VI. Cattura - seconda parte

Dal soffitto pendeva un lampadario a gocce di cristallo, la luce che si spandeva nella stanza era calda e dorata. Lei stava distesa sul letto, tra le coltri morbide. Parevano una distesa artica attorno all'involucro del corpo. Seta, pensò. Quella era seta, la poteva sentire al tatto. Quando era bambina, era stata abituata a maneggiare piante di gelso nella serra di sua madre. Piante che erano state trapiantate per sfidare le leggi del clima.

«Moriranno» sentiva dire. «C'è troppo freddo qui perché possano sopravvivere.»

«Basta adattarsi» rispondeva sua madre. «Anche la pianta più fragile può mettere radici.»

Per lei le piante erano come gli uomini: solo se lottano e si adattano, riescono a sopravvivere anche contro ogni previsione.

Il telefono squillò.

Allungò la mano verso il comodino e afferrò il cellulare. La chiamata era criptata: era Lukas. Sentendo il rumore dell'acqua che scrosciava nella doccia, decise di rispondere, ma tenne la voce bassa.

«Raisa? Sei da sola?»

«No.»

«Aleksandr Novikh?»

«È in bagno ora.»

«Posso parlare?»

«Sì.»

Si raddrizzò e prese un lembo delle lenzuola per coprirsi. Scorse la propria immagine nello specchio appeso davanti al letto, ma non vi si soffermò.

«Ho catturato dei lupetti.»

«Prego?»

«Ieri mi hanno rubato della kradija

«Ti sei fatto rubare della kradija? Tu?»

D'istinto sorrise, un sorriso che l'altro non poteva vedere.

Uno sbuffo dall'altra parte della linea, poi la sua voce roca: «Era un mio simile. Sei sicura che la linea sia protetta?»

«Sicurissima. Chi era?»

«Un ragazzo, l'ho catturato oggi e insieme a lui altri due come noi, uno dei quali un cucciolo che dice di essere il figlio del Vor Kirayev.»

Quella notizia incrinò la maschera dei suoi lineamenti. Anche se non si stava guardando allo specchio, poteva benissimo immaginare l'espressione stupita che le era sfuggita. Non allentava spesso i tratti del viso; aveva imparato a racchiudere le proprie emozioni, qualunque fossero, dietro la freddezza di uno sguardo impassibile, che tutto pareva farsi scivolare via di dosso. Era stata una dura e faticosa lezione da imparare quella della dissimulazione, le aveva richiesto anni di pratica, ma alla fine ne era diventata una perfetta adepta. Secondo Ljuba Vosikiev, che era stato il suo riferimento da quando era giunta a Mosca, saper mostrare solo quel che si vuole, celando cosa davvero si prova, è una delle migliori armi che un uomo, lupo o meno che sia, possiede nella lotta per la sopravvivenza. È l'arte più sottile, la più utile, la più ingannevole ed efficace. Essere un segreto, pensava Raisa, significa non permettere a nessuno di poterti svelare.

La voce di Lukas richiese attenzione. «Raisa, ci sei?»

«Sì, sono solo sorpresa. Sei sicuro che sia vero? Il figlio di un Vor?»

«Siamo alla base, sto controllando i documenti, ma uno dei miei assicura che sono veri e non è il primo arrivato. Devo portarli da Ljuba?»

«Quanti sono?»

«Tre.»

«Il nobile è un cucciolo?»

«Sì, il suo odore si sente ancora molto forte.»

«E gli altri due come...»

«Uno mi si è mostrato ieri, poi c'è una ragazza. Ho fatto due più due: sarà una vulkulaki anche lei.»

«Ci hai parlato?»

«Lo sto per fare. Ho detto di averli prelevati per "accertamenti". Ho dovuto fingere che il ladro non fosse il ladro, ma non so se ho fugato ogni sospetto. Avevano la kradija, la faccenda puzza, mi hanno fatto domande.»

«Muoviti cauto.»

«Lo faccio sempre.»

«Tu sei più uno che combatte in campo aperto, non nell'ombra.»

Lo aveva sempre pensato, da quando lo aveva conosciuto.

«Ma so anche stare in retroguardia, quando serve. Come dice Ljuba? Il lupo deve muoversi nell'ombra...»

«... ma arriverà il giorno in cui tutti temeranno di essere visti da lui sotto la luce del sole» concluse al suo posto. Le rimase un sapore amaro in bocca. «Chiamo Ljuba.»

«Digli cosa è successo, vorrà vederli.»

«Sicuro, soprattutto il figlio di Vor. A parte i Vosikiev non ho mai sentito di altri nobili con sangue di lupo ancora vivi.»

Chiuse la comunicazione quando sentì il rumore della porta della doccia che si apriva. Poco dopo seguì quello dell'altra porta, un tonfo attutito. Era già tornata distesa nel letto, le lenzuola attorno a sé, lo sguardo distrattamente volto al soffitto, quando Aleksandr Novikh entrò nella stanza.

La luce soffusa accarezzava i suoi capelli biondi, dandogli una sfumatura dorata, e spioveva sulle spalle nude, evidenziandone la forma ampia e affusolata. Indossava solo un asciugamano, avvolto attorno alla vita. Si avvicinò al letto, sguardo fermo, il passo cadenzato. Non sorrideva neanche nei momenti di intimità, aveva riscontrato Raisa nel corso della loro relazione, che durava ormai da parecchi mesi: come il padre, il potente Vor Boris Novikh, sembrava capace solo di ghigni sottili e insidiosi.

«Devo andare fra poco.»

«Va bene» fece lei, stiracchiandosi sul letto. Il movimento attirò l'attenzione di lui: i suoi occhi si assottigliarono, una luce maliziosa gli ballò tra le iridi azzurre.

«Anche se preferirei rimanere qui.»

«Non ci è data la possibilità di fare sempre quel che vogliamo.»

Lui fece un cenno col capo, poi si sedette sulla sponda e andò alla ricerca delle scarpe. Raisa si raddrizzò e lo raggiunse, sfiorandogli la schiena con la punta delle dita. Prima si era agitata sopra di lui, la chioma simile alla fiamma di una candela rovesciata – l'aveva vista dallo specchio. Aveva inseguito la scia di un piacere effimero come lo sono tutti i piaceri: facili da ottenere, difficili da trattenere. Era ancora vestita, come lui, si erano spogliati poi, smorzata la fretta del primo amplesso che li aveva fatti cozzare come pietre incapaci di generare scintille. Raisa aveva fissato il soffitto quando lui l'aveva ripresa, le gocce di cristallo del lampadario, così piccole, cangianti e perfette, che riflettevano una miriade di immagini spezzate della stessa scena: lei, nel bianco, con un uomo sopra di sé. Lei che non si cercava più in nessun riflesso.

«Ti voglio al mio fianco per la Maslenitsa quest'anno.»

«La festa d'addio all'inverno?» domandò, sporgendosi. Posò il mento sulla sua spalla, il fiato che gli carezzava il lobo dell'orecchio e il seno premuto contro la sua schiena.

«È il giorno del compleanno di mio padre, come al solito Sergej farà qualche casino dei suoi.»

«E ti serve supporto morale?»

«Mio padre gli perdona troppe cose.»

La voce di Aleksandr era dura come la sua espressione. Dal padre, il temibile Boris Novikh, aveva ripreso l'altera regalità dei tratti, il profilo da busto greco, un aspetto che lo faceva sembrare un principe kniaz delle antiche leggende. Ma in realtà Raisa ben sapeva che più che a un principe delle fiabe, quell'uomo era assimilabile a un re predone.

«I Dazla parteciperanno sia alla Maslenitsa sia alla festa di tuo padre.» Nominò il clan della Organizatsya a cui prestava servizio. «Ci sarò.»

Lui si girò a fissarla. I suoi occhi erano azzurri, un azzurro pallido e slavato, come quelli del padre e del fratello. «Non mi interessa che ci sei, voglio che tu sia al mio fianco.»

Raisa sorrise e non rispose. Si avvicinò alle sue labbra, emettendo un fiato sottile contro di esse. Presto venne il bacio, lento e avido, e lei lasciò vagare le mani tra i suoi capelli biondi, mentre lui portava un braccio a circondarla per la vita.

Si chiese cosa stesse facendo, in quel letto con quell'uomo, in una stanza ricca della via principale di Mosca, più fredda delle strade di fuori. Era lavoro? Era piacere? Tutte e due? Non era amore, di questo era sicura, ma lei non cercava l'amore. Sapeva bene quanto sacrificio quel sentimento richiede. Quando quel bacio sarebbe finito, lui si sarebbe rivestito, anche lei lo avrebbe fatto, ognuno avrebbe preso il suo cappotto, la sua macchina, la sua strada, la sua cena che lo aspettava altrove. Di quel contatto trafugato al normale fluire dell'esistenza non sarebbe rimasto che un alone, una macchia umida sulle lenzuola che una cameriera avrebbe ripulito da lì a poco.

Non desiderava l'amore, no; lo temeva come spesso fanno alcune donne, consapevoli di quanto bisogna immolare quando si ama.

Avrebbe dovuto chiamare Ljuba; lo avrebbe fatto appena Aleksandr avesse lasciato la stanza, pensò tra le sue labbra.

C'erano dei nuovi lupi in città e come lei si nascondevano.

Il lupo deve muoversi nell'ombra, ma arriverà il giorno in cui tutti temeranno di essere visti da lui sotto la luce del sole...

***

Li avevano messi in un camion e poi trasportati in un luogo non ben identificato. Con un cappuccio calato sul viso era stato impossibile capire dove si trovassero, neanche i sensi di animale avevano aiutato.

Gli tolsero i cappucci insieme ai legami, quando giunsero a destinazione. Si scusarono per i modi rudi, ma solo con Sasha.

«Dobbiamo accertarci che dite la verità.»

«Ve lo confermeranno» ripeté per l'ennesima volta il nobile, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Quei documenti sono veri, poi se volete chiamare mio zio...»

«Intanto dovete rimanere qui.» Uno degli uomini abbracciò con lo sguardo la stanza vuota dalle pareti scure e il pavimento di cemento. Sembrava di trovarsi in un hangar. «Temporaneamente. Sarà il Volk a dirvi quando potrete uscire.»

Il Volk. Quando lo aveva visto, Ilyas aveva temuto il peggio: l'uomo che la sera prima aveva derubato, che avrebbe potuto smascherarli con mezza frase, li aveva scandagliati per bene prima di parlare. Si era soffermato su Sasha, chinandosi su di lui, poi aveva guardato Aisha, infine il suo sguardo si era posato su di lui. Ilyas aveva cercato di rimanere impassibile, immobilizzato tra le braccia dei suoi scagnozzi. Non aveva mosso muscolo del viso come non lo aveva mosso l'altro. Quell'occhiata gli era sembrata durare un'eternità prima che l'uomo distogliesse lo sguardo e dichiarasse che non era stato nessuno di loro a derubarlo.

Deve aver sentito l'odore di Sasha, aveva pensato durante il tragitto in camion, legato, coi sensi isolati ma in allerta. Vorrà andare a fondo alla faccenda.

Ci ha catturati – mi sono fatto catturare.

Era un pensiero che gli aveva provocato un moto di bile al centro dello stomaco.

«Grazie» aveva sentito dire nel buio.

Era sua sorella e non stava parlando con lui.

«Cosa?»

«Grazie di quello che hai fatto.» Gli era sembrato di avvertire un movimento. C'era silenzio, erano vicini, raggomitolati sul fondo del camion, e la voce di Aisha era ferma, sinceramente riconoscente. «Se non ci fossi stato tu, saremmo stati perduti.»

«Io... no, non è niente» aveva balbettato Sasha e Ilyas aveva ringraziato il fatto che i loro visi fossero coperti così gli altri due non avevano visto la sua smorfia.

Si era sforzato di ringraziare anche lui: «Grazie, sì, anche se non c'era bisogno di spifferare la tua identità. Avevo tutto sotto controllo.»

«Ilyas, non dire cazzate.»

«È la verità. Quella era una carta da giocare.»

«La mia identità?»

«Sì.»

«La mia identità è mia, scusa» aveva allora mormorato l'altro e il suo tono era suonato stranamente deciso. «Decido io quando giocarmela.»

Ilyas non aveva più parlato.

Ora, in quella stanza senza finestre, dopo essere stati slegati e lasciati soli, iniziò a camminare avanti e indietro per sgranchire le gambe e rimettere in moto i pensieri. Erano in una situazione di merda, poco ci voleva a capirlo. Sotto il torchio del tizio che la sera prima lo aveva messo al tappeto dopo una lotta feroce – poco importava che fosse stato lui a iniziarla. Quella era la sua druzina. Non aveva idea per chi lavorasse, d'altronde non era importante saperlo: che fosse pieno di gente poco raccomandabile da quelle parti era indubbio. Cosa ci facesse un uomo-lupo in mezzo agli umani, a combattere per degli umani, non se lo chiedeva neanche. Il mondo è troppo pieno di marcio per andarsi a interrogare su ogni singolo bastardo che lo abita. Non gli importava che quello fosse un suo simile; voleva solo fuggire.

«Sentite, dobbiamo organizzare un piano.»

«Che piano?» domandò Sasha, che si stava massaggiando la guancia.

Gli avevano messo dei punti con un'anestesia sul momento, che gli aveva fatto digrignare i denti sul camion. Aveva l'aspetto di uno straccio sbattuto, pallido ed emaciato, ma sembrava potersi reggere in piedi. Ilyas a parte un paio di contusioni stava bene.

«Dobbiamo andare...»

«Attento» sibilò Aisha. «Potrebbero esserci telecamere.»

Si ammutolì all'istante, guardandosi intorno. Sentì sua sorella sospirare.

«Aspettiamo. Non parliamo.»

Avvertendo il nervosismo montare, Ilyas si risedette, la schiena al muro, a pochi centimetri da Aisha.

«Come stai?»

«Sto bene.»

«Sei sicura?»

«Sto bene, Ilyas. È Sasha che sta male.»

«No, no, io sto bene! Mi tira un po', ma va bene. Mi resterà qualche segno secondo voi? Non ho mai fatto a botte, quindi non so come...»

«Al massimo un ematoma» smozzicò Ilyas.

«Ah, beh, non è che la mia faccia sia mai stata così bella da preoccuparmi.»

«A me piacciono le tue lentiggini.»

A dire ciò era stata Aisha. Ilyas si girò verso di lei, stupito, ma niente superò l'espressione di puro sgomento del nobile. Divenne rosso come i suoi capelli.

«D-davvero? Io le odio.»

Patetico, non poté fare a meno di pensare lui. Tornò a guardare dritto davanti a sé, chiuse gli occhi.

Dovevo essere io a proteggerla, arrivò una scheggia di pensiero insieme a una voce.

Promettimelo, Ilyas. Siete l'uno la metà dell'altra. Promettimi che lo farai, che farai di tutto per salvarla, per salvarvi. Dovete stare insieme e non voltarvi indietro.

Serrò con più forza gli occhi e cercò di bloccare quella voce così come la scia di ricordi troppo taglienti che portava. Ogni volta vedeva case in fiamme, sventrate come gusci vuoti, il viso di sua madre dagli occhi fermi e disperati. Vedeva la propria mano stretta a quella di Aisha, lei così piccola, aggrappata a lui nella notte, mentre attorno a loro il mondo cadeva. Ricordava di aver desiderato solo di essere abbastanza forte da resistere per tutti e due; abbastanza forte da portarla via dal buio.

La porta si aprì. Era una di quelle porte che si trovano nelle prigioni: senza maniglie, una lastra di metallo dallo spessore tale da non far passare nessun suono, che si apriva e si chiudeva solo sbattendola. Il tonfo somigliava a una detonazione.

«Il Volk vuole parlarti» annunciò la sagoma apparsa sulla soglia, che si fece avanti, mentre il suo compagno rimase indietro.

Sasha iniziò ad alzarsi. «Ecco, ora gli spiego...»

«No, non tu. L'altro.» E posò gli occhi su Ilyas, occhi freddi e scrutatori.

In un primo momento lui non si mosse. Dovette trattenersi dal piegare le labbra in un sorriso amaro. Se lo aspettava. Non sapeva perché, ma se lo aspettava.

Si alzò, seguito dallo sguardo perplesso di Sasha e quello rigido di allarme di Aisha. Quest'ultima si alzò a sua volta.

«Perché lui?»

«Stai zitta» disse l'uomo. «Se non vuoi che quel pugnale che ti abbiamo sequestrato te lo infiliamo nella fica. Muoviti, tu.» E gli si accostò, incitandolo a seguirlo con una spinta brusca.

Verso di loro, lui e Aisha, non si facevano problemi dei modi che usavano. Nessuna sorpresa, sarebbe stato strano il contrario. Trattenne un ringhio tra i denti, comunque; la voglia di trasformarsi e lacerare la trachea a tutti quegli stronzi era tanta.

Ma li seguì, mostrandosi più mansueto di quanto non fosse. Intimò a sua sorella di non preoccuparsi. Lasciò lei e Sasha senza voltarsi, lo schianto della porta che accompagnò i suoi passi.

Una volta fuori, in un corridoio male illuminato da lampade che gettavano una luce pallida e malata tra le pareti, l'uomo che lo aveva prelevato lo apostrofò: «Non so chi cazzo tu sia, ma vedi di non metterti strane idee in testa. Ora ti portiamo dal capo e tu non fai tiri di mano, chiaro? Prova a scappare o a ribellarti e vedrai quanto la permanenza in questa druzina può essere dura.»

«Che paura» fece con noncuranza, attirandosi gli sguardi truci di tutte e due gli uomini. «Ditemi, quelle grosse pistole le portate per ornamento o per compensazione?»

Si beccò un colpo dietro la schiena, dato dall'altro uomo con la canna dell'arma, che lo fece boccheggiare e piegare le ginocchia. Ma non cadde. Ora il sorriso amaro gli sorse spontaneo. Un po' di umorismo becero e subito si offendevano, davvero patetico.

«Ti ho detto di non piantare casini, lurido khachi, hai capito? Tieni la bocca chiusa e muoviti.»

Khachi, ecco la collaudata parola che ancora mancava nel teatrino del disprezzo.

Li seguì allora, massaggiandosi la schiena, lo sguardo dritto e ancora quella traccia sprezzante tra le labbra. Non poteva fare a meno di provare piatto fastidio di fronte a quei modi: non lo toccavano perché era abituato. Aveva girovagato per più di un anno in quell'immenso paese, trovando ostilità ovunque posasse lo sguardo, e non si era mai fatto illusioni neanche prima sulla buona fede della gente, né sulla sua presunta gentilezza. Aveva avuto qualcuno che gli aveva insegnato a non fidarsi di nessuno. Chiunque avesse incontrato, anche il peggiore figlio di puttana del pianeta, non avrebbe superato chi gli aveva tolto la fiducia nel prossimo per sempre.

«Entra» ordinò l'uomo che lo aveva colpito, aprendo una porta, metallica anch'essa, alla fine del corridoio.

Ilyas, senza degnare di un'occhiata i due che rimasero sulla soglia, entrò. Dentro c'era l'uomo chiamato Volk, lui e la sua altezza imponente, quegli occhi chiari da radar.

«Ci si rivede» disse solo quando la porta venne chiusa in un sordo clangore, sicuro che nessuno potesse più sentirlo.

Ilyas si chiese come avesse fatto a non capire la sera prima che era un suo simile. Il sorriso che gli rivolse, nell'esatto momento in cui furono soli, era quello di un lupo.

Visto che è il suo primo POV e sarà un personaggio sempre più rilevante metto il ritratto di Raisa ;) Alla prossima tornata ci sarà Sasha


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