrebbe ucciderci tutti quanti, gli aveva detto Ljuba Vosikiev. Il suo sguardo era freddo quanto la voce, nessuna indulgenza in un volto che sembrava non averla mai concessa neanche a se stesso. Doveva essersi consultato con gli altri membri eminenti della comunità di vulkulaki, dovevano essere arrivati insieme a quella decisione, Vosikiev aveva poi emesso la sentenza. Andrej sarebbe stato solo l'esecutore materiale.

Devo ucciderlo perché...

«Tu l'hai mai fatto?» chiese, la voce ancor più arrochita.

«Uccidere un uomo?»

«Un vulkulaki. Hai mai ucciso un nostro simile?»

La vide esitare, socchiudere le labbra, richiuderle. Passò un teso momento di silenzio prima che rispondesse: «Una volta stavo per farlo.»

«E cosa ti ha fermata?»

Non lo aveva fatto nemmeno lei, quindi. Lukas... Lukas sì...

«È una storia lunga» tagliò corto Raisa e spostò lo sguardo alla finestra. Aveva incrociato le gambe; allungò una mano sul bracciolo della poltrona, sfregando lievemente la pelle con le unghie. «Se non te la senti, Andrej...»

«No. No, posso farlo. Posso riuscirci. Lo sai che non sto mentendo.»

«Sì, lo vedo.»

Deglutì a fondo. «È che ho sempre pensato... non so, forse mi illudevo. Pensavo di essere una brava persona.»

Chinò il capo e fu tentato di prendersi la testa tra le mani. Non lo fece solo perché si sarebbe sentito patetico nel cedere a un gesto del genere davanti a lei.

Passarono alcuni istanti di silenzio prima che Raisa riprendesse parola: «Sai, un tempo anch'io pensavo di essere una brava persona.»

Andrej sollevò lo sguardo. La fissò con disorientamento, lei stava guardando la fotografia.

«Sì, lo pensavo. Di fronte a un bivio avrei sempre scelto la strada giusta, ne ero convinta, quella moralmente accettabile o meglio: quella che la mia coscienza avrebbe accettato. Poi ho capito.»

«Che cosa?»

«Che non sono una brava persona – mi chiedo chi lo sia davvero a questo mondo. La vita mi ha messo davanti a delle scelte e allora ho capito di essere semplicemente qualcuno che fa quel che va fatto.»

Passarono altri istanti di silenzio, fiochi e persi. Raisa riportò lentamente lo sguardo su di lui.

«Tu chi vuoi essere, Andrej?»

«Non lo so» rispose con sincerità. «Forse... forse voglio solo appartenere a qualcosa.»

Non si sentiva sicuro di niente, in realtà. Erano giorni, settimane – mesi, quasi – che non si riconosceva più, che si chiedeva chi fosse, cosa fosse in grado di fare. Era tutto iniziato con la cattura di quel lupo: la sua vita aveva subito un'incrinatura, invisibile quanto dilagante, e ora la crepa si stava allargando. Se non fosse corso ai ripari tutto ciò che si illudeva lo facesse stare in piedi si sarebbe spezzato.

«Se vuoi davvero appartenere a qualcosa, se vuoi davvero sopravvivere, devi fare quel che va fatto» disse lei. Sciolse le gambe, si sporse verso di lui, arrivò addirittura a sfiorargli la mano, un gesto che lo fece quasi trasalire. Il suo tocco era tiepido, più caldo di quanto si fosse aspettato. «Ne va della salvezza di tutti, Andrej.»

Lui assentì, rigido. Il battito del cuore gli palpitava nella voce, ma riuscì a controllarlo. Alzò lo sguardo, incontrò i suoi occhi verdi così simili a quelli degli altri due ragazzi nella fotografia. Lei non sorrideva neanche in quel pezzo di vita rubato al tempo.

«Va bene. Lo farò.»

Parte più breve questa, come si è visto. Cosa succederà? Andrej ucciderà davvero Sereb? Ai posteri l'ardua sentenza! Voi pazzi lettori che seguite questa incasinatissima storia lo scoprirete presto. Nel prossimo capitolo arriviamo alla Maslenitsa, la festa della fine dell'inverno ;)

ps: mi son resa conto che non avevo ancora condiviso il ritratto di Aleksandr. Visto che fra poco si vedrà anche il padre, il famigerato Boris Novikh, lo metto così avremo presto i Novikh al completo:

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